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Sindrome di Stoccolma

La strada che collega lo sperduto aeroporto di Skavsta a Stoccolma è immersa tra le colline e i boschi scandinavi. Si impiega più di un’ora per raggiungere la capitale, ma vale la pena atterrare “al largo” per avere uno sguardo d’insieme sull’essenza pura della Svezia. Sperdute fattorie in legno rosso spuntano fascinose dai boschi di abeti e di betulle. Sulle colline gli sparuti gruppetti di case, ugualmente rosse, trasmettono l’insana voglia di abitarci. Il mio innato desiderio di vivere lontano dai frastuoni, e nella tranquillità che solo le fiabe sanno donare, prende forma di fronte all’orizzonte sterminato di questo mondo nuovo. I laghetti ghiacciati ai piedi delle casupole regalano la poesia rassicurante di una natura materna e protettrice.

La città, solcata dal freddo prima che dal mare, sembra riconoscere un premio allo sparuto visitatore che ha osato raggiungerla. Le piccole isolette su cui sorge la rendono piacevolmente curiosa. La vera bellezza, come per le amanti più attraenti, sta nel suo cuore. La città vecchia, Gamla Stan, è infatti un borgo medioevale perfettamente conservato. Il periodo invernale ci ha permesso di viverla senza i turisti, nella sua splendida e gradevolissima solitudine. Vicoletti lastricati che si annodano, tra biciclette appoggiate ai muri e case irregolari. Qua e là qualche campanile imponente, guardato a vista da negozi d’antiquari e piazzette racchiuse in un’intima armonia. Una piccola Praga, senza l’assillo dei villeggianti, né l’invadenza dei negozi per turisti. Per questo, ci siamo detti, si può forse dire che il centro storico non abbia eguali.

Il resto sono vie commerciali, sono ponti sul mare, sono giardini. Sull’isola di Djurgarden, sorge il museo all’aperto di Skansen, che racchiude forma e sostanza della vita contadina lappone. Imperdibile passeggiare tra le fattorie, le botteghe, le case spettacolarmente conservate o minuziosamente ricreate. Il vasamuseet custodisce il galeone del ‘600, naufragato nel porto della città. Spettacolare vederlo dal vivo, anche se il museo ridonda di suppellettili e immagini inutili.

Qualche minuto di tunnelbana a sud della città vecchia, per vedere il magnifico cimitero di Skogskyrkogarden. Un parco sconfinato, dove boschi di abeti trasmettono una vera idea di pace. La neve, che anche qui ci ha accompagnato, ha avvolto l’atmosfera col suo tocco ovattato e scenografico. Passeggiare nel bosco al solo rumore della neve che stride sotto le scarpe fa venire i brividi.
Abbiamo avuto la fortuna di vedere l’austera Stoccolma nuvolosa, quella fiabescamente innevata e quella sfarzosamente irradiata dal sole.
Culinariamente rimane vivido il sapore del filetto di renna ed il carpaccio d’alce. Irrinunciabile anche la tipica birreria Akkurat, appena a sud di Gamla Stan.
Tutto questo appaiato ad un senso civico quasi inspiegabile. Questa è Stoccolma.
Provo un disarmate senso di rapimento, che mi ha fatto subito sognare di rimanere e promettere di ritornare.

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L’indimenticabile a Bruxelles

“…del resto alla fine di un viaggio, c’è sempre un viaggio da ricominciare
(F. De Gregori -Viaggi e miraggi)

Bruxelles non è una città bellissima, ma è una città bella. Non rivendica le orde di comitive di Parigi, ma accoglie quietamente molti turisti. Non possiede il patrimonio artistico di Praga, ma la sua piazza è la più bella che io abbia visto. Non offre la vita notturna di Londra e di Amsterdam e nemmeno la movida delle città spagnole, ma qualche buona birra si può bere anche lassù. Oltre alla magnifica Grand Place, rimangono nella mente le torri gotiche della Cattedrale di San Michele e Santa Gudula, l’imponenza della Basilica del Sacro Cuore (molto meglio fuori, che dentro) e la stravaganza dell’Atomium. L’irrinunciabile, insomma.
Ma personalmente ricorderò questa breve visita per altri motivi.
– Ricorderò la salubre aria del carro bestiame che ci ha portato dall’aeroporto al centro città: tre quarti d’ora di apnea. Avevamo un’idea diversa sui benefici del maestrale, vento del nord.
– Resterà nella memoria anche il primo impatto con la città. L’interminabile mercato, la confusione della sua gente, dei suoi odori e dei suoi colori ci hanno trasportato per qualche minuto a Marrakech.
– Ricorderò con piacere il rapporto qualità/prezzo dell’albergo, che ha sorpreso anche me. Posizione centralissima, prezzo onestissmo e camere decisamente confortevoli. Colazione molto buona. Non avrei consiglio migliore per chi dovesse recarsi nella capitale belga.
– Confesso che il pensiero di una compagine tanto variegata, mi aveva tolto parecchio sonno. Non è facile assecondare esigenze, tempi e desideri di quattordici teste diverse. Tra chi sclera se esce dalla parte sbagliata della metrò e chi mangerebbe ad ogni angolo della strada, c’è di mezzo l’universo intero. Ma dicono sia andata bene.
– Come dimenticare poi la flebile voce del Cavalier Rodella, che radunava il gruppo col fioco sussurro di: “Gruppo Baù… Di qua”? Se il pastore belga aveva il suo gregge, non gli è mancato neppure il cane che rincorreva e radunava le pecore.
– Memorabile il quarto di finale tra Italia-Spagna nella bettola islamica. Vedere Toni che non tocca un pallone che sia uno, sorseggiando al contempo la brodaglia calda, spacciata per birra… non ha prezzo: solo da Sam. E poi l’ebbrezza dei rigori in camera, stipati tutti attorno ad un letto, a vedere Casillas che fa le evoluzioni dentro un mobiletto di radica.

Grazie a tutti

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Ritorno a Praga

Me la ricordavo così bella. Anche se l’avevo vista negli anni in cui la giovinezza idiota sovrasta il buonsenso, quando nelle vacanze estive ci spingevamo in ogni angolo d’Europa, senza preparazione alcuna e senza guide, armati solo del nostro esuberante coraggio e della nostra fisiologica stupidità.
Praga in estate tracima di turisti assetati di luoghi da visitare, di angoli da scoprire, di scorci da fotografare. In inverno è più vivibile, benché sempre assaltata dalle orde di visitatori e dalle comitive made in Japan.
Il cuore di Praga è la piazza della Città Vecchia, magnifica ed affascinante, dalla quale partono e s’aggarbugliano tantissimi vicoletti acciottolati. L’ascesa alla torre dell’orologio ci ha regalato un ampio panorama sulla città, anche se il sole faceva spesso i capricci. La cosa più piacevole è certamente perdersi tra i negozietti e le birrerie storiche, vagare senza metà, con l’unico obiettivo di respirare l’atmosfera nordica e fondersi soavemente con essa.
Il quartiere ebraico di Josefov mi ha un po’ deluso. È decisamente suggestivo e singolare il cimitero, ubicato al centro del quartiere dove migliaia di lapidi di sovrappongono all’infinito, ma sono di scarso interesse le innumerevoli sinagoghe intrise di testi ed oggetti della cultura ebraica dei secoli scorsi. Il biglietto, che consente la visita a tutti i luoghi “sacri” non è affatto giustificato.
Dal maestoso ponte Carlo si ha una scenografica vista del castello e degli incantevoli edifici che lo affiancano. Saliti dalla scalinata vecchia (Staré zàmecké schody) abbiamo visitato la cattedrale di San Vito con la tomba di San Venceslao, la torre delle polveri, la basilica di San Giorgio ed il Vicolo d’oro, nel quale piccolissime casette sgargianti (in una vi abitò Kafka) restituiscono una fedele immagine della Praga che fu. Sempre dall’alto del quartiere del castello, piazza Hradcany, fiancheggiata dal Palazzo Schwarzenberg, permette un’ammirevole vista sulla Città Vecchia. Da qui si può discendere al quartiere di Malà Strana attraverso la storica Nerudova.
Dopo aver percorso anche le vie della Città Nuova (tra tutte, piazza Venceslao), ci siamo spinti fino alla rocca di Vysehrad, nella zona sud. Un bellissimo parco e poco più… forse non vale la pena perderci un paio d’ore come abbiamo fatto noi.
Tra le innumerevoli birrerie che offrivano ottimo vitto e birre squisite, segnalo la celebre U Fleku (nella Città Nuova), tipicamente da turisti, con fisarmonica e tavolate di giapponesi, ma davvero imperdibile. La birra scura Flekovské che producono ed offrono è davvero fantastica. Nella Città Vecchia c’è l’imbarazzo della scelta e la Tigre d’oro (via Husova 17, senza indirizzo non si trova perché è imboscatissima) è decisamente la migliore. Il presidente ceco ci portò Bill Clinton per fargli assaporare la Praga più vera: non ci sono turisti, ma solo vecchi praghesi affezionati, quasi unicamente uomini. Non entrateci per bere un tè o una birra piccola: non esistono.
Noi abbiamo soggiornato all’hotel Waldstein, che essendo a pochi passi dal ponte Carlo, ci ha permesso di muoverci sempre a piedi. Una camera ampia, da quattro posti ha reso confortevole e comodo tutto il soggiorno. Ottima e abbondante la colazione e tutto il servizio. Unica pecca il letto troppo imbarcato: inadatto a chi soffre di mal di schiena.
Freddo, ma non troppo. Speravo nel fascino nordico della neve, invece solo nuvolaglie e qualche raggio di sole qua e là. Per fortuna pochissima pioggia, quasi nulla.
SkyEurope promossa a pieni voti: venti minuti d’anticipo sia in andata che al ritorno.

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Nel cielo d'Irlanda

Oh Irlanda, non sei forse così maestosa come una sposa riccamente adornata?
E con tutto il mio amore represso nel cuore, ti dico addio!
(J. Locke)

Nell’animo mi sono sempre sentito profondamente irish. È vero, e qualcuno lo ha già obiettato, che sono un tipo molto british. Il fatto è che sono british fuori, nel modo di apparire e di approcciare la vita. Il distacco, l’ironia e quella fastidiosa aria di superiorità non sono forse tipicamente inglesi? Ma nel sentimento, nella malinconia e nella romanticità delle parole, nell’amore per la genuinità e per la tradizione, nell’affetto verso le piccole gioie della vita e dell’amicizia… io sono irish, fino in fondo.

Riempie lo spirito, percorrere i prati e abbandonarsi alla frescura dell’aria. Perdere lo sguardo nel cielo che s’inventa un grigio mai visto, e poi respirare profondamente con la sensazione ancestrale di aver attinto ad un nettare divino. Parlare col mare e col suo impetuoso blu, per condividere la gioia e le tristezze, nel turbine inequivocabile di percepire una risposta. Percorrere le strade strette e ricurve è come entrare nella dimensione folle di un vortice che non ha tempo, dove lo spazio sembra infinito e la libertà diventa l’unica forma di natura. Guardarsi negli occhi nella vastità demarcata di un affollato pub, ascoltare il silenzioso suono del suo frastuono, che solo le situazioni magiche sa regalare. Questa è stata per me l’Irlanda, un viaggio di sensazioni e percezioni che hanno appagato la fame del mio spirito.

Mercoledì – La pioggia di Bergamo è mandata dal destino, le gocce sui vetri dell’aeroporto sembrano una somministrazione omeopatica per adattare i nostri spiriti alla transumanza d’oltre confine.
Dall’alto, la foce del fiume Shannon apre le sue braccia d’acqua al nostro arrivo, mentre un timido sole fa capolino tra le nuvole cariche di grigio.
Le prime foto sono tutte per i resti della Quin Abbey, uno dei tanti conventi francescani nati nel tardo medioevo e distrutti dal trascorrere del tempo. Acclimatati nel vicino pub di fronte ad una Smitwick’s rossa, ci avviamo verso Knappugue Castle, perfettamente anonimo nel suo genere. Virata verso nord ovest. Sulle sponde dell’Atlantico, dove le terre calpestate da arrembanti bovini si ergono veementi sul mare cobalto, incontriamo la bellezza più esclusiva del viaggio, le Cliffs of Moher (foto sotto). Enormi scogliere a picco sull’oceano, che mozzano il respiro e richiamano subitanee la grandezza dell’Onnipotente. Si ha subito l’impressione di aver toccato l’apice del viaggio. Guardo gli occhi Giorgio inebriati da tanta grandezza e gli chiedo: cosa può esistere di più grandioso?
Serata nel piccolo e suggestivo villaggio di Doolin.

Giovedì – Ci svegliamo guardando il mare e la sparuta manciata di case che sovrasta il litorale. Abbandoniamo da subito l’idea di raggiungere le isole Aran, poiché il tempo troppo spesso impone delle scelte. Le isole sono famose anche per i maglioni di lana grezza e si racconta che le mogli dei pescatori li fabbricassero per i mariti con ogni sorta di fantasia, in modo che se fossero stati inghiottiti dall’impeto del mare, sarebbe stato facile riconoscerne i corpi anche dopo molti giorni di deriva. A Sud di Galaway, incontriamo il Dunguaire Castle, che riporta alla mente il seducente Eilean Donan, a nord di Edimburgo.
L’ingresso nel Connemara segna l’approdo ad una nuova dimensione. Paesaggi incantati e colline rosse, intervallati da laghi di lapislazzuli e cumuli di torba. Qualche casa qua e là ci ricorda che siamo ancora in un pianeta di umani.
Entriamo nella fortezza di Aughanure Castle, lambita dai raggi del sole e dai vasti prati. Un cane da caccia scorazza tra i muretti a secco, regalandoci un’altra immagine dell’Irlanda che t’aspetti.
Sull’oceano, la spiaggia caraibica di Lettermullan ci fa passeggiare sui coralli: è stupefacente vedere la mutevolezza di questi luoghi. La serata scivola nei pub di Galaway, tra le vie colorate, la musica dei violini e le buone birre. La città che ospita il Festival internazionale dell’ostrica non può esimerci dall’assaggiare il piatto locale. Troppo azzardato l’abbinamento con la Guinness, ma paese che vai, usanza che trovi…

Venerdì – Restiamo delusi dal consiglio della guida sul paesino di Adare. Quattro tetti di paglia non possono costituire “il villaggio tipico dell’Irlanda”. Tutt’altra sensazione di fronte alle rovine del convento domenicano di Killmallock, dove l’eterno connubio tra i grigi della viva pietra ed il verde dei pascoli rigogliosi appaga anche gli sguardi più esigenti. La cena è a Killarney, con uno splendido filetto al sangue, mentre si gufa contro i cugini gallesi, impegnati in un match di rugby contro le Isole Fiji.

Sabato – Iniziamo il Ring of Kerry, percorso obbligato per chi visita le coste gaeliche, consapevoli che le nostre deviazioni dall’itinerario standard accresceranno lo spessore del viaggio. La vasta baia nei pressi di Glenbeigh sembra uscita da una pubblicità. Qui l’oceano non ha né limiti, né traguardi e ti senti piccolissimo nel bel mezzo dell’immensità. Poi le strade ad arco ci scagliano come frecce impazzite verso panorami inesauribili. La costa frastagliata nasconde a tratti insenature riparate o manipoli di case bianche, mentre altre volte mostra isolette lontane ed inarrivabili.
Spossati ci buttiamo nel centro di Cork alla ricerca di una sistemazione, ma il traffico caotico e la scarsa disponibilità di alloggi ci fanno desistere presto. Stremati, ripieghiamo verso sud, ancora una volta ascoltando il richiamo del mare. Kinsale, abbarbicata attorno al suo porticciolo è la più classica delle cittadine marittime. E metaforicamente rientriamo a riposare nel nostro porto, dopo una lunga giornata di furiosa bufera.

Domenica – Rapida visita ancora all’abitato di Kinsale, capitale gastronomica d’Irlanda e teatro di una storica battaglia tra Irlandesi ed Inglesi. Il vicino Charles Fort, fortezza seicentesca tra le meglio conservate d’Europa, dona all’atmosfera un accattivante tono militare con bellissimi panorami e una mordente decadenza. Veloce passeggiata nell’insipido centro di Cork e visita alle carceri del Cork City Goal completamente al di sotto di ogni attesa. Riprendiamo la marcia attanagliati dalla delusione.
Nel paesino di Cahir, prima di scattare qualche foto al castello, ci concediamo la sfida di rugby Irlanda – Argentina, in mezzo al tifo degli abitanti locali. Il pub che trasuda di birra e di passioni ci ospita con affetto ed orgoglio. La sconfitta della nazionale non intacca l’entusiasmo e la gioia dei supporters. Il terzo tempo, da giocare tra pinte schiumose e frasi strampalate, è un’emozione senza eguali.
A Cashel troviamo velocemente un’ottima sistemazione, proprio ai piedi della rocca che visiteremo l’indomani.

Lunedì – Rock of Cashel si erge maestosa sopra l’omonimo paese. Le mura circondano quel che rimane della fortezza e dell’abbazia. In mezzo all’imponenza degli edifici del potere, una piccola cappella romanica si ritrova circondata da tombe e croci celtiche. Uno sguardo d’insieme è l’ennesimo ricordo del furore di Cromwell.
Nel pomeriggio deviazione inutile al monastero di Kell, poi arrivo a Kilkenny. L’ennesima sosta al pub ci preclude l’accesso al castello. Solo la buona musica della sera ci ripagherà dello scotto subìto.

Martedì – C’è tempo solo per una fugace visita al monolite più grande d’Europa (il Browne’s Hill Dolmen), tanto grande quanto deludente, e per fare due passi nell’ormai conosciuto quartiere di Temple Bar a Dublino.
Il cuore è carico di colori, odori ed emozioni. Resterà praticamente tutto.

Cliffs of Moher

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Viaggio in Andalucia

Vamos a la playa todos con sombrero
el viento radioactivo despeina los cabellos

(I Righeira – Vamos a la playa)

L’Andalucia è un territorio incantato, effervescente; un luogo dove la cultura della Spagna cattolica si mescola a quella dell’Africa islamica. Regione di frontiera, spruzzata dai mari, dai venti e da tanto sole. Dicono sia la Spagna “vera” e più tipica. Noi l’abbiamo trovata affascinante e suggestiva.
Abbiamo cercato di assaporare l’aria andalusa toccando alcune città e paesi, ma non abbiamo saputo resistere alla tentazione di fermarci al mare, per ritemprare fisico e mente, e per godere appieno del clima meraviglioso.
Dopo la scelta sempre vincente della formula “fly & drive”, questo è stato il nostro itinerario.

Martedì: Siviglia, l’elegante.
Approdare nella più grande città andalusa ci lascia subito esterrefatti. Fatichiamo a trovare parcheggio nelle trafficatissime vie del centro ed inizio già a pensare che la vacanza sia partita col piede peggiore. Mi conoscete: scrupoloso calcolatore di situazioni, meticoloso programmatore di tempi. L’idea di perdere minuti preziosi nella rincorsa al traffico mi innervosisce (n.b. le cose che mi rendono più nervoso sono il traffico e la fame. Immaginatemi sveglio dall’alba, digiuno, verso le 13, imbottigliato in una città straniera). Come accade sempre, la situazione si risolve presto. Troviamo anche un ottimo hostal, proprio a due passi dalla cattedrale, in Avenida de la Constitucion. Una chiesa magnifica e suntuosa. Saliamo anche sui 90 mt della Giralda: il panorama sulla città toglie il fiato. Le piazzette colorate sotto di noi sembrano sfumare e dissolversi nelle strette vie che escono dalla città. È bello girovagare per il centro, senza avere alcuna meta se non quella di “respirare” quanta più aria possibile di questa elegante città. I viali enormi ci accompagnano nell’imponente Piazza di Spagna. Edifici di pietra rossa, splendidamente ornati di ceramiche bianche e blu: un trionfo per la vista e per l’estetica. Facciamo un giro nel quartiere Barrio de Santa Cruz, per iniziarci al decantato rito delle tapas. Rimaniamo un po’ delusi… ci aspettavamo una cucina decisamente migliore. Un giro notturno ancora nel centro, poi a letto.
Vorremmo trattenerci ancora a lungo, ma ci attendono altre mete. Partire suona quasi come una violenza. Ma abbiamo deciso di “assaggiare” poco di molto, non molto di poco.

Mercoledì: Cordoba, la rurale.
L’auto affidabile ci consente di raggiungere velocemente Cordoba, meta più a nord del nostro itinerario. Troviamo facilmente un hostal a due passi dalla Mezquita. Prima di pranzo cerchiamo di orientarci. Vicoletti colorati si snodano attorno alla moschea-cattedrale, emblema della città. Vaghiamo nel giardino arabeggiante, tra rigagnoli d’acqua e piante d’arancio. Entriamo nella Mezquita e ci pare di essere approdati in un’altra dimensione. Un po’ come nei film fantastici, quando superando un muro magico si entra in un mondo irreale. È la sintesi perfetta della guerra tra Islam e Cattolicesimo, crogiuolo suntuoso di culture e religioni contrastanti. Il susseguirsi degli archi fa girare la testa e se non fosse per il via vai di turisti si coglierebbe anche una dimensione di antica e profonda spiritualità. Quella spiritualità che supera i confini delle religioni, che avvicina l’uomo a Dio, qualunque Dio sia.
Torniamo a perderci nuovamente nel dedalo del quartiere ebraico della Juderia, tra le zingare che ci offrono rametti portafortuna, fontane nascoste, giardini privati e negozi coloratissimi. Cena all’ottimo Museo delle Tapa y del Vino, poi una passeggiata oltre il ponte del Guadalquivir, per fotografare la Mezquita anche di notte.

Giovedì: Granada, la fascinosa.
Nel tentativo di raggiungere una zona centrale ben definita dove parcheggiare, mi ritrovo in macchina nel quartire arabo dell’Albaicin, costretto a ripiegare gli specchietti per poter passare tra le case propotentemente a ridosso degli angusti vicoli. Un susseguirsi di salite e discese, che portano chissà dove e chissà come. Anche qui la fortuna ci sorride: troviamo parcheggio e un bellissimo hostal proprio sotto l’Alhambra, a pochi minuti dalla cattedrale. Iniziamo subito la ripida salita che tra stretti vicoli e suggestive gradinate porta al palazzo-fortezza. Immenso. Due ore non bastano per visitare bene tutto il complesso. Palazzi con interni magnificamente rifiniti, torrioni difensivi, fontane e giardini splendidamente rigogliosi. Vasche e giochi d’acqua impressionanti per l’epoca della progettazione. L’Alhambra, che dall’alto della rupe domina Granada, ci regala un panorama su tutta la città. Torniamo a piedi nel quartiere arabo, per fotografare la fortezza in tutto il suo splendore. Ancora a piedi tra i vicoletti moreschi, prima di cenare e andare a dormire. Rimarrà il ricordo del gazpacho, che incuriosito ho deciso di ordinare, ma che schifato non sono riuscito a terminare.
Dedichiamo l’intera mattinata al centro storico che gravita attorno alla cattedrale. Imponente tra le case, non la ricorderemo come la migliore delle chiese. Pomeriggio, è tempo di ripartire.

Venerdì: Ronda, la misteriosa.
Ci spingiamo verso l’atlantico, per avvicinarci alla meta marina che vorremmo raggiungere. La distanza è troppo elevata e occorre fare una tappa intermedia: la cittadina di Ronda fa proprio al caso nostro. La strada panoramica tra le montagne della Serrania de Torrecilla, ci regala alcune foto, tra cui il castello di Teba.
Dopo i fasti e le confusioni delle grandi città appena viste, abbiamo bisogno di ridimensionarci. Ronda è un centro relativamente piccolo, ma non meno affascinante dei precedenti. È costruita a picco, sulle due sponde del fiume Tajo, sospesa a 100 mt dall’acqua e collegata da due bellissimi ponti. Si respira un’aria strana, una miscela di fascino e mistero. A vederla di primo acchito, la panoramica della Ciudad dal Ponte Nuevo risulta quasi sinistra. Storie di battaglie e di costruttori morti nel baratro di quel fiume che scorre in fondo, lontanissimo, incrementano ancor di più la sua seduzione. Plaza del Socorro ci ricorda ancora una volta i paesini siciliani, laddove è ancora vivo l’influsso moro. Entriamo in una delle più antiche e prestigiose plazas de toros, raccogliendo un pugno di arena che si aggiungerà alla mia collezione di “sabbie preziose”. Cena a base di pesce come Dio comanda, alla Marisqueria Paco. Alla sera un giretto per la Ciudad araba.

Sabato: Zahara de los Atunes, il vero mare nostrum.
Sappiamo che il mare che incontra i nostri gusti non appartiene alla Costa del Sol, deturpata pressochè ovunque da abusivismo edilizio, cementificazioni selvaggie e orde di insopportabili turisti. A questo pro abbiamo deciso di raggiungere l’Atlantico, laddove esiste ancora un po’ di natura, dove le spiagge si alternano alle scogliere, dove il vento soffia forte ed il sole non tramonta mai. La presenza esclusiva di spagnoli ci convincerà successivamente che la nostra scelta non è sbagliata. Tutt’altro. Per raggiungere la meta ipotizzata di Zahara, dove non abbiamo prenotato nulla (come tutto il viaggio del resto), decidiamo di percorrere la panoramica verso sud, verso la Costa del Sol. Un susseguirsi di pueblos blancos (villaggi bianchi) ci offre un’ulteriore e stupenda dimensione della Spagna. Incontramo Benadalid, Algatocin, Gaucin ed il magnifico Casares. Pugni di case bianche nel rigoglioso verde delle montagne del Parco di Alcornocales.
Arriviamo a Zahara. Ci basta un’occhiata al mare ed al paesino per convincerci. Resteremo qua fino al termine della vacanza.
La spiaggia di dodici chilometri è limitata da scogliere bellissime. Le rovine di un castello moresco ed alcuni fortini della seconda guerra mondiale (immagino prevenzioni inutili realizzate per il D-day) aggiungono un po’ di storia alla bellezza del luogo. Il sole sembra non tramontare mai sulla Costa della Luz. Sono le 21.45 quando fotografo il primo tramonto. Rimarrà chiaro fino alle 22.30. Soffia un vento forte, a tratti fastidioso, ma che a me sembra stupendo. I pochi turisti, che macchiano di tanto in tanto l’enorme spiaggia, si riversano di sera nella miriade di ristoranti. Non credo ai miei occhi: sono capitato in un paese di ristoranti. Nessun negozio (solo qalche piccolo market e farmacia), ma tantissimi luoghi dove mangiare. Il paradiso, un po’ lo immagino così.

Mercoledì: Gibilterra, doverosa finzione.
Come intermezzo alla vacanza decidiamo che non possiamo rinunciare ad una visita a Gibilterra. Si trova ad un’ora di macchina, un’occasione unica ed irrinunciabile.
Dopo i controlli di rito, necessari per calpestare il suolo inglese, attraversiamo la pista dell’aeroporto che taglia la penisola. È strabiliante vedere il semaforo che blocca pedoni ed auto in caso di passaggio di aerei. Saliamo con un pulmino alla rocca. Il piccolo castello, le grotte e l’infinità di macachi non valgono assolutamente il viaggio. Mi consola il panorama, la vista del Marocco, la sensazione di calpestare una delle famose Colonne d’Ercole. Il centro città è una deludente riproduzione del paesino medio inglese. Pub dallo stile anglo, cabine telefoniche londinesi, streets dai nomi di politici britannici contribuiscono ad alimentare questo mito per i turisti. Ne esco un po’ deluso, ma felice di aver visto personalmente la reltà di Gibraltar.

Venerdì notte: Arcos e Carmona, tappe del ritorno.
Abbandoniamo Zahara la sera di venerdì. Il volo da Siviglia di sabato mattina ci spinge a trascorere la notte in viaggio, magari toccando qualche altra veloce meta.
Nel tragitto facciamo sosta ad Arcos dela Frontera, arroccata splendidamente sul crinale di una montagna. Il centro medioevale è molto bello. Abbiamo poco tempo… toccata e fuga.
Raggiungiamo Siviglia, ma mancano ancora alcune ore al volo. Ad una ventina di km dall’aeroporto conosciamo l’esistenza della città di Carmona. È notte fonda, ma torme di giovani ci ricordano che in Spagna la movida è un’istituzione. La Porta di Siviglia ci accoglie maestosa per l’accesso alle mura della cittadina, sorta proprio sulla via Augusta che collegava Roma a Cadice. È l’ultimo suggello di questo splendido viaggio.

Ronda (foto mia)

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New York, sette vizi capitali

Ecco sette motivi per visitare New York ed altrettanti sette per non farlo.

1) È una città multietnica. In realtà è difficile capire se sia davvero popolata da centinaia di nazionalità, oppure se gli abitanti vadano considerati tutti apolidi. Sta di fatto che si respira un’atmosfera strana: non esiste il diverso, perché il diverso è la normalità.
2) La maggioranza dei tassisti non capisce nulla di quello che si dice loro. Insomma puoi permetterti di decidere tu le regole dello slang, tanto il tassista non ti capirebbe comunque e se ti capisce è per il gesto con la mano che gli hai fatto. Alla fine scendi dal taxi convinto di aver parlato un perfetto dialetto del South Dakota e per qualche minuto pensi che potresti insegnare benissimo italiano alla Columbia Univerisity. Al primo “fuck off” ricevuto, ritorni con i piedi per terra.
3) I grattacieli. Appena arrivato a Manhattan inizi ad evocare le teorie falliche dell’architettura classica oppure ad interrogarti sul bisogno recondito dell’uomo di tendere verso Dio. Capisci cosa poteva provare un mercante del 1200 quando arrivava alle porte di San Giminiano.
4) I jeans. Poter entrare in un negozio Levi’s con la disinvoltura dell’ingresso in tabaccheria è una soddisfazione che occorre togliersi. Se guardi il prezzo non è per decidere quale modello è consigliabile scegliere, ma solo per capire se prendere uno o due paia dello stesso modello.
5) La sicurezza di Manhattan. È impressionante rendersi conto di quanto una città così ricca sia altrettanto scarna di rischi. Paradossalmente mi sono sentito più in pericolo parcheggiando a Mantova che passeggiando per la quinta strada.
6) La frenesia della gente. Ti ritrovi turista statico in una città dinamica. Tutto corre e tutto scorre, e dovunque tu ti muova, ogni cosa o persona è sempre più veloce di te. La sensazione è quella dei birilli gommati che sorvegliano le carreggiate dei flipper. Piacevolmente inebetente.
7) Il fuso. Pensare che quando vai letto, i tuoi colleghi stanno per alzarsi… non ha prezzo. Val bene un lungo viaggio.

Motivi per non andare:
1) È una città multietnica. In realtà è difficile capire se sia davvero popolata da centinaia di nazionalità, oppure se gli abitanti vadano considerati tutti apolidi. Chi cerca “l’America” rimane deluso. Al suo posto una versione free-style di Cina, Pakistan, Portorico, India…
2) La maggioranza dei tassisti non capisce nulla di quello che si dice loro. Sali con la speranza che prestino attenzione almeno alle dita che usi per indicare il numero della street. L’ottava volta che ti ritrovi a Brooklin, mentre volevi visitare Central Park, capisci che il metrò non è poi così malaccio…
3) I grattacieli. Appena arrivato a Manhattan ti assale la “sindrome da costruttore edile”. Fotografi qualsiasi palazzo grigio che sovrasti la tua testa. Riempita la scheda sd della fotocamera, ti rendi conto che anche qualche scatto con la tua faccia potrebbe essere gradito ai genitori.
4) I jeans. Entri in un negozio Levi’s e temi di essere finito al mercato della frutta. Prendi coscienza quando inizia a chiedere una bilancia per pesare i tuoi 501.
5) La sicurezza di Manhattan. Se a piedi sbagli un semaforo, rischi il carcere a vita oppure il trapianto di femore.
6) La frenesia della gente. Dopo una settimana ti viene il dubbio: o sei tu che hai problemi seri di deambulazione, oppure sono questi che mettono le anfetamine nei bigmac.
7) Il fuso. All’andata poco male. Al ritorno rimani rincretinito per giorni. Dopo pranzo vorresti il tè coi biscotti, mentre alle quattro di mattina ti svegli con una gran voglia di hamburger e patatine.

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