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Ferrata dell’Amicizia
Partenza di buon mattino. E come al solito dimentico qualcosa. È la volta degli scarponcini, ma me ne accorgo subito, appena vedo quelli di Gianluca nel baule della sua auto: pericolo scampato. Due giorni prima, stanco di vedere il mio compare con quelle improbabili bottiglie di plastica al seguito, gli ho regalato una bellissima borraccia d’alluminio. Per dimostrare quanto ha gradito il regalo, il Nostro si ripresenta con le solite bottiglie: sono soddisfazioni, non c’è che dire.
Nel nostro programma doveva esserci la ferrata Ottorino Marangoni di Mori. Percorso complesso, ma relativamente breve (2 ore circa). Arrivati all’attacco della via, e dopo aver appurato che comunque avevo dimenticato a casa la relazione della ferrata, ci imbattiamo in un simpatico cartello che decreta la chiusura del percorso ferrato, causa manutenzione. L’ordinanza del Comune vieta perentoriamente l’accesso. Pensiamo per un attimo di trasgredire la regola e di proseguire con cautela. Rimango tuttavia molto dubbioso per il pericolo che potrebbe attenderci (ne vale la davvero pena?). Il timore di Gianluca è invece un altro, più veniale: è preoccupato dell’eventuale multa, nel caso ci sorprendessero all’interno di un percorso vietato.
Decidiamo per motivi diversi di rinunciare e per non perdere la giornata, scatta il “piano B”. Il “piano B” è quello che ognuno dovrebbe avere in caso d’imprevisto. È la seconda scelta, il programma d’emergenza, l’alternativa da attuare in caso di impraticabilità del “piano A”. Come molte altre cose, noi il piano B non ce l’abbiamo.
Inizia un tour di telefonate per chiedere informazioni agli amici esperti di montagna o a quelli pratici di siti internet. Dopo una mezzora di trattative e di “aiuti da casa”, riusciamo ad accordarci sul fatidico “piano B”. L’alternativa è la Ferrata dell’Amicizia che parte da Riva del Garda.
Il percorso ha una durata totale di 6 ore e nel complesso appare molto pesante e poco avvincente. I 1200 metri di dislivello totale sono distribuiti in un interminabile sentiero faticoso e in lunghi scaloni di ferro. Ottimo per le esercitazioni dei pompieri o per gli amanti delle scale antincendio. Ci mettiamo un’infinità anche perché davanti a noi c’è un tedescone rapido come un panzer e agile come un vagone della transiberiana. Ha il fisico di Helmut Koll, ma è più giovane: decidiamo per convenzione di chiamarlo Herald. Herald sale, ma è lento da morire e il suo culone ci fa ombra.
Arriviamo sulla Cima Sat e nella sosta per il pranzo rompiamo il Patto d’Acciaio con Herald. Dopo l’interminabile discesa, ci rimane il conforto della solita birretta fresca. Tedesca naturalmente, per non tradire il leitmotiv della giornata.
Lucy a San Siro
“Lucy in the sky with diamonds”
(Beatles)
Non solo bandiere, caroselli e brindisi confusi. Quest’anno lo scudetto è stato festeggiato con una torta della Lucy, appositamente condivisa con i colleghi veronesi. Tra le due tifoserie, quella mia e quella dei colleghi, storicamente non corre buon sangue. È per questo che sfoggiare con solennità la crostata rossonera non ha prezzo.
Dunque un ringraziamento pubblico alla Lucy e alla sua consueta disponibilità. Ci ha regalato proprio un bel momento.
In moto, perpetuo
Ieri, in uno spaventoso incidente trasmesso da tutti i tg, ha perso la vita il giovanissimo Tomizawa. E ovunque serpeggia la stessa domanda: “Si può morire in moto a 19 anni?” Certo che si può. Se di mestiere scegli di fare il pilota, se ogni giorno corri a 300 all’ora a cavallo di pochi chilogrammi di ferro, allora si può eccome.
Dispiace certo. Ma non facciamo troppa ipocrisia. Chi decide (o meglio, chi può permettersi di decidere) di correre in moto, deve mettere in preventivo qualche serio rischio. In cambio di questa “scommessa” il sistema offre soldi, fama e divertimento. È una scelta. Che ognuno dovrebbe fare in maniera libera e consapevole.
Insomma, sarebbe più sconcertante se una morte simile accadesse ad un impiegato del catasto o un archivista dell’Inps, no?
Pallone gonfiato
Calciomercato pazzo. L’Inter che ha vinto lo scudetto e ha incassato il premio Champions, non ha praticamente sborsato un euro. Ha anzi fatto cassa, liberando crazy horse Balotelli. Se l’immobilismo nerazzurro è dettato dal tanto acclamato fair play finanziario, perché il Milan, al contrario, può fare spese folli? Perché ha promesso a Barcellona o City la vendita dei gioielli di famiglia (Pato e Thiago Silva) l’anno prossimo? Perché ci sono imminenti elezioni e il presidente necessità di una buona immagine? Un giocatore (Ibra) venduto l’anno scorso per 70 milioni, ora ne vale solo 24? Robinho pagato 32 milioni due anni fa, vale oggi “solo” 15? Borriello non accetta il prestito alla Juve per 3 milioni e mezzo annui perché dice di volerne 4 e poi va alla Roma per 2 e mezzo?
Il popolo dei giornalisti sportivi ricorda gli ignavi danteschi, che correvano da una parte all’altra inseguendo una bandiera senza insegna. La stampa sportiva è sempre pronta a seguire la notizia sensazionale, a schierarsi senza ideale da una riva all’altra… purché si faccia clamore.
Perché questi cronisti e questi direttori non ci spiegano cosa sta succedendo? Perché non può esistere un giornalismo sportivo d’inchiesta? Credono davvero si possa considerare tutto questo normale?
Nel marasma di questo calciomercato pazzo, fa sorridere la reazione stizzita dei napoletani alla cessione di Quaglierella (napoletano d.o.c.g.) alla Juve. In parecchi a Napoli hanno azzeccato l’ambo uscito nei giorni scorsi: 27 e 71. Dicono che il “27” è il numero di maglia dell’attaccante; “71”, invece, è “l’omm ‘e mmerda”.
Ferrata Rio secco e ferrata Burrone Giovanelli
Due ferrate in una. Partiti alla volta di San Michele all’Adige, per percorrere la via attrezzata che si sviluppa a cavallo del Rio Secco, abbiamo deciso di raddoppiare, concedendoci anche la Burrone Giovanelli a qualche chilometro di distanza.
Già dal parcheggio vediamo tre tedeschi che ci anticipano nel percorso di avvicinamento alla parete. Io odio avere qualcuno nelle immediate vicinanze, sia davanti al mio cammino che dietro alle calcagna. Pazienza.
A pochi metri dall’attacco vedo un culo enorme, nudo, prono. Avverto il mio compare: “Gianluca, c’è uno che sta cagando”. La “signorina” tedesca, giusto sul sentiero, a due passi dai propri compagni, ha deciso di “alleggerire” il fisico prima della partenza: iniziamo bene.
Passiamo al fianco dei tedeschi, ci prepariamo e riusciamo a partire prima di loro, che tra imbragature a mille fibbie e carta igienica da riporre, appaiono lentissimi.
La ferrata del Rio Secco non risulta particolarmente difficile, ma qualche bel passaggio vale il viaggio d’andata in auto. Arriviamo in cima in anticipo rispetto ai tempi ufficiali di percorrenza. Dei tedeschi nessuna traccia (organica).
Non domi, ipotizziamo di aggiungere anche la ferrata Giovanelli, a Mezzocorona. Gianluca contatta una segretaria al telefono per farsi leggere la relazione su internet, ed io ravviso gli estremi per l’abuso d’ufficio. Ferrata facile, in ambiente splendido. Un canyon lunghissimo da risalire tra cascate d’acqua (una di cento metri), lunghe scale di ferro e pareti a tratti vertiginose.
Ferrata delle Taccole
Un’escursione nata all’improvviso, solo per non accettare l’invito del Cesco ad un sabato di canyoning con l’incubo di dover viaggiare con due macchine in tre (occorre lasciare un auto al ritorno e andare con un’altra alla partenza).
Io, il Cesco e Gianluca… parecchie imprese comuni alle spalle. Con loro la montagna è una bellezza; innanzitutto perché hanno un senso dell’orientamento e una conoscenza geografica migliori dei miei, e poi perché con loro condivido da sempre esperienze, viaggi e aneddoti piacevolissimi.
Partenza alle ore 7, ma dopo qualche chilometro mi accorgo di aver dimenticato i calzini. Qualche rimprovero e timida ramanzina (“sei sempre il solito”), poi inversione di marcia… Vabbè.
Per la prima volta nella vita, con loro due ho scelto io l’itinerario: cima Telegrafo e ferrata delle Taccole.
Inizia il tormentone: un sole cocente, che brucia le spalle e che ogni quarto d’ora fa sbottare il Cesco: “E pensare che potevamo essere al fresco, nell’acqua”.
La ferrata è dritta, fa quasi impressione e si snoda seguendo una fessura verticale della parete, da cui esce una gradevolissma aria fresca.
Il Cesco sta davanti; Gianluca chiede di stare in mezzo, ma la sua è più una paranoia psicologica: continua a blaterare “guardate che non riesco”, “attenzione che io non sono allenato”, “ ma io non sono capace”, “ecco, adesso dove vado?”. Poi sale come tutti quanti, da perfetto finto piagnone.
La via è impegnativa e abbastanza tecnica, ma tutto sommato piuttosto breve: in un’oretta siamo fuori.
Un leggero pasto al Telegrafo e subito la proposta del Cesco di raggiungere Cima Valdritta, vetta del Baldo. Serve un’altra ora di cammino, ma le nostre perplessità sono legate al fatto che la nuova metà ci porterà lontano dal sentiero di ritorno. Riusciamo a malapena ad obiettare che lui è già partito. Lo seguiamo e dopo un’ora raggiungiamo la cima, che il sottoscritto conquista per primo.
Il tempo di una foto e ci muoviamo velocemente per la discesa, attraverso un ripido sentiero che spacca le ginocchia. Siamo costretti a “tagliare” per i prati che costeggiano la strada, improvvisando un percorso di fortuna.
Alla fine, dopo sei ore e mezza di cammino, una birra in compagnia suggella la magnifica giornata.
Io, loro e Lori
Osannare Lori, dopo il fallimento del Mantova? Si può.
Un anno senza stipendi (degli operai prima, dei giocatori poi), la retrocessione, la mancata iscrizione alla Lega Pro, lo scioglimento della società. La Giuliana De Sio mantovana, che portò il Mantova in B e che volava avida di gloria sotto la curva, ora è l’ombra di se stessa. Sbatte le ali fino all’ultimo, ma solo in una grottesca inquietudine, nel vano tentativo di rimettere a posto le cose. Cose irrimediabilmente storte, dunque impossibili da raddrizzare.
Se fossi un ultrà, sarei molto arrabbiato. Invece per i tifosi l’onta del fallimento societario e l’ingiuria di aver fatto evaporare una squadra intera, sembrano cose da nulla di fronte a qualche annata discreta nella serie cadetta.
Loro, i tifosi, non sembrano affatto scossi e anzi… Sentitamente ringraziano.
Siamo usciti subito…
Girone proibitivo, lo sapevamo fin dall’inizio. Paraguay, Nuova Zelanda e Slovacchia… esistono forse squadre più forti?
Vi do dieci alibi che ascolteremo al bar, per evitare di accettare il fatto che uno juventino dall’ego smisurato abbia messo insieme una squadra di bardotti e si sia fatto ridere dietro anche dalle peggiori casalinghe slovacche.
1- “Siamo usciti subito perché mancava Cassano”. D’altronde se doveva sposarsi… neanche Rodella è andato al Mondiale.
2- “Siamo usciti subito perché mancavano Miccoli e Balotelli” e Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati, Scirea…
3- “Siamo usciti subito perché i giocatori guadagnano troppo”. Eh, e allora?
4- “Siamo usciti subito perché si sono infortunati Buffon e Pirlo”.
5- “Siamo usciti subito perché dieci milioni di padani gufavano contro.”
6- “Siamo usciti subito perché Marchisio giocava fuori posizione”. Anch’io penso che quello non era il suo posto e che dovrebbe giocare in carcere.
7- “Siamo usciti subito perché forse c’era un gol sulla linea che ho visto un’immagine che poteva sembrare che era quasi dentro…”
8- “Siamo usciti subito perché guarda che la Slovacchia sembra sembra… ma invece è fortissima”.
9- “Siamo usciti subito perché Marchetti non ha esperienza”. Ma dai? E cosa fa di mestiere? La guardia giurata?
10- “Siamo usciti subito dal mondiale, ma Berlusconi ci ha detto anche che siamo usciti dalla recessione”. Peggio dubitare della prima o credere alla seconda?
Rosato C’Era
Mentre guardo l’ennesima prova incolore degli azzurri, la platea degli amici si chiede perché la nazionale giochi con il lutto al braccio. Verrebbe da rispondere che il nastro nero è a suffragio dell’opaca prestazione col Paraguay, ma non lo faccio. Ho troppo rispetto del Paraguay.
Ribatto, piuttosto, che è morto Rosato. Mi guardano un po’ attoniti e perplessi. Li vedo: si stanno chiedendo se ho fatto una battuta un po’ difficile sul vino, oppure se sto dicendo la verità. Non sanno se la risposta sia un’incomprensibile verità o un’ingarbugliata freddura. “E chi è Rosato?”, azzardano.
Rosato è un centrale difensivo della nazionale degli anni ’60-‘70, Campione d’Europa, protagonista di Italia-Germania, 4-3. Non lo conosco, ma l’ho sempre sentito nominare in coppia con Cera (l’altro centrale). “Rosato-Cera” è uno di quei binomi che ho nella testa da sempre e che solo il buon Rodeo riesce a comprendere appieno.
Rosato vinse molto anche col Milan, ma non essendo attaccante di razza, per il tifo di massa scivolò rapidamente nel dimenticatoio.
Questo non è un coccodrillo per celebrare un campione e per ricordarne le gesta. È solo un ricordo bizzarro di come a volte ci attacchiamo a nomi apparentemente sconosciuti e li facciamo nostri.
Catenaccio all'italiana
Dovrei forse commuovermi perché Cannavaro ha dichiarato che la nazionale devolverà parte (oh… mica tutto n’è!… “parte”: ½? ¼? 1/100? 1/1000?) degli eventuali premi ai festeggiamenti per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia? Dovrei battere le mani perché uno dei più scarsi capitani che l’Italia abbia avuto (parlo di oggi, non del 2006) s’impegna con tanta sincera generosità?
A parte il fatto che seppur con un girone insopportabilmente facile (il solito culo di Lippi), sì e no riusciremo a passareil primo turno… Perché non devolvere i premi alla costruzione dell’autodromo di Povegliano o alla manifestazione di PittiUomo 2011? È pur sempre l’Italia dell’auto o l’Italia della moda. C’è beneficienza e beneficienza, e forse sarebbe più utile, ma anche più simbolico, aiutare qualche italiano in difficoltà, che celebrare le Guerre d’Indipendenza.
Questi vecchi catenacci, arrivati al mondiale più per riconoscenza che per vero e proprio merito, vogliono farsi amare a tutti i costi, ma la falsa beneficienza da conferenza stampa è peggio di un fallo da tergo.
Ma all’italiano medio cosa importa.? Basta vincere lunedì e tutto è a posto, no? Forza Italia!