Archive for category Varie

Non cambierei una virgola…

Alcuni si credono poeti moderni solo perché smettono di usare le virgole
(V. Butulescu, Aforismi)

A volte basterebbe poco. Una virgola, un punto, un “a capo” azzeccato. Basterebbe un po’ di punteggiatura per rendere la vita più semplice a tutti.

Il cartello sotto è stato esposto in un rifugio della Lessinia. Niente di drammatico, ma l’ignaro avventore impiega qualche secondo per essere certo del suo significato. Quando il rifugio è aperto solo a cena? E quando a pranzo? Nel weekend? È chiaro che il messaggio dell’avviso si comprende affidandosi al buonsenso, più che a quanto letteralmente scritto, ed in qualche modo se ne esce.

Però l’interpunzione agevola tutti ed è gratis…

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Collezione di serie A

 

Ho una vasta collezione di conchiglie, che tengo sparse per le spiagge di tutto il mondo
(S. Wright)

Ciascuno di noi, almeno una volta da bambino, ha sognato di giocare realmente in serie A. I primi calci nel campetto sterrato delle elementari, le prime partite in tv, le prime divise ufficiali negli esordienti… Il bello di essere piccoli è che non ci si vergogna di sognare l’insognabile e dunque appare più che lecito fantasticare sul magico e affascinante mondo del pallone.

Poi si cresce e si concretizza, capendo velocemente che i sogni sono un’illusione, mentre la realtà è ben altro affare. All’improvviso la serie A non è più un sogno: diventa un mondo lontano e impossibile, seppur contornato da un alone mitico e da una seduzione metafisica.

Ma tornando al sogno di giocare in serie A, una delle mie suggestioni più ricorrenti è sempre stata quella di collezionare le maglie degli avversari. Non fantasticavo di esordire a San Siro, di segnare contro la Juve o di vincere lo scudetto. Piuttosto, mi ha sempre intrigato quel nobile gesto di galateo agonistico, quel segnale di deposizione delle armi, quel cenno di pace fatta: lo scambio della maglia. Ho sempre fantasticato su una collezione di magliette di tutte le squadre e di tutti gli avversari più blasonati.

L’altro giorno ho scoperto sui social la strepitosa collezione di maglie di Spalletti. Non solo eroi del calcio mondiale, ma anche e soprattutto umili gregari. Campioni del calcio accanto a comparse anonime. Se ha un senso arrivare a quei livelli, per me è proprio su quello scaffale.

Collezione

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Mettiamo l’accento

So di non sapere

(Socrate)

Chi ha la fortuna di dominare le regole degli scacchi sa che il mulinello e l’infilata sono due tattiche ben distinte. Chi frequenta abitualmente le macellerie ben comprende la differenza che passa tra lo scamone e il girello. Allo stesso modo, chi scrive in lingua italiana dovrebbe sapere che apostrofo e accento sono due cose differenti, non intercambiabili.

L’apostrofo nasce in caso di elisione (caduta di una o più lettere), l’accento serve invece per distinguere la pronuncia più intensa di una sillaba rispetto alle altre.

Non è il caso di addentrarsi in encicliche su accenti gravi, acuti e circonflessi, troncamenti ed elisioni. È sufficiente dire che l’utilizzo indiscriminatamente commutabile di apostrofo e accento rappresenta un errore. Non è questione di etica, né di estetica. È semplicemente un errore grammaticale, come le “h” fuori posto, le doppie zoppe o i congiuntivi randomici.

Non è neppure il caso di salire sullo scranno dei saccenti, poiché è capitato e capita a chiunque di confonderli o di accettare le proposte che i programmi di scrittura fanno irresponsabilmente in nostra vece. Alcuni esempi: E’ / È, Po’ / Pò.

La cosa grave è che a fregiarsi dell’errore sia addirittura un’università. Scorgendo il logo della Bicocca si può notare la maldestra svista nell’uso dell’apostrofo in luogo del naturale accento. Superficialità di un rettore, cecità di qualche organo direttivo, ignoranza di un grafico? Poco importa. In una delle sedi del sapere… semplicemente non sanno.

Bikokk

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Cristogramma

Prima di raccontare, osserva.

Prima di comunicare qualcosa agli altri con immagini e parole, fai in modo che quelle immagini e quelle parole ti suonino familiari.

Prima di muovere la fantasia, afferra le cose che hai intorno

(G. Amelio, Il vizio del cinema)

Una mattina, mentre mi trovavo in coda sul percorso verso il lavoro, mi sono trovato davanti un’automobile con un adesivo molto particolare, simile a questo:

icxc_nika

Mi sono annotato la curiosità con l’intenzione di approfondire in separata sede. Come immagino facciano tutti, spesso appunto le cose che mi vengono in mente e poi con calma indago.

Le coppie IC XC rappresentano le prime e le ultime lettere delle due parole greche Gesù e Cristo (IesoS e XristoS). Le S finali vengono scritta come C.

NI KA invece significa “vince”, sempre in greco. Quindi il messaggio dell’adesivo è “Gesù Cristo vince”, attinto dalla tradizione greco-ortodossa. Sostanzialmente il guidatore che mi precedeva era un fervente ed estroverso ortodosso.

Ho scoperto che si chiamano Cristogrammi e riproducono combinazioni di lettere dell’alfabeto greco o latino per rappresentare qualche messaggio legato al nome di Cristo. Sono simboli usati in passato soprattutto nella decorazione di edifici. Uno dei più noti è la targa INRI della croce. Ma il significato di questo o sapete tutti…

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Sono solo di passaggio

La naturalezza di tale passaggio al limite è ovvia, e ora rimane al nostro pensiero lo spazio senza scatola, una cosa autonoma,

che tuttavia appare così irreale se dimentichiamo l’origine di tale concetto

(A.Einstein)

 

Quando ero membro dell’AIA, mi capitava spesso di fare il guardalinee nelle categorie superiori. Sul fuorigioco le direttive erano chiare: “Non c’è mai il dubbio. Ma se ci fosse il dubbio, e non ci sarà mai, non si alza la bandiera. Nel dubbio, è buono”. Pochi istanti per decidere, ma… “nel dubbio, è buono”.

Forse questo principio (“nel dubbio, è buono”) mi è rimasto troppo tempo nella testa e all’inizio, di fronte alla fatidica scritta luminescente “varco attivo”, con pochi istanti a disposizione per decidere,  mi veniva più naturale andare avanti che fermare il corso degli eventi.

Quello per me più frequente era alla fine di via Pomponazzo a Mantova. Col “Varco attivo” posso passare, oppure no? C’ho messo un po’ di tempo, ma poi ho capito che non era proprio come il fuorigioco.

L’Accademia della Crusca aveva fornito una risposta molto chiara, che va oltre il significato e che invita a riflettere sui paradossi della lingua e della burocrazia.

Il messaggio incriminato è “VARCO ATTIVO” e il suo corrispondente opposto “VARCO NON ATTIVO” (si registra anche “VARCO PASSIVO a Bergamo). Con questa dizione si è inteso sintetizzare lo stato di ciascun varco elettronico di ingresso alla Ztl, con riferimento al controllo, attivo o non attivo, della telecamera. Una dizione eccessivamente ellittica dal punto di vista linguistico che presuppone che tutti conoscano bene il funzionamento della Ztl e delle telecamere messe ai varchi: non sono infatti i varchi, cioè i ‘passaggi’ a essere attivi o non attivi (eventualmente si sarebbero potuti definire come “aperti” o “chiusi”), ma gli strumenti di controllo dei varchi stessi. L’avviso pubblico dovrebbe proprio svolgere la funzione di comunicare direttamente, senza implicare ulteriori approfondimenti da parte del cittadino. Del resto, è stata più volte rilevata l’oscurità degli avvisi pubblici italiani: manca sicuramente in Italia una tradizione di comunicazione pubblica sintetica ed efficace e spesso la difficoltà nel formulare testi simili, ha portato a introdurre formule burocratiche e termini molto specialistici (solo per fare alcuni esempi, l’incriminata, a suo tempo, obliterazione e poi il recente titolo di viaggio per indicare il ‘biglietto’).
Questa dizione varco attivo era però già stata utilizzata, prima del dicembre 2007, sicuramente a Ravenna dove troviamo traccia di proteste da parte di varie associazioni di cittadini che hanno richiesto la riformulazione dei messaggi (ad esempio la Confesercenti ha fatto notare che “forse da un punto di vista psicologico la parola attivo induce a proseguire mentre sarebbero state più appropriate espressioni negative e di divieto”).

Forse anche in seguito alle proteste dei cittadini e agli inevitabili fraintendimenti, che proprio la comunicazione pubblica avrebbe il compito di evitare, alcuni comuni hanno modificato i messaggi di segnalazione degli ingressi alla Ztl controllati elettronicamente: “accesso solo autorizzati” o “accesso libero”. Questi messaggi sono resi ancora più espliciti dalla presenza di una luce rossa o verde con lo scopo di agevolare i conducenti nella lettura della cartellonistica della Ztl informandoli, in modo immediato, se l’accesso alla zona a traffico limitato è consentito a tutti oppure ai soli autorizzati.

 

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Sogni, concerti e cose così…

La finestra la sbàtt i all, ma la sa che po’ mea na via

e i stèll g’hann la facia lüstra cumè i öcc de la nustalgìa.

In questa stanza senza nissön, vardi luntàn e se vedi in facia.

In questa stanza de un oltru tempo, i me fantasmi i lassen la tracia...”

(D. Van De Sfroos – Pulenta e galena fregia)

Nella vita ognuno di noi ha almeno cinque sogni assolutamente impossibili ed irrealizzabili, che servono solo a farci sorridere e ad osservare le cose con più fantasia e romanticismo. Io ho sempre sognato di giocare nella difesa di Sacchi al fianco di Baresi, di gestire un rifugio in Alto Adige, di vivere in una fattoria della lande Scandinave, di scrivere il libro Q. Come quinto sogno ci metto quello duettare con Van De Sfroos per un intero tour.

Sarà che lo giudico un prodigio assoluto, sarà che non ho trovato eguali nella poesia che scrive e nel genio musicale che esprime,  ma non ho dubbi… è il mio cantautore preferito.

Sabato ho celebrato il mio settimo concerto in laghee, se non ho scordato nulla. Ogni volta ascolto le canzoni pensando ai momenti della mia vita che ognuna immancabilmente si porta dietro. Persone, luoghi, eventi. Sono tutti lì, nella poltrona di fianco alla mia.

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Apprendista nell’arte di conversare

Nelle conversazioni parla con gli altri, non solo agli altri

(Kriyananda)

 

Non sono un tipo che parla molto, almeno finché non conosco fino in fondo il mio interlocutore. Non sono neppure uno con l’eloquio scorrevole, perché le parole giuste mi vengono solo se ci penso un po’ sopra.

È per questo che ho sempre invidiato due categorie di persone: quelle con l’attitudine naturale a parlare con tutti di tutto e quelle che sanno sempre trovare alla svelta le parole corrette, le frasi chiare, le nozioni pertinenti da citare.

Un articolo sulla rivista Internazionale dice che “conversare dovrebbe essere una capacità che tutti abbiamo, e ci si dovrebbe addestrare già da ragazzini”. Ma se si approfondisce l’argomento in rete, si scopre presto un mondo fatto di tutorial, decaloghi, trucchi e segreti per una conversazione efficace. Consigli come “ascoltare l’interlocutore”, o “evitare di autocelebrarsi”, che dovrebbero già rientrare nel forziere del buonsenso in dotazione a ciascuno. Paradosso dei paradossi: nell’era della socialità globale, abbiamo difficoltà a conversare e ci serve un ausilio per riuscire a farlo. Osservazione banale, lo so.

Se esiste ancora la consuetudine di fare propositi positivi per l’anno che viene, io metto in lista quello di conversare di più. Più quantità e più qualità.

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Dove cade la pioggia

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane

(G. D’Annunzio, La pioggia nel pineto)

La consueta pioggia autunnale mi infonde sempre un sentimento di piacevole malinconia. Adoro trascorrere qualche attimo guardando dalla finestra l’acquazzone impetuoso, o anche il leggero ed ingenuo piovasco. Alberi e case che si bagnano adagio e poi s’inzuppano, animali e insetti che si riparano, gocce che martellano le superfici come infallibili metronomi. Ogni volta che la pioggia dura più di un giorno, si crea nella mia testa quella consueta atmosfera di amabile tedio e automaticamente ripenso a La pioggia nel pineto.

Come succede in tutte le assurde fatalità della vita, La pioggia nel pineto è proprio la lirica che mi fu chiesta all’esame di maturità. Sapevo praticamente tutto. Il commissario mi fece però una domanda alla quale non riuscii a rispondere. “Perché mai D’Annunzio usa la parola Pineto e non Pineta? Sarebbe più naturale parlare di pineta, invece…” Mi aggrappai, scivolai, caddi, tacqui. Insomma non seppi replicare in modo chiaro ed esaustivo a questo interrogativo apparentemente banale, ma per me incomprensibile.  E lui mi inferse il colpo più duro, celandomi la soluzione dell’enigma e destinandomi all’eterno oblio. Forse pensava al castigo peggiore per un ignorante: la condanna perenne a non conoscere.

Nei giorni scorsi ho cercato sull’antologia e anche in internet, ma non ho trovato risposta a questa domanda.

E niente… se qualcuno potesse aiutarmi, mi eviterebbe altre notti insonni. In fin dei conti sento di aver scontato la mia pena.

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Piuttosto che…

Di questo passo, saranno gli omosessuali, piuttosto che i poveri, piuttosto che i neri, piuttosto che gli zingari, ad essere perseguitati

(G. Strada, al Tg3)

È come quando a Natale rivedi la vecchia zia che incontri solo nelle occasioni speciali. Ti accorgi subito di quanto è cambiata, più vecchia, più logorroica dell’anno prima. Il tempo trascorso in sua assenza ha congelato l’immagine passata che avevi di lei e, confrontandola con la nuova, sono subito evidenti i cambiamenti intercorsi.

Per me tornare al lavoro è stato così. Anche se non è trascorso molto tempo, ho notato subito chi era ingrassato o chi aveva perso chili. Mi sono accorto di quanto le rughe del tempo abbiano cambiato alcune espressioni, o di come i capelli più grigi abbiano invecchiato i colleghi.

Ma la cosa che più mi ha sconvolto è stato il proliferare in tutti i contesti, dalle riunioni alle email, dalle conversazioni informali alle presentazioni ufficiali, di un’espressione particolarmente indigesta. Sempre la stessa locuzione, abusata e snaturata, utilizzata in maniera impropria e dunque errata.

Ad ogni livello, ordine e grado spopola la perifrasi “piuttosto che…” con il significato di “oppure”. “Puoi usare tutto dell’ufficio: il computer piuttosto che il telefono, piuttosto che la stampante”; “potete tradurre in tutte le lingue: in inglese piuttosto che in francese, piuttosto che in tedesco”.

Chiariamoci. “Piuttosto che” significa “anziché”, non “oppure”. Indica una preferenza per un elemento rispetto a un altro, non una comparazione tra alternative equivalenti. “Preferisco andare in bicicletta piuttosto che usare l’automobile”; “scelgo l’ombrina al forno piuttosto che la pizza”. Invece viene sempre pronunciato per elencare alternative possibili ed equipollenti.

I linguisti meno intransigenti definiscono questo utilizzo “deprecabile”, mentre i puristi impallidiscono perché genera ambiguità, suggerendo ad un significato opposto a quello reale.

A volte è meglio stare zitti, piuttosto che parlare.

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Lele… Il vecchio nome familiare

Per me il Lele è soprattutto la bellezza di un ricordo solido ed indelebile. Questa poesia riassume perfettamente il mio pensiero.

La morte non è niente

La morte non è niente. Non conta.
Io me ne sono solo andato nella stanza accanto.
Non è successo nulla.
Tutto resta esattamente come era.
Io sono io e tu sei tu
e la vita passata che abbiamo vissuto così bene insieme è immutata, intatta.
Quello che eravamo prima l’uno per l’altro lo siamo ancora.
Chiamami con il vecchio nome familiare.
Parlami nello stesso modo affettuoso che hai sempre usato.
Non cambiare tono di voce,
Non assumere un’aria solenne o triste.
Continua a ridere di quello che ci faceva ridere,
di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme.

Sorridi, pensa a me e prega per me.
Il mio nome sia sempre la parola familiare di prima.
Pronuncialo senza la minima traccia d’ombra o di tristezza.
La nostra vita conserva tutto il significato che ha sempre avuto.
È la stessa di prima,
C’è una continuità che non si spezza.
Cos’è questa morte se non un incidente insignificante?
Perché dovrei essere fuori dai tuoi pensieri solo perché sono fuori dalla tua vista?
Non sono lontano, sono dall’altra parte, proprio dietro l’angolo.
Va tutto bene; nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima.
E come rideremo dei problemi della separazione quando ci incontreremo di nuovo!

Henry Scott Holland, Maggio 1910

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