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Giacinto, fiore d’eleganza
Il giacinto è un fiore molto profumato, bello, semplice. Il giacinto è soprattutto un fiore molto elegante. Giacinto è anche il nome di un grande campione scomparso oggi, alla stessa età dei miei genitori. Anche lui, evidentemente investito dal destino del nome che portava, era soprattutto molto elegante. Galleggio a fatica nei fiumi di parole che inneggiano alla sua lealtà e correttezza, al suo “essere uomo per bene”, tipico del campione dentro e fuori dal campo. Io, tifoso della sponda opposta, amo ricordarlo semplicemente elegante. Una dote rara, e per questo preziosa. Ricordo l’eleganza delle sue movenze, dei suoi abiti, delle sue parole. Lo ricordo signore di stile, d’immagine, di personalità. Mancheranno il suo tono pacato e signorile, mancheranno i suoi modi lineari e ordinati. Ciao Giacinto, fiore d’eleganza.
Una bella scommessa
Roberto Donadoni mi è sempre piaciuto.
Come giocatore ha infiammato ed entusiasmato i miei anni di “tifoso costituendo”. Quel passo stretto e il dribbling a rientrare, sempre uguale, sempre mortale. Protagonista degli scudetti più belli. Ala pura, di quelle che ormai se ne vedono poche. Ricordo che il barone Liedholm disse di lui: “è l’unico che in allenamento riesce a saltare Franco Baresi nell’uno contro uno”. Anche per questo Donadoni divenne per me un mito. Quel rigore sbagliato ad Italia ’90 mi rese la notte insonne: pensavo al dramma personale che probabilmente stava vivendo, pensavo al peso che si sarebbe trascinato dietro. Ma poi, come spesso accade, la storia lo ha ripagato.
Come uomo mi è sempre sembrato misurato ed equilibrato. Dote rara nell’ambiente e qualità spesso ed inspiegabilmente sottovalutata. Mai una parola fuori posto, mai una frase banale. Piuttosto il silenzio. A metà del campionato scorso, sulla panchina del Livorno, si dimette con la squadra in zona Uefa, per i forti contrasti con un presidente che ne mette in discussione le doti tecniche. Lui se ne va e la squadra termina il campionato sull’orlo della serie B.
Oggi, complici le grandi raccomandazioni dell’amico Albertini, Donadoni approda nel burrascoso porto della panchina azzurra. Succede ad una guida tecnica che ha raggiunto il massimo, cioè la vittoria mondiale. Nella migliore delle ipotesi potrà solo eguagliare il predecessore.
Il ricciolino di Cisano Bergamasco, insomma, ha fatto una bella scommessa con se stesso. Tentare di eguagliare il traguardo di Marcello Lippi è un’impresa epica, più che un augurio.
Anche chi ha puntato sul suo nome si è assunto una grossa responsabilità. Donadoni ha allenato un anno in serie C, due in B e poco più di mezzo campionato in A. Affidargli le chiavi della nazionale può essere una scelta azzardata e forse oltremodo rischiosa. Ma credo che pochi altri avrebbero raccolto il guanto della sfida.
Nota a margine: Sacchi non sarà stato sempre spettacolare e non avrà sempre elargito grande calcio, ma certamente è riuscito a formare tecnicamente le menti che ha allenato. I pilastri del suo grande Milan oggi avvalorano questa tesi: Tassotti, Baresi, Albertini, Ancelotti, Donadoni, Rijkaard, Gullit, Van Basten…
Che il cielo resti azzurro
Ce la siamo meritata. La grande Italia del pallone ha conquistato la quarta Coppa del Mondo. Soddisfazione, gioia… Alle facce commosse dei gli eroi berlinesi fanno da contraltare i caroselli impazziti di tutto il Paese, durati ovunque e per tutta la notte. È l’astinenza da vittoria che ha reso questo successo ancora più immenso.
Battuta prima la Germania ospitante (si fa per dire), poi in finale la Francia di Zizou: non riesco a pensare ad un epilogo migliore. A trent’anni assisto al trionfo mondiale: arriva nel momento migliore. Non troppo giovane per non ricordare, non troppo vecchio per non festeggiare.
L’Italia, tramortita dagli scandali di calciopoli, oggi sembra rinascere. Si parla di un incremento di un punto percentuale del Pil, grazie alla vittoria di Lippi e dei suoi discepoli. È azzurro quel “cielo sopra Berlino” e vogliamo che resti tale. Il vento della vittoria ci ha riportato il sorriso limpido di ventiquattro anni fa, dopo tante, troppo nuvole. Ora i giudici completino questo processo. Spazzino via le ultime nubi che aleggiano sul nostro calcio. Completino l’opera. È tornato l’azzurro, ora deve rimanerci.
Italie mondiali
(D. Van De Sfroos – L’esercito delle 12 sedie)
Lunedì l’Italia, quella dei calciatori ricchi e discussi, inizierà il suo cammino al campionato mondiale. Da qualche settimana un’altra Italia, quella della gente comune, dei bar e degli uffici, ha intrapreso un altro mondiale. Tutti a discutere di “tecnicismi azzurri”, tutti esperti del buon calcio. A ciascuno la propria idea: e ognuna è quella giusta. Insopportabili discussioni tra intenditori di razza, commenti pindarici degli specialisti di genere. Così tra speranze, eccessi, disamine attente o anatemi incrociati ci troviamo uniti nella passione o trascinati nella tendenza del folclore. Dimenticheremo gli scandali pallonari del Belpaese, sognando il successo di “quei nostri bravi ragazzi”. Per un mese, insomma, saremo tutti orgogliosamente italiani. Tutto il resto aspetterà.
I furbetti del campetto
Convocati i 23 azzurri che prenderanno parte al mondiale.
Un portiere marcato a vista dalla magistratura, un ct che deve fornire delle risposte chiare agli inquirenti e un presidente federale appena dimesso. Dall’altra parte il resto degli italiani, l’Europa, il mondo intero. Tutti chiacchierano sul nostro campionato, sul nostro calcio. Discutono di moralità e di etica, di professionalità e di onestà. Al centro noi altri, italiani per bene e italiani meno per bene.
Ci presenteremo nella vetrina del calcio mondiale con la taccia della mafia all’italiana, con l’etichetta dei furbetti del campetto. Nella specialità che ci ha sempre visto protagonisti, in uno dei pochi ambiti dove da sempre lottiamo per primeggiare, oggi partecipiamo da battitori liberi, da giocatori indipendenti; perché agli occhi del mondo non siamo più sportivi, anche nella competizione agonistica siamo diventati un popolo di furbi. Il nostro mondiale è segnato, segue una linea a parte. Sarà in ogni caso una partecipazione con la macchia, con la “F” di Furbetti ben ricamata sulle magliette.
Anche di questo dovranno rispondere tutti i mestieranti del pallone. Dopo averci trascinati nel fango, dovranno dirci come ci si rialza e soprattutto come ci si ripulisce. Aspettiamo delle risposte.
Nel frattempo i campioni della nazionale sanno che in caso di vittoria riceveranno una ricompensa di 250 mila euro a testa. Una volta indossare la maglia della nazionale era già di per sé un premio, un onore. Ma i tempi, si sa, cambiano.
Sua culpa, sua maxima culpa
“Ah che rovina! Sì il mio regno è finito. Mi si toglie il potere, mi si umilia, mi si scaccia! In un giorno, un giorno solo, perdere tutto… La cosa è segreta per ora: non una parola”
(Victor Hugo, Ruy Blas)
In questi giorni tiene banco la vicenda Moggi. Lascia perplessi la linea qualunquista del “ma tanto si sapeva”. È vero: si sapeva. Lo strapotere italiano della Juventus, il condizionamento arbitrale, la gestione del calciomercato da parte della Gea sono cose assodate e ormai fisiologicmente accettate. Tuttavia il fatto che ora le impressioni, i dubbi, i sospetti appaiano supportati da elementi concreti e tangibili aggrava la situazione. E non di poco. Potrei ricamare parole eleganti sul calcio malato, che peggiora ogni giorno, che non guarisce mai. Ma non ne ho voglia.
Ora chi ha sbagliato paghi. Pagò Paolo Rossi per lo scandalo scommesse, pagò Pantani per il doping. Pagò il Milan, andando due volte in serie B e molti altri hanno perso carriere e reputazioni. Solo una ventata di giustizialismo potrà schiarire un po’ il panorama.
“Sono tutti uguali”, si sente dire. Sarà… Intanto si punisca chi è colpevole. Se altri si aggiungeranno, ben venga per loro la stessa fine. Non se né può più di lobby, clientele, insabbiamenti e false condanne.
Che cce frega der Pupone?
Dopo anni di cadute plateali ad ogni tocco e rintocco avversario, dopo campionati di tristi sceneggiate con lâugola gemente e piangente ancor prima di subire il fallo, dopo epoche di teatrali recitazioni nel ruolo della vittima e di proteste ambientaliste in nome della salvaguardia del talento, Totti si è fatto male davvero. à capitato. à capitato che in unâanonima domenica di febbraio, una domenica di quelle fredde in cui pensi che non accada nulla, uno sconosciuto fabbro di Empoli commettesse il reato di ferire sua santità , di abbattere il simbolo di Roma e (ahiloro!) della romanità *.
Ne sono susseguite settimane di polemiche, battaglie verbali, attacchi al calcio aggressivo e appelli alla nonviolenza. Non câè guerra o atto terroristico che in Italia abbia avuto una tale risonanza pacifista. Va bene, è stato colpito un genio del calcio, un campione. à stata trafitta lâallegoria di un calcio champagne, di un gioco geniale che va tutelato, non costretto alla cattività . Ma tutto il resto?
Ho letto domande assurde, offensive per qualsiasi intelligenza media, ingiuriose per chiunque possegga più neuroni della vittima in oggetto. Come faremo ora senza Totti, senza il suo talentuoso apporto? Come farà la Roma, priva dellâinnato carisma del suo capitano? Potremo davvero partire per Germania 2006 senza di lui?
Nei ricordi di qualche lustro fa, emerge il triste addio al calcio giocato di Van Basten per motivi analoghi. Non gridai allo scandalo allora, vi pare che possa farlo oggi? La Roma continua nel suo record di vittorie consecutive, anche senza il faro luminoso e illuminante (poco illuminista) del suo capitano. Se Totti non recupererà in tempo, è probabile che andremo ugualmente in Germania a giocarci il mondiale, anche senza Pupone. Certamente perderemmo il valore aggiunto di un uomo maturo e intelligente. Perderemmo il grande simbolo che ci ha rappresentato di fronte agli occhi di tutto il mondo. Perderemmo frasi come âlâarbitro Moreno era premunito nei nostri confrontiâ e difficilmente riusciremmo a mostrare che siamo ancora capaci di sputare allâavversario, nellâelegante vetrina del calcio mondiale.
Rimanga pure comodo a guardarsi Ilary a Sanremo, io tanta fretta di rivederlo non ce lâho.
*Lâespressione âsimbolo di Roma e della romanità â sarebbe eufemisticamente divertente se lâavessi coniata io. Appare invece drammaticamente triste (per i Romani almeno), dal momento che è usata dallo speaker dellâOlimpico per annunciare il nome di Francesco Totti.
Un calcio alla TV
ACCADDE OGGI
Attualmente gli introiti televisivi costituiscono la maggioranza relativa delle risorse dei grandi club di serie A. Il concetto è tanto chiaro quanto logico: le tv, per trasmettere le immagini delle partite, e dunque per ottenere introiti da sponsor televisivi e pacchetti d’abbonamento, debbono pagare chi produce lo spettacolo. La squadra di calcio, ogni volta che scende in campo, fa intascare soldi. La tv, trasmettendo le immagini, ottiene danari da abbonati in poltrona e da sponsor in vetrina. Il guadagno televisivo altro non è che terziario: sfruttando la materia prima dei club, si fornisce un servizio che genera profitto. Per questa ragione, naturale e debita, le squadre negoziano i diritti televisivi.
Assodata la ratio, il pettine si arresta sul nodo del “come” vengono negoziati questi diritti.
“Attenti al come”, dunque.
IL DIBATTITO
I club più ricchi e blasonati sostengono che sia giusto condurre trattative singole. Siccome una squadra attira più spettatori e, per la proprietà transitiva, anche più sponsor di un’altra, è giusto che ottenga un premio maggiore. Contrattando singolarmente con le tv, ogni squadra stabilisce il “prezzo” della propria immagine.
La contrattazione collettiva, invece, prevede che congiuntamente tutte le squadre negozino con le televisioni: ottenuta la torta, si procede tagliandola tutta quanta in le fette uguali.
Solo una concezione “comunista” della distribuzione delle risorse può appoggiare aprioristicamente quest’ultimo principio. Uso l’ avverbio “aprioristicamente” non a caso. Sarebbe infatti sbagliato sostenere la negoziazione collettiva, se non ci fosse un ulteriore elemento in gioco. Ovvero il concetto del Circolo vizioso. Se una squadra ottiene più soldi perché è più vincente, ergo più meritevole, è molto probabile che continui a vincere perché ha più soldi. In questo senso il circolo da viziato (si mette in moto solo con i soldi) diventa vizioso (i soldi vanno a chi vince… vince chi ha più soldi… e così via).
Guardando la storia degli ultimi anni e gli albi d’oro sulle nostre librerie, ci si accorge che si tratta di un principio (ma forse sarebbe meglio dire: di un assioma) pressoché matematico.
Escludendo il caso sociologico e patologico dell’Inter, le squadre vincenti in Italia sono di fatto solo le due più ricche.
LA POSIZIONE
A complicare il panorama concorre anche il ruolo conflittuale del Presidente del Consiglio.
Da milanista, faccio fatica a non notare che la sola Forza Italia si oppone a legiferare in nome della contrattazione collettiva. Non conviene a Berlusconi lato Milan, non conviene a Berlusconi lato Mediaset.
Da “meritocrate”, mal digerisco la soluzione della negoziazione collettiva tout court. Che azzera le differenze, che annulla ogni merito.
Il tentativo di ripartire a metà i diritti (50% singolarmente con contrattazione privata, 50% collettivamente con quote uguali) ha dato risultati poco rassicuranti in Inghilterra, a dimostrazione che le mezze misure portano solo a mezzi risultati.
Che posizione prendere dunque? Per chi ama il calcio e ne sostiene l’affrancamento totale dalla politica (non si legga in questa frase il solito monito demagogico e qualunquista) la cosa essenziale è chiedersi che tipo di campionato si vuole. Un campionato a doppia velocità ? Dove le solite due squadre si contendono la vittoria finale, mentre le altre diciotto contemporaneamente lottano solo per un posto in champion’s league? O un campionato più competitivo, dove Chievo e Udinese possono almeno “sognare”? Dove l’esito di Reggina-Juve non è così scontato, dove si parla meno dell’ingaggio di Cassano e più del vivaio dell’Atalanta?
Non esiste una soluzione “giusta per principio”. E’ solo chiedendosi cos’è bene per il calcio che diventa possibile trovare una risposta.
Ricordo con vivida memoria e sublime piacere le favole della Sampdoria di Boskov, del Verona di Bagnoli o del Napoli di Maradona.
Oggi sfoglio una Gazzetta con tre pagine dedicate a Sky, cinque articoli sugli investimenti sbagliati di Moratti e un reportage sull’ennesimo vitalizio di Vieri…