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L’occasione sprecata

Ieri sul mio volo di ritorno da Roma, tra le cravatte verdi dei portaborse leghisti, che come ogni giovedì riguadagnano l’agognata Padania, e i trolley degli uomini d’affari tuttichiacchieredistintivo, è apparso un semi-eroe d’altri tempi. Uno che ha sfiorato la consacrazione dell’immortalità, senza mai agguantarla. Uno che è arrivato ad un passo dall’impresa, ma che poi è ritornato nello spietato dimenticatoio dei comuni mortali. Azeglio Vicini, che con una delle Italie più belle e più divertenti ci ha condotto sull’orlo della vittoria mondiale.
Invecchiato, timido, quasi sofferente per i troppi anni di colto vagabondaggio, che dopo Italia ’90 l’hanno sbattuto tra le trasmissioni di calcio e le tribune di tutti gli stadi.
Tra le tante cose, avrei voluto chiedergli cosa disse a Zenga dopo l’uscita su Caniggia che ci costò il mondiale. Ma per la troppa timidezza, o forse per inconsapevole rispetto, ho desistito. E come accadde a Serena, ho fallito l’occasione… di appagare la mia curiosità.

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Ferrata versione 1.0

Ho trovato una ferrata semplice e adatta a chi volesse muovere i primi moschettoni. La Sallagoni, a Drena, appena sopra Arco, è fantastica per questo scopo. Facilissima, a tal punto che le braccia più esperte potrebbero annoiarsi, ma paesaggisticamente molto bella. Un’ora in mezzo ad un canyon molto pittoresco, con ben due ponti tibetani. Esposizione e pericolo pari a zero. Facillima e piacevole.

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Alla conquista della Tofana di Rozes

L’appuntamento è in un minuscolo paesello ai confini tra le sperdute campagne di Vicenza e Padova. Mi accoglie un insolito e foriero cartello: “Grantorto, città della speranza”. Supero il camposanto (sic) con lo spirito d’osservazione di chi sa leggere i segnali del destino. Simone, il mio compagno d’avventura (di seguito “Vicensa”), mi aspetta pochi metri più avanti, con la sua aria fiera e dimessa insieme.
La strada per raggiungere il Rifugio Dibona (2053 mt) è lunga. Arriviamo verso il tramonto, giusto in tempo per l’ottima cena. Gustosi casunziei ed una polenta col formaggio fuso che ha il peso specifico del polonio. La pagherò cara durante la notte. La serata scorre tra grappe, pianificazioni d’itinerario e discorsi strampalati. Poi arriva la notte, poco silenziosa nelle russate della nostra camerata, ma portatrice di un discreto sonno.
Ci mettiamo in marcia alle 7.45, la giornata è meravigliosa. Guardandola da sotto, la Tofana di Rozes giganteggia con i suoi possenti strapiombi ed incute un certo timore. Mentre la aggiriamo attraverso il sentiero, pensiamo che fra qualche ora la conquisteremo e la domeremo. È una sfida. Vicensa ha riempito lo zaino di cianfrusaglie inutili, nel disperato tentativo di convincere la sua debole psiche di essere equipaggiato al meglio. Pantaloni lunghi in vigogna di Vimodrone, piccozza da minatore belga con manico piombato, farmacia da campo con barrette energetiche d’ogni sorta, pastiglioni dopanti e fiale da allevamento equino. Un leggerissimo dubbio lo convince a lasciare a valle i pesantissimi ramponi in ghisa.
La partenza della ferrata Lipella è una lunga galleria buia, retaggio della I° guerra mondiale. Saliamo agili con le pile, lungo il budello buio ed umido. La roccia trasuda e gocciola in continuazione. L’atmosfera, è talmente carica di storia, che il cunicolo sembra stillare lacrime di guerra e sofferenza. Ci chiediamo come si poteva percorrere una tale galleria negli inverni più freddi di cent’anni fa, vestiti solo di giacche di lana e con scarponi decisamente poco tecnici. Doveva davvero essere un patimento atroce.
Dopo cinquecento metri di buio, il tunnel termina con una splendida vista sulla val Travenanzes. Per ora il percorso è semplice e paesaggisticamente molto bello. La strada si fa pianeggiante anche se molto esposta. Spettacolare a vedersi, semplice a farsi. Ai piedi della parete ovest, il cavo metallico inizia ad impennarsi verticalmente. Qualche buon passaggio tecnico e molta fatica ci fanno capire che non sarà una passeggiata. Vicensa, mosso a compassione, decide di far passare qualcuno degli alpinisti che abbiamo dietro. In mezzora lasciamo transitare genti d’ogni razza, censo e religione. Sembriamo i portieri della Tofana: arriva la gente, salutiamo e facciamo il gesto del “lascia passare” con la mano. Eravamo i primi e giungeremo in vetta praticamente per ultimi, diavolo d’un vicentino maledetto!
È quasi ora di pranzo quando arriviamo al bivio delle Tre Dita (2680 mt), poco più di una cengia, in cui si può scegliere se attaccare la vetta con l’ultimo pezzo di ferrata, oppure accedervi attraverso il sentiero. Non prendiamo nemmeno in considerazione la seconda ipotesi e dopo un po’ di cioccolato e uva passa (io) e barrette al polistirolo (Vicensa), riprendiamo la marcia. È il tratto più ripido, più duro e più intenso di tutta la via. Un’enorme parete bianca, a tratti bagnata, che non finisce mai. Dicono che siano 300 mt in verticale, ma a me sembra una salita di chilometri, di giorni interi. Le braccia iniziano a vacillare e anche la lucidità di manovra non è più la stessa delle ore precedenti. La tecnica consiste nel procedere senza guardare troppo in su, altrimenti ogni sforzo sarebbe mortificato e vanificato da una fine che proprio non si riesce a scorgere. Ogni piccolo camino, o tetto che si supera, desta l’illusione che sia finita. Invece ogni volta c’è un’altra parete, poi un’altra ancora. Un piccolo spavento quando sulla roccia bagnata lo scarpone perde aderenza. Rimango appeso con le mani, non faccio neppure in tempo a lasciarmi penzolare dal cordino di sicurezza, ma mi brucio gli avambracci. Sotto, un vuoto di centinaia di metri.
Sono al massimo dello sforzo, perché il tratto è il più impegnativo ed il percorso inizia a farsi lungo, e ad un certo punto… suona il cellulare. A 3000 mt. la suoneria personalizzata per Rodella (“c’è un amore in ogni borsello…”) risuona per tutta la val Travenanzes. Non posso lasciarlo squillare a vuoto. Rispondo con un rantolo di voce: “Andrea, lasciami in pace, sono attaccato via a tremila metri!”. “Hai solo un attimo, ti devo parlare del fantacalcio?”. “Nooooo, ti chiamo dopo!”. Per un istante penso che siano le allucinazioni, poi mi accorgo che è tutto assurdamente vero.
Da sotto, Vicensa appare in evidente difficoltà. Gli scatto qualche foto e poi lo vedo fare coppia con un vecchio tedesco. Simone parla, si incita da solo, ed il tedesco, che gli affonda il fiato sul collo, gli risponde sempre: “Ja”. Sembrano amici da una vita, invece si parlano solo da qualche minuto. Io continuo, non lo aspetto. Dovrei cambiare il mio ritmo di salita ed in fin dei conti siamo quasi alla fine. E poi tutto sommato, Vicensa si è trovato un buon assistente sociale.
Arrivo al termine della ferrata, all’anticima lunare (3027 mt) che mai mi sarei aspettato. Mancano ancora duecento metri per giungere alla vetta. Dopo qualche minuto vedo avanzare il vecchio tedesco, col tipico cipiglio da recluta della Luftwaffe. Gli chiedo notizie del nostro compare e in un inglese traballante mi dice che è rimasto dietro. Attendo, ma un po’ mi preoccupo. Poco dopo, dalle rocce emergono nell’ordine: la punta della piccozza che sovrasta lo zaino, il caschetto bianco, gli occhialetti blu, l’espressione tramortita, ma viva. È lui! Non parla, si trascina i piedi e ciondola la testa. Un pugile suonato, tramortito. Riesco a malapena scambiarci due parole, poi ripartiamo per la vetta.
A 3225 mt il panorama incanta. Pensi a l’immenso, a Dio, a quanto siamo piccoli ed insignificanti rispetto all’universo. Da quassù la Marmolada, il Cristallo, le Torri del Vaiolet sono tutt’uno. È difficile articolare le parole, perché la vista del paesaggio annebbia i sensi e soprattutto la ragione. Si gira la testa a trecentosessanta gradi, di continuo, nell’insensata paura di non poter vedere tutto.
Mi godo i meritati panini, mentre Vicensa riprende le sue barrette e i pastiglioni dal sacchetto della farmacia. È un pranzo questo?
La discesa al rifugio Giussani (2600 mt) è attraverso un ripido sentiero ghiaioso. Vicensa si attacca silenzioso ed esanime alle mie calcagna (mi dirà di aver letto qualche centinaio di volte la scritta “tecnica” sul retro dei miei scarponi). Mentre scendiamo, notiamo un elicottero che insistentemente scruta le pareti della Tofana di Mezzo. Giunti al rifugio, scopriremo che stava cercando un disperso. Dal Giussani al Dibona è una gara per chi arriverà primo. I piedi esplodono negli scarponi, ma il dolore non può sovrastare il desiderio di vincere anche questa ultima sfida. Mi fermo a fare una foto e Vicensa scatta biecamente di corsa. Un distacco di cento metri che fatico a recuperare. Ma poi inizia la mia fuga, e per Vicensa rimane solo la polvere che si posa sul suo secondo posto.

 

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Odori di ferragosto

Partiamo da casa alle otto, quando il sole è già alto, nella consapevolezza che le buone cose possono essere vissute anche con calma, senza l’ansia della velocità o il pensiero fisso del traffico incombente.
La Val D’Adige è un torrente silenzioso, dove branchi di olandesi e tedeschi risalgono la corrente con le loro auto zeppe di valigie e biciclette, come trote dall’istinto primordiale dirette verso nord.
Ci fermiamo in una bottega dei sapori a Fai, per comprare panini allo speck e formaggio, che assisteranno la nostra salita. L’arrivo tra i gerani di Andalo somiglia all’attracco nel paesino nel “dì di festa”. I turisti zampettano ovunque, rapidi e gioiosi. Lasciata l’auto sulla strada per Pradel (1050 mt. circa), iniziamo la nostra salita con gli zaini in spalla e le grosse pedule. Qualche chilometro di asfalto tra i boschi per arrivare alla Baita Pradel (mt. 1367), dove ci si congiunge al primo tronco di funivia proveniente da Molveno (incipit alternativo e meno faticoso). Da qui inizia il sentiero 340: un’ora di facile cammino tra il bosco silenzioso e la parete esposta che sovrasta la valle. Sullo sfondo, il verde-azzurro del lago. L’aria pulita inebria le narici, in un connubio di essenze di pino e gradevoli fioriture. Arrivati al Rifugio Croz dell’Altissimo (mt 1430), viriamo a sinistra, superando il torrente e giungendo al Rifugio Selvata (mt 1630) in poco più di mezzora. L’ambiente ricorda le montagne americane dei film, dove le vette rocciose emergono dalle vaste pinete: welcome to the Marlboro country.
Da qui inizia la vera salita: impegnativa ed estenuante, ma proprio per questo gradevolissima. Prima uno zig zag tra il verde, poi qualche gradone roccioso. Dopo un’ora di ascensione si giunge alla baita dei Massodi (mt 1986), sosta tattica fondamentale per riprendere il fiato. Alzando lo sguardo s’intravede il Rifugio Pedrotti, che a me ricorda vagamente il film “Dove osano le aquile.” Un’altra ora mezza per arrivare allo spettacolare spiazzo roccioso che ospita il Rifugio a quota 2491. Davanti, il Campanile Basso appare e scompare, tra le nubi fumose ed il sole che si appresta a tramontare. L’approdo, dopo sei ore effettive di camminata e 1400 mt di dislivello, è in un’altra dimensione: qui il silenzio, spezzato solo dal fischio del vento, ridona pace e tranquillità alle gambe ormai provate e alle schiene che sembrano improvvisamente addormentarsi.
Posati gli zaini, l’ingresso nella camerata è un diretto allo stomaco. Tre loschi figuri sono sdraiati sulle brande, ai piedi dei letti gli scarponi e le calze fetide. L’aria è irrespirabile e se non fossero le sei di sera, verrebbe voglia di riscendere gambe in spalla. I tre non si lavano, andranno a letto vestiti e la mattina si alzeranno, calzeranno le pedule, e riprenderanno il cammino senza toccare rubinetto alcuno.
Ci laviamo alla bell’e meglio, perché l’acqua ghiacciata inibisce ogni intento purificatorio. Cena abbondante, ma qualitativamente deludente. La grande fame perdona anche lo chef più becero.
La notte è dura, spietata. La rete del letto ricorda le barche dei pescatori, mentre il tanfo che aleggia nella stanza rende l’aria mortale: vietato respirare ai non addetti ai fetori. Mi viene voglia di trapiantare i tappi dalle orecchie alle narici. Ma poi chi regge le russate di quei tre energumeni? Dormiamo poco, pochissimo.
La sveglia è una finestra dal vetro grigio, dove il panorama delle pareti rocciose va solo immaginato. Nuvole ovunque, insieme a qualche goccia di pioggia. Accantonata l’idea di ridiscendere da un sentiero diverso e più lungo, partiamo bardatissimi per il ritorno, ripercorrendo i nostri passi. Inizia a piovere ed il ferragosto si confonde con il prototipo del due novembre. Appena in tempo per rifermarsi la Selvata, al riparo dall’imminente diluvio. La sosta dura tantissimo, tra famigliole affogate, giovani rassegnati e temerari supermen, che hanno dovuto loro malgrado arrestare la corsa. Riprendiamo la discesa sotto l’interminabile pioggia, con l’odore acre dell’umidità che ci travolge i sensi. Di colpo il sole, prima di riguadare il torrente, che nell’arco di venti ore è diventato indomabile. Ancora qualche chilometro e ritorniamo alla nostra auto.
Ottimo itinerario di trekking, che mi sento di consigliare a tutti, esperti camminatori o famigliocce con seri problemi deambulatori. La prima parte da Pradel al Croz è semplicissima e scenograficamente meritevole.

P.S. Le facce della foto fanno schifo perchè ho dovuto abbassare la qualità dell’immagine… Boh, non sono più capace di caricare le foto come si deve. Help me!

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Italiani brava gente

Ho ancora nelle orecchie gli echi degli appelli alla sportività, lanciati dai giornalisti italiani alla nazionale olandese agli Europei di calcio di due mesi fa. Il processo alle intenzioni fatto a Van Basten, reo, prima ancora di scendere in campo, di voler maramaldamente impattare la sfida con la Romania. Rimbombarono le preghiere e le suppliche, echeggiarono i fondi di quotidiano ed i servizi televisivi, in nome della moralità sportiva, dell’etica agonistica. Appelli ed implorazioni lanciati unicamente per il fondato timore di tornarsene prematuramente a casa dalla competizione. Ovviamente chi ha il sospetto ha il difetto, e mentre l’Olanda e la sua cultura sportiva disputarono una partita esemplare, gli italiani ringraziarono, stupiti e increduli di fronte a tanta manna.
Pochi giorni fa, Italia – Camerun alle Olimpiadi di Pechino. In caso di pareggio, entrambe passerebbero il turno e gli azzurri eviterebbero di scontrarsi col Brasile. Un’invereconda ed interminabile melina, tra i fischi a mandorla e l’imbarazzo generale, consegna alle formazioni l’agognato 0 a 0. Ma Abete parla di fisiologica stanchezza, mentre i giornali italiani sussurrano appena la notizia, guardandosene bene dall’ingigantire il caso e badando a non accentuare la polemica, perché questa volta tocca a noi. Va bene così, perchè “Italiani brava gente”.

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Il grande bluff

Io, Dinho proprio non lo volevo.

Un numero dieci che si aggiunge alla decima bolgia, quella dei falsari, dei Ronaldo, dei Rivaldo, dei giocatori spremuti, appagati, immeritatamente idolatrati.

Soldi, tanti soldi. Li vale tutti, dicono gli stolti. È una questione di merchandising, dicono i sofisticati. Come se in tre anni si potessero vendere magliette per oltre trenta milioni di euro.

Dopo un avvio deludente e carico di attese, il Nostro passerà da Via Turati al viale del tramonto. Feste, locali, coca, declino. Il destino dell’ennesimo brasiliano sembra già scritto nel suo sguardo da furetto appesantito.

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L’ultima lezione di stile

Spesi parole buone per Donadoni, in tempi non sospetti. Non posso certo pugnalarlo ora, nel momento in cui una sgarrupata lotteria dei rigori ne ha decretato la fine nazionale e la caduta nel vasto limbo degli illustri perdenti. Concordo: non abbiamo visto bel gioco, né fantastiche invenzioni, ma appartengo alla scuola di pensiero che attribuisce agli allenatori il 10-20% dei meriti o demeriti di tutta la squadra. Questo non significa che non l’avrei sostituito. In un ambito come quello della nazionale, dove gli obiettivi sono inderogabilmente e imprescindibilmente tarati su scala temporale di due anni, è fisiologico parlare di cicli biennali. Per questo sarebbe opportuno stipulare contratti della stessa durata, rinnovabili o esauribili naturalmente, sulla base dei risultati ottenuti.
Il punto, però, è un altro. L’esonero poteva essere gestito con stile e signoria, le stesse che Donadoni ha sempre mostrato e che anche i critici più infervorati gli hanno sempre riconosciuto. Attendere l’epilogo della competizione, per esempio. Evitando, cioè, di additare nell’allenatore il capro espiatorio di tutto lo sfortunato gregge. Smorzando toni e riconoscendo l’impegno profuso, per scansare l’antipatica abitudine dello scaricabarile.
Donadoni, mestamente, si è fatto da parte senza urlare. L’ennesima lezione di stile agli strateghi dell’organizzazione. Al suo posto l’eroe di guerra, Lippi. Quello che avrebbe preso “a calci nel culo i giocatori”. Almeno l’etichetta è coerente.

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Un torrente di adrenalina

Adrenalina, allo stato puro. È questa la sensazione che si prova la prima volta che si fa torrentismo. È la sensazione che domina tutte le tre ore e mezza di discesa. È l’impressione che più rimane viva nella memoria di chi l’ha provato e di chi lo racconta.

Parto da casa con l’entusiasmo solito della gita delle elementari, con l’adrenalina e l’agitazione che hanno tolto parecchio sonno alla mia notte, ma che mi tengono eccitantemente sveglio anche durante il lungo tragitto d’auto verso Tignale.

Con me ci sono i “no limits brothers” (i fratelli Bussacchetti); insieme a loro un nipote e la sorella Chiara. Ci guida Franco, cinquantenne nerboruto e mantovano, esperto di canyoning, che di adrenalina è dipendente allo stato terminale e che non perde occasione per scendere dai torrenti di mezza Italia. Il settimo è Daniele un pazzo survivor che ha tentato di attraversare da solo l’Amazzonia nei duecento chilometri di Guiana Francese, accompagnato solo da un fucile. Dicono sia tornato con la tendinite, dopo aver ammazzato un coccodrillo, mentre il suo predecessore non è tornato proprio. Leggende? Forse. Ma i compagni di viaggio non sono tra i più raccomandabili.

La vestizione con la muta e l’imbragatura alza il livello di guardia del sistema nervoso: l’adrenalina inzia ad aumentare proprio mentre il cervello proietta le azioni di adesso al pericolo del dopo. Non ci si mette solo la muta, ma si razionalizza a che cosa serve questa tuta, dove ci accompagnerà, da cosa ci proteggerà.

Chiara ha un forte mal di testa e cerca un rimedio per riuscire almeno a partire nella discesa. Il survivor suggerisce di mangiare corteccia di salice (lo giuro!) che contiene acido acetilsalicilico, mentre Franco sentenzia: “tra dieci minuti, con l’adrenalina che avrai nel sangue, non sentirai più niente”. Ci zittiamo tutti, tra un sorriso appena abbozzato e la consapevolezza di un viaggio senza possibilità di retromarce. Intanto i turisti saliti con le agenzie tornano ad uno ad uno. Una guida ci dice che la troppa acqua degli ultimi temporali rende assai insidiosa la discesa: stupido rischiare, gli istruttori non si fidano molto. Ma noi procediamo e l’adrenalina adesso trasborda, quasi non ci sentissimo parte del genere umano e come se il lungo viaggio in auto giustificasse in qualche modo anche l’annegamento.

Inizia la discesa: dapprima con la corda, poi con i primi piccoli salti. La forra, cioè la gola, è spettacolare e mozzafiato. Le asperità dell’ambiente gratificano la natura con un fascino sinistro e splendido allo stesso tempo.

Ecco il primo vero salto: è qui che l’adrenalina si sente scorrere a folate nel sangue. Quindici metri di vuoto e poi uno specchio d’acqua che da quassù sembra minuscolo e lontanissimo. Attorno solo rocce e tanta paura. Scorre il sangue, scorre più denso dell’acqua del torrente e forse più scuro del buio, che vedo mentre chiudo gli occhi. Respiro a pieni polmoni e riapro lo sguardo, proprio mentre mi accorgo di essere già in volo. La discesa non finisce più. Sembrano ore, invece in un attimo mi trovo sott’acqua. Ho vinto io e prima ancora di recuperare l’ossigeno, mi viene da ridere e da gioire. Emergo con il pollice levato ed il ghigno fiero dell’esperto corsaro.

Continuiamo, calandoci con la corda al fianco di una cascata di cinquanta metri. Giunge rumorosa in una laghetto oscurato dal sole e contornato da rupi ed alberi. Un attimo per riposare, poi il sangue vuole altra adrenalina, quella necessaria per scendere i velocissimi scivoli ciechi, che ti trasportano alla velocità della luce verso il niente, perché acqua e rocce nascondono ogni visuale. Fiducia, fede, speranza e tanta adrenalina, tanta, tanta adrenalina ancora.

Le ammaccature alle ginocchia, i colpi ai polsi ed ai gomiti, ed il freddo di un torrente di montagna proprio non si sentono. Aveva ragione Franco, è l’adrenalina che lenisce ogni dolore e che mantiene alta la guardia. Ci si sballotta tra protuberanze di pietra e qualche tronco d’albero caduto, ma non si sente niente.

È finita, il torrente che arriva tranquillo alla strada sembra restituirci ad un’altra dimensione. Pian piano arrivano il freddo, la fame, poi la stanchezza e qualche dolore. L’adrenalina ora è scappata ed al suo posto è rimasta la gioia.

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Dieci ipotesi sull’esonero del Mancio

 

Non poteva terminare la stagione, senza una gag comica in casa Inter. Rubo l’idea a Carlo Genta che sul Sole24ore di oggi ha pubblicato alcuni motivi del licenziamento di Mancini. L’idea è sua, i contenuti miei.

1. Mancini è stato esonerato per una mera legge delle probabilità: avendo vinto tre scudetti di fila, è più probabile che un asteroide cada sulla Madunina, piuttosto che l’Inter faccia un poker. Quindi Oriali, telefonando a Moratti, avrebbe detto: “meglio cambiare, n’è!”
2. Mancini è stato esonerato per un complotto internazionale: l’acquisto invernale del talentuoso Maniche era la carta decisiva per mettere finalmente le mani sulla Champion’s. Ma il fortissimo centrocampista, portoghese di nascita e di lingua, non decifrava affatto i pizzini dell’allenatore marchigiano. Col lusitano José Mário dos Santos Mourinho Félix andiamo sul sicuro.
3. Mancini è stato esonerato perché all’Inter non sopportano gli italiani. Vicino l’accordo tra Materazzi e la Paganese.
4. Mancini è stato esonerato perché si era spaccato lo spogliatoio. La moglie di Maicon vedeva nel bel Roberto l’immagine romantica del liceale dagli occhi languidi e dalla criniera fluente. Facile capire le incomprensioni createsi sotto la doccia, tra il fragile tecnico ed il portentoso difensore.
5. Mancini è stato esonerato perché aveva rubato lo shampoo a Crespo.
6. Mancini è stato esonerato perché nella dependance di Appiano Gentile serviva il quarto per la briscola con Hodgson, Cuper e Simoni.
7. Mancini è stato esonerato perché alcune foto equivoche, scattate nel privé del night Copacabana, avrebbero ritratto Ronaldo alle prese con una lunga chioma liscia. E Luxuria quel giorno aveva la permanente.
8. Mancini è stato esonerato perché dopo il caro petrolio, aveva offerto a Bedi Moratti un passaggio sulla sua nuova Ligier elettrica. Un affronto che la famiglia Moratti non ha saputo reggere.
9. Mancini è stato esonerato perché dopo l’annuncio di Tremonti sulla detassazione degli straordinari, Formigoni ha calcolato che senza i versamenti del Mancio, sarebbe andata in crisi la spesa pubblica della Lombardia.
10. Mancini è stato esonerato per uno scherzo fatto a Moratti, e finito male. Al ristorante El Tabarin di Milano, il presidentissimo, dopo aver ordinato un brodino coi maltagliati, si lamentava dell’alto ingaggio da 4,5 milioni del suo tecnico. Galliani, con la forchetta ricolma di risotto al tartufo, lo canzonava dichiarando che solo per Tassotti ne spende 7 di milioni. Ecco che tra un bollito indigesto e qualche calice di Ferrarelle, Moratti meditava collerico. E serviva, con la mela cotta finale, un triennale da 9 milioni a stagione a Mourinho. Prosit!

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Game over

È capitato solo a Toto Cutugno a Sanremo ed il metro di paragone conserva in se stesso ogni imbarazzante squallore. Secondo, per la seconda volta consecutiva. Doppia sconfitta al fotofinish nel fantacalcio; l’anno prima un terzo posto. Nella giornata che festeggia lo scudetto dell’Inter, mi trovo anche a dover contemplare un fantacampionato gettato a meretrici per mezzo punto. Presiedo una Lega che mi ha dato grandi soddisfazioni, ma per ora appendo le pagelle al chiodo. Come i bambini capricciosi, che sconfitti sul campetto polveroso, raccolgono il pallone e se ne scappano gementi e piangenti a casa. “Orsù dunque…” col cazzo! 

Come i finti sportivi, ridondanti di belle parole e di ammirevoli propositi solo quando vincono loro. Sì, sì, proprio così. Sportività? What does it mean? 

Forse il caldo dell’estate asciugherà le ferite ed il mite vento di luglio sederà la raggelante sconfitta, riportando la bonaccia del buonsenso. Forse. Ma per ora l’anima si rifiuta, si ribella, si arriccia. Ed il corpo la segue in un silente muso duro.

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