Archive for category Sport
L’autogol del bomber
Il mitico Cigno di Utrecht ha ripiegato le ali, perdendo il fantastico candore della perfezione e riassumendo le sembianze grigie dell’uomo mortale. Per anni ho associato a Van Basten l’immagine del fuoriclasse puro ed immacolato, talmente grande da non potersi confondere a lungo in quel mondo di umani che non poteva meritarlo. Oggi il numero nove degli dei dell’Olimpo patteggia i suoi insuccessi col fisco. Precipita l’eroe dell’infanzia, il sogno del bambino, il ricordo della giovinezza.
Per una volta, non un goal da inserire nelle cineteche della nostalgia, ma una clamorosa autorete… pesantissima da digerire.
L'acquisto rossonero
Ho come l’impressione che il miglior acquisto del Milan al mercato di riparazione sia l’infortunio di Ronaldo. Ultimamente davvero ingombrante, penoso, imbarazzante. Almeno ora nessuno avrà più remore, dubbi, speranze sull’oppurtunità di farlo gocare. Non si dovranno trovare scusanti o motivazioni diplomatiche per relegarlo fuori dal campo. Ora finalmente si è aperto un ampio spiraglio e chiunque prenda il suo posto, farà certamente meglio.
L’astuzia di Didone
La sceneggiata di Dida è di quelle che fanno vergognare. Di quelle che imbarazzano tutti, non solo i milanisti. Che umiliano e fanno inveire.
Io sono ancora innamorato della romantica idea che “i portieri devono essere italiani” e Didone non mi è mai piaciuto troppo. Lui, dal canto suo, non si è mai adoperato granché per rendersi simpatico. Il ghigno mesto ed arrabbiato lascia traspirare una certa insoddisfazione, che nel suo caso sembra suscitare l’impressione di instabilità ed incertezza. Mica poco per un portiere. I colti dei salotti bene definiscono questa insofferenza verdeoro col nome di “saudade”. Per me è solo una mancanza di carattere (per chi avesse dubbi… chiedere a Kakà).
Fino a mercoledì tutto questo poteva essere coperto dal capiente ombrello del fuoriclasse tutto genio e sregolatezza, dagli alti e bassi del campione che non ha mezze misure, che fa innamorare proprio perché fa anche soffrire. Poi la macchietta di Glasgow ha gettato un’ombra un po’ larga (già lui non è piccolissimo) e un po’ più scomoda.
Mi auguro che la punizione dell’Uefa sia esemplare per lui e per la società che ne ha assecondato la sostituzione. Di fantocci alti e tristi sinceramente non so che farmene.
Nella mitologia Didone era la leggendaria fondatrice di Cartagine. Avendo ottenuto di poter acquistare tanta terra quanto ne poteva abbracciare una pelle di bue, usò l’astuzia, tagliando la pelle in sottili striscioline e circondando un’intera collina. Il nostro Didone per una volta potrebbe usare l’astuzia e smettere di fare la vittima insulsa. Inizi a parare e magari diventerà un po’ più simpatico.
Il salto per l’asta
Questa sarà una notte insonne. La più bianca di tutto l’anno. Una di quelle notti che prevedi già ad occhi sbarrati, senza possibilità di preventiva revisione, o di recupero almeno parziale. Cambiarne il destino sarebbe come chiedere alla pioggia di non cadere o ai terremoti di non far tremare la terra.
Nulla a che fare con l’insonnia alla vigilia di una vacanza o con la digestione post pizza di Carmelo. La notte che precede l’asta del fantacalcio è per sua stessa natura notte di dubbi e di interrogazioni. Banali, retorici, filosofici. La strategia messa a punto viene messa in discussione per almeno un paio d’ore, senza peraltro raggiungere un’alternativa soddisfacente. Ci si alza almeno tre volte per controllare se i documenti stampati siano esaurienti ed abbastanza “criptati”. “Il pupillo segreto vale davvero la candela?”, “Il portiere?… cazzo il portiere me lo fregano di certo, cosa faccio?”
Le domande incalzano e l’ansia cresce, facendo dimenticare il sonno ormai perso. Poi verso mattina mi chiedo “chi me lo fare”; allora mi insulto e guardo l’orologio alla luce dell’alba ormai prossima. Non ho dormito, senza motivo.
Ma siamo bambini. Ed i bambini, si sa, di notte dormono poco.
La battaglia che non t’aspetti
È stata una battaglia. Una delle più indomite, e forse la più vigorosa, del mio curriculum montano.
Iniziamo dal principio. L’obiettivo è il giro delle tre cime del Bondone, percorso che comprende la Cima Verde, il Dosso d’Abramo ed il Cornetto. Nell’itinerario è prevista una breve, ma intensa ferrata. La guida ci assicura che se fosse arrampicata libera, si tratterebbe di un VI° grado. Gianluca ed io siamo tranquilli: dopo l’esperienza della Pisetta di qualche anno fa, sappiamo che non può esistere ferrata più difficile. Quanto al cammino… beh abbiamo fibra per reggere lunghi ed impegnativi percorsi.
Partiamo a spron battuto e guadagniamo velocemente la prima vetta. La Cima verde ci restituisce un panorama del Brenta davvero spettacolare. Il grigio sconfinato del comprensorio che abbiamo alle spalle sembra arginarsi solo contro l’azzurro del cielo limpido. È il primo dei tre traguardi e come l’alba dei giorni di battaglia più felici, la giornata sembra promettere altri successi. Scattiamo qualche foto, un sorso d’acqua. Poi, all’improvviso, come un fulmine che s’accompagna al tuono, ecco l’attacco del nemico più improvviso. Mi abbasso per riprendere lo zaino e mi ritrovo costretto a gettarmi a terra. Cado, o forse mi lascio cadere. Sento uno strattone alla schiena, una fitta di dolore lancinante. Potrebbe essere un dardo, un giavellotto od un semplice pugnale. No, è la mia vertebra che fa i capricci…
Riesco a malapena a restare seduto, soffro e coricandomi mi bagno il viso di strazianti lacrime. Piango più per la rabbia che per il dolore. Non riesco ad alzarmi. Dopo qualche minuto Gianluca mi aiuta a sollevarmi. Nulla da fare, non sono in grado di raggiungere la posizione eretta. Inizio a pensare che non solo non finiremo il nostro itinerario, ma che scendere sarà un’impresa da titani.
Ingoio a stomaco vuoto due Aulin e mi metto la bottiglia d’acqua ghiacciata nella schiena. Desidererei un litro di Voltaren da iniettarmi all’istante nel dorso, ma debbo accontentarmi. Qualche attimo e con l’aiuto del mio commilitone mi rialzo in piedi. “Proviamo”, gli dico. Si offre di portarmi lo zaino e lo rassicuro del tentativo. Cercheremo di raggiungere la seconda vetta, dove si trova la ferrata. Poi valuteremo il da farsi. Di scendere, proprio non ne abbiamo voglia.
Il medicinale in dose equina sembra fare effetto. Il ghiaccio regge e il cammino non pare impegnativo. Arriviamo alla ferrata e ci guardiamo negli occhi. La parete verticale sembra chiamare la sfida. Nel silenzio della montagna ci pare quasi di sentire una voce. La razionalità mi strattona dall’altra. È folle, è sciocco salire ancora. Stando eretto sto quasi bene, sono i piegamenti che mi dilaniano il busto. Decidiamo irragionevolmente di andare. La via è verticale e per procedere serve la forza fisica delle braccia, proprio quella che non ho e che non ho mai avuto. Mi arrangio con molta tecnica, ma è durissima. Non ci sono appigli ed il cavo diventa l’unica via d’uscita. Dietro di me sento i lamenti di Gianluca che inizia a fare paragoni irriverenti con le ferrate precedenti. È una guerra e non si può fuggire. La ferrata attraversa uno spettacolare foro nella roccia. Il sole, che entra dall’alto, ricorda il tunnel luminoso che di solito porta al paradiso. Metafore? Non credo. Sto per uscire e vedo il moschettone sporco di sangue. Mi guardo le mani, un dito gronda di denso liquido rosso. Probabilmente mi sono tagliato con la roccia, ma l’adrenalina della salita non mi ha fatto accorgere di nulla.
Finalmente usciamo e raggiungiamo esausti la seconda vetta, il Dosso d’Abramo. Lascio sul libro della cima la mia frase della giornata: “Salire con la schiena rotta… non ha prezzo”.
Ci aspetta la discesa, ma non c’è due senza tre. Il Cornetto richiede appena un’ora di deviazione, non possiamo rinunciare alla vittoria finale. Salgo con la schiena che non si piega ed il dito in bocca, per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Arrivati a quota 2180 guardiamo alle spalle le altre due croci appena conquistate. E sorridiamo felici.
La discesa, dopo la gloria del campo di combattimento, assume il tono di una passeggiata tra vecchi reduci. All’accampamento non gozzoviglie di legionari consumati ma una birra che sancisce la fine del conflitto. È stata durissima, ma abbiamo vinto.
L'addio del Pupo e della marionetta
Grazie al cielo ci siamo tolti il Pupone dalla nazionale. Ne ho fatto una battaglia personale, come chi dedica la vita al volontariato o si batte per la tutela dell’ambiente o dei diritti umani.
La “soap opera de noantri” ha raggiunto un epilogo, o forse solo l’inizio di una nuova serie. Il capitano giallorosso, che sputa dalle vetrine mondiali e aborrisce la lingua italiana, ha rinunciato a rappresentarci. Siamo afflitti, ma confido che sapremo presto riprenderci.
Intanto, nell’idioma di trastevere è già montata in sella la tesi del complotto contro i giocatori del sud. Re Francesco lamenta che i media hanno trattato in maniera difforme le precedenti rinunce azzurre di Baggio e Maldini.
Si guardi allo specchio: troverà altre significative differenze tra se stesso e loro due.
La gara di Pistorius
È facile lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle gesta sportive di Oscar Pistorius, l’atleta disabile che è riuscito a competere in una gara di velocità con sportivi normolinei. Sorprende la sua vigoria fisica ed ancor prima la forza psicologica che lo ha spinto a questi sorprendenti successi. Si comprende benissimo anche il suo desiderio di riscatto, che gli ha regalato prima un sogno e poi la possibilità concreta di realizzarlo.
Tuttavia i sentimenti di empatia e di pietas umana non possono offuscare in alcun modo la razionalità e l’oggettività della questione in ballo. Pare, ed in ogni caso occorrerà verificarlo per bene, che le protesi dell’atleta riescano in qualche modo a favorirne le prestazioni. Un vantaggio di attrito, o un’agevolazione di spinta… poco importa. Il punto è che l’atleta sudafricano non può essere equiparato ad uno sprinter “normale”. È scomodo ammetterlo, ma non si può biasimare la federazione internazionale che per ora si è pronunciata per la sua esclusione dai giochi olimpici. Non ha, nè può avere, le caratteristiche di idoneità per gareggiare nelle competizioni tradizionali. Ma l’opinione pubblica, trascinata da furenti sentimenti di filantropia, sponsorizza le ragioni dello sportivo. Il Tg1 lancia addirittura un sondaggio per perorarne la causa.
Perché tacciare di intolleranza chi ne chiede l’esclusione? Per una volta bisognerebbe superare l’emotività del momento ed essere più oggettivi. Vogliamo Pistorius alle olimpiadi perché è giusto e lecito che partecipi, o piuttosto perché ci fa tenerezza vederlo correre con le gambe in carbonio?
Scegliere sotto l’impulso della pietà che il suo caso umanamente suscita, non significa forse discriminarlo ancora di più, impedendogli un trattamento da persona davvero normale?
Il settimo sigillo
Capita che il Diavolo arrivi volando nella terra del Mito e cerchi con prepotenza di entrare nella storia. Quel Diavolo che nella stessa città greca aveva già conquistato il Mito, solo pochi anni prima.
Capita che il Diavolo si ricopra candidamente di bianco, quasi per ingannare la sorte, e si ritrovi a combattere contro il fato stesso. Quel fato di rosso vestito, che nell’altra identica battaglia l’aveva sconfitto, umiliato, deriso.
Capita che il Diavolo consegni il suo forcone a Lucifero, l’angelo più antipatico. Quell’angelo volante ed invadente che brandisce l’arma ad una, due, addirittura tre mani (una forse è di troppo).
Capita infine che il Diavolo trionfi, raggiungendo il settimo sigillo ed alzando l’ambito calice al cielo, in un turbinio di assordanti istinti, nell’estasi ritrovata di tutti i sensi.
Capita che in via Solferino venga ammainata la bandiera nerazzurra* e di fronte s’innalzi, più alta e più grande, quella rossonera. Per la prima solo il fugace spazio di un’ombra eterna, per la seconda il caldo epico del sole più limpido.
*Per chi non l’avesse capito è la bandiera interista del mio vicino di casa, il Lilino.
L’eroe che vuota le sacche
Ivan Basso è il primo ciclista ad ammettere di aver predisposto una frode in preparazione di una gara sportiva, il Tour de France nella fattispecie. Non ricordo nessun ciclista reo confesso per doping, o almeno nessuno che abbia ammesso di essersi “pompato”, prima di una sentenza di squalifica. I ciclisti, e gli sportivi in genere, di fronte alle accuse sono un po’ come i politici nostrani: tutti innocenti e vittime sacrificali di complotti diabolici.
Ivan Basso no. Ha deciso di vuotare il sacco, ammettendo di essere in procinto di “ripulirsi” il sangue in vista della più prestigiosa tra le corse a tappe. L’ammissione di colpa ha fatto notizia, più per la sua eccezionalità che per la gravità della colpa in sé. È accaduto quindi che i rotocalchi e le copertine dei tg abbiano dipinto il ciclista truffaldino come l’eroe da venerare. Non un colpevole tra tanti, ma il pioniere della nuova era. Il coraggioso artefice del mea culpa, traghettatore impavido verso un ciclismo nuovo: “non trattelo come Pantani”.
Non vorrei che si incappasse ancora una volta nell’errore di confondere i truffatori con i truffati. Non so quale sia stata la causa scatenante della confessione: rimorso di coscienza, o convenienza di fronte a fatti evidenti, cambia poco. È apprezzabile l’ammissione di Basso, che da buon ciclista si è affrettato a dire che non si è mai dopato (la sua era solo un’intenzione), ma non dimentichiamoci che rimane pur sempre dalla parte del torto. Riconosciamo la bontà della sua iniziativa e consideriamolo un punto di partenza, ma non facciamone un martire senza macchia.
La nuvola nera e il cielo azzurro
Il tifoso nerazzurro ha atteso diciotto lunghi anni per poter esultare come Dio comanda. L’evento, in altre parole, è di quelli che fanno notizia. Risulta inevitabile parlarne, impossibile guardare e passare oltre. La lunga attesa da una parte e il dominio assoluto del campionato dall’altra, rendono la vittoria finale ancora più roboante e solenne.
Tuttavia, nel giorno stesso in cui assurge alla gloria del cielo tricolore, il supporter interista non riesce a fare a meno della sua nuvoletta di fantozziana memoria. Quella che lo ha accompagnato per anni, suscitando gli sbeffeggiamenti e le risa dei tifosi avversari. Quella che gli ha scucito scudetti praticamente già conquistati e che l’ha etichettato come “nobile perdente”. La stessa nuvoletta lo accompagna paradossalmente anche nel giorno del trionfo. Così gli capita di non poter festeggiare lo scudetto nel “giorno dei giorni”, quando ha preparato la festa a casa propria, in attesa di ospitare l’unico avversario della sua sfavillante stagione: la Roma. Prepara bandiere e trombe che deve subito riporre, toglie lo spumante dal frigorifero ma si ritrova costretto a non stapparlo e a rimandare la sbornia. Succede poi che la nuvoletta si accanisca su di lui e sminuisca la sua gioia, consegnandogli lo scudetto in un’anonima trasferta di fine aprile, in uno degli stadi più piccoli della serie A, nella settimana in cui i giornali parleranno della semifinale tra Manchester e Milan e nell’anno che tutti ricorderanno come “quello senza la Juve”.
Nonostante tutto ciò, lo scudetto quest’anno appartiene comunque al cugino interista… ed innanzi alla sua vittoria mi tolgo il cappello. Complimenti.