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Abbiamo perso tutti

I giornali titolano “Italia spaccata in due”. Ed effettivamente le percentuali di voti pressoché identiche tra i due schieramenti danno esattamente questa immagine. Un paese schierato su due file, uguali per numero e dimensione, opposte per forma e sostanza. Non c’è nulla di strano. Nelle democrazie moderne, gli schieramenti si affrontano e si battono, anche per manciate di voti. Le maggioranze si alternano e si sostituiscono. Laddove le distanze sono risicate, chi governa viene giudicato effettivamente per quanto di buono produce, o bocciato se sbaglia. Anche se sbaglia poco. Al suo posto succedono altri, che subiranno lo stesso spietato, giusto giudizio Si chiama democrazia dell’alternanza ed in situazioni normali è un fattore vincente, un elemento di ricchezza, una peculiarità rara e da preservare. In una sorta di principio darwiniano, giocando sul filo del rasoio e rincorrendo ogni singolo voto, i candidati migliorano le prestazioni, rispondono meglio alle domande degli elettori, sono più propensi a fare il bene comune. Tutto questo in situazioni normali, come dicevo… in Italia no.
Quanto è accaduto segna la sconfitta del paese, non la sua maturazione. Abbiamo perso tutti, semplicemente per questi motivi.
L’abominevole sistema elettorale (sapete che sostengo il maggioritario da tempi non sospetti) ci ha consegnato un parlamento spaccato, ci ha impedito di avere una maggioranza. Peggio, ci ha impedito di avere governabilità . Ci ha restituito una bipolarità falsa, spuria. Inutile.
Il centrosinistra non sarà in grado di governare. Potrà tirare a campare, potrà riuscire a confezionare una finanziaria, ma non produrrà alcuna grande riforma. Non farà alcun cambiamento in materia di diritti civili (per il blocco della sua componente cattolica), non farà riforme liberiste (per il blocco della sua parte più estrema), non riformerà la costituzione, non riformerà la scuola e probabilmente nemmeno la giustizia, non produrrà grandi opere e di fronte alle scelte di politica estera dovrà elemosinare i voti ovunque. Sono note le sue divisioni intestine, croniche, inevitabili. Con questi numeri il centrosinistra appassirà in un lento gioco di veti incrociati. Una maggioranza risicata per il centrodestra avrebbe forse portato a qualche risultato migliore (in termini di quantità e forse anche di qualità ) bloccando evidentemente le spinte più egoistiche e personaliste (leggi ad personam od obbrobri infrastrutturali) in favore di qualche argomento più largamente condiviso. Ma, più probabilmente, sarebbe cambiato poco.
Il mio timore è quello dunque che l’Italia affronti le prossime sfide, nazionali ed internazionali, sotto una campana di immobilismo cronico. Importa chi sta al governo, certo, ma importa ancora di più mettere in movimento il nostro paese. Temo insomma, che tra un anno ritorneremo sventuratamente a votare. Sarebbe un pesante passo indietro, in un passato che speravamo di avere superato.

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I candidati che vorrei

Qualche sera fa ho osservato con estrema attenzione il confronto tra i due candidati premier alle imminenti elezioni politiche. Lascio ad altri l’analisi ed il commento dei contenuti espressi, delle promesse e delle accuse, limitandomi a fare un’osservazione di forma, più che di sostanza.
Dal loro “faccia a faccia” ho avuto ancora una volta la conferma di una tesi diffusa (non solo mia, per carità ) che sostengo da tempo. Ovvero che entrambi i candidati siano inadeguati oggettivamente e soggettivamente a ricoprire il ruolo capo-coalizione e quindi di ipotetico primo ministro.
Berlusconi rappresenta il partito più grande del centrodestra, ma Forza Italia non ha mai effettuato un’elezione all’interno di un proprio congresso. Il suo potere deriva direttamente da se stesso: questa sarà pure un’unzione lecita, ma di certo non democratica.
Prodi non rappresenta alcun partito. E’ stato impalmato come leader di una coalizione, operazione che con il sistema elettorale proporzionale lascia un po’ il tempo che trova. Al contrario del suo dirimpettaio, è stato eletto dal popolo del centrosinistra, tra una schiera di possibili candidati. In questa schiera che si presentava alle primarie dell’Unione mancavano Fassino, D’Alema, Rutelli, e molti altri… Alla farsa delle primarie si è cercato il plebiscito per un candidato già candidato. E plebiscito è stato.
Sul piano soggettivo, ovvero legato più strettamente alle peculiarità della persona, Berlusconi appare inadeguato soprattutto perché non è un politico. Questo dettaglio spesso coincide con una qualità , ma nel suo caso l’incombenza degli interessi extra, quelli personali, cozza troppo con quelli dell’azione di governo. Sappiamo che il problema è vecchio e noto. Rimane tuttavia anche attuale. Sfuggendo all’etichetta di politico di professione poi, sfugge anche ad ogni regola e protocollo che la politica richiede. Esternazioni, superamento di limiti, imposizione di ordini sono gli esempi più lampanti. È sostanzialmente cosa altra, rispetto al candidato ideale.
Soggettivamente Prodi è certamente più idoneo, benché la sua difficoltà a comunicare, a fare sintesi e la sua “a-politicità ” (uomo che ha frequentato i salotti dell’economia, non quelli della politica attiva) non lo rendano il modello completo del premier perfetto.
Indipendentemente dalle posizioni ricoperte e dalle idee professate, ritengo che Fini e Fassino sarebbero candidati più naturali a rappresentare le rispettive coalizioni. Politici scafati e capaci, radicati nel pensiero delle proprie parti e prototipi chiari di centrodestra e centrosinistra. Non vie di mezzo, non prestanome, non “belle facce” da rappresentanza, non premier per se stessi.
Questi sono i candidati che vorrei. Per lo meno non si darebbero l’un l’altro dell’idiota o dell’ubriaco.

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Quale aliquota

Impazza nella campagna elettorale il tormentone sulla tassazione delle rendite finanziarie. L’accusa di un pericolo “new tax” sembra l’argomento più interessante ed importante sul quale incentrare ogni dibattito pubblico. Accusa e difesa sembrano concordare sulla imprescindibile centralità del problema.
Esistono due modi tradizionali per fronteggiare le necessità economiche nell’amministrazione di uno stato: il primo contempla il taglio delle spese (non ultime quelle sociali) e comunemente guida le politiche della destra; il secondo prevede l’aumento delle imposte e fa riferimento, in genere, al pensiero che ispira la sinistra.
Dalla presunzione di quest’ultima linea di governo, il centrodestra ha ipotizzato che i tagli del cuneo fiscale annunciati da Prodi non potessero non scaturire da una nuova imposta sulla rendite finanziarie. Il fatto poi che la parte più estrema del centrosinistra concordi da tempo su questa posizione, annunciando in ogni occasione detto intento, ha gettato ulteriore benzina sul fuoco della polemica.
Ma come stanno attualmente le cose? Per il momento i redditi in questione sono tassati in Italia con due aliquote diverse. Su depositi, conti correnti bancari e obbligazioni inferiori a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva del 27%. Sulle rendite derivanti da titoli di stato, buoni postali, obbligazioni superiori a diciotto mesi e azioni l’aliquota è del 12,5%. Le ipotesi sul tavolo sono dunque quella di uniformare le aliquote con una percentuale media (23%?), o di elevare a 27% anche l’aliquota più bassa. Oltre ovviamente alla possibilità di lasciare tutto invariato.
Nell’Unione Europea alcuni paesi come Gran Bretagna e Slovenia applicano un’imposizione ordinaria, ovvero personale e progressiva sul reddito. Altri, come Francia e Germania utilizzano aliquote uniche. In genere sono più alte del 20%, ma esistono parecchie casistiche di esenzione rispetto all’Italia. Nell’Europa del Nord (come sempre… più “avanti”) l’aliquota sui redditi di capitale è la stessa applicata nell’imposta personale progressiva sul reddito.

Da un lato dunque l’accusa del centrodestra, che sostiene la “deleterietà ” di un aumento d’aliquota nei redditi di capitale. Questo affosserebbe gli investimenti in titoli (anche di Stato), paralizzando Stato e Società quotate, oltre ovviamente a penalizzare i risparmiatori: gravarli di tasse maggiori non giova alla ripartenza. I capitali fuggirebbero all’estero, con buona pace della nostra ricrescita.
Dall’altro la difesa del centrosinistra, possibilista nell’idea di aumentare i dazi in nome di un’armonizzazione comunitaria e in virtù della convinzione che chi doveva “scappare” all’estero… lo ha già fatto. L’ipotesi poi di colpire i grossi speculatori, tanto amaramente popolari negli ultimi tempi, pone l’attenzione ulivista sull’eventualità di differenziazione nella tassazione dei capitali investiti.

Personalmente credo che l’Italia non abbia la necessità di subire nuovi aggravi fiscali. Aumentare il prelievo sul risparmio delle famiglie non mi pare la via maestra per recuperare danari da reinvestire nella macchina statale. Chiunque parla di lotta all’evasione e di tagli agli sprechi. Visto che i due problemi permangono, nonostante il passare dei governi, o si tratta di demagogia, oppure di incapacità . Oppure di entrambe le cose. Sarà retorica, ma se tutti pagassero le tasse e non si buttassero quotidianamente nel cestino una marea di danari pubblici, forse non ci sarebbe sempre il bisogno di affondare le mani nelle tasche del povero e “cabasiso” signor Rossi.
D’altro canto è indubitabile l’iniquità della situazione: mentre a me detraggono in automatico il 23% del mio stipendio, a Mr. Ricucci chiedono a malapena il 12,5% per il suo business (quando va bene).
Perché mai dunque uniformare l’aliquota dei redditi da capitale a quella dei redditi personali (aumentando la prima e abbassando la seconda) non potrebbe essere la soluzione ottimale?

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Il punto Cardinale

Il Cardinale Ruini, durante il consiglio della Conferenza Episcopale Italiana, ha recentemente definito le priorità della Chiesa cattolica per l’agenda politica del quinquennio entrante. Non ha espresso chiare preferenze di schieramento e neppure di partito, ha “solo” indicato quali temi stanno a cuore alla Chiesa, manifestando un’opinione sulle issues da inserire nei programmi di governo. Di fatto, però, è intervenuto nella campagna elettorale.
L’intervento è più che lecito. Mi meraviglia che la tradizione liberale dei radicali e il garantismo della sinistra più estrema non accettino l’ingerenza clericale, tacciando l’ennesimo intervento di Ruini come il tentativo di condizionare il voto. Se si accetta il principio che chiunque possa e debba manifestare un’opinione, perché mai un’istituzione come la Chiesa cattolica non dovrebbe farlo?
Il punto è un altro. O meglio altri due. Il primo riguarda l’evidente contraddizione di Ruini. Premettendo di non voler intervenire nel dibattito politico, e anzi appellandosi ad ogni platea e ad ogni attore (come chiunque ormai) per placare i toni del dibattito e della campagna elettorale, ci si aspettava da lui un coerente e logico silenzio. Se una persona non intende partecipare né essere trascinata in una disputa, cercherà innanzitutto di non entrarci.
Il secondo punto concerne il merito del pensiero espresso. Tra le altre cose, Ruini si è apertamente schierato contro le unioni di fatto, manifestando l’auspicio di un sostegno solido alla famiglia tradizionale. Si è spinto anche oltre, esprimendo la sua preoccupazione di fronte alle scelte a tutela dei pacs, promosse da alcuni consigli regionali. Se si pensa che Prodi è stato il primo candidato premier a sbilanciarsi in favore dei pacs, col beneplacito di tutto il centrosinistra (escluso lo zoccolo duro catto-ipocrita), che Lega ed An combattono da tempo battaglie in direzione opposta e che i consigli regionali citati sono tutti di amministrazioni “rosse”, è abbastanza comprensibile a chiunque che il pensiero cardinalizio ha un invito piuttosto esplicito. A ciò va aggiunto che la citazione di questi argomenti è avvenuta a discapito di altri: non si è fatta menzione ad esempio della pace nel mondo, o della tutela dei meno abbienti.
La riflessione da fare è se davvero sono quelli indicati da Ruini gli argomenti più importanti che al giorno d’oggi la Chiesa deve affrontare.

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La chimera dell’Integrazione

Pochi giorni fa in Turchia, un sedicenne, armato di pistola, è entrato in chiesa uccidendo un sacerdote italiano. Ha confessato l’omicidio, giustificandolo con la profonda indignazione, scaturita dalla pubblicazione di vignette satiriche su Maometto da parte di un quotidiano danese. Per lo stesso motivo, l’episodio era stato preceduto da rivolte insanguinate nel medio-oriente. Poi diverse decine di morti in Libia, in Nigeria, un po’ in tutta l’Africa. Sono questi gli ultimi atti, in ordine di tempo, della guerra radicale islamica nei confronti dell’occidente cristiano.
Il problema non è se la satira contro la religione, quand’anche sfoci nell’abisso del vilipendio, possa o meno giustificare la violenza, o meglio, l’omicidio. Giacché la tesi da sostenere non potrebbe essere che una sola. La questione è piuttosto se sia ancora possibile sostenere la cultura islamica come ricchezza per il mondo occidentale. Se sia ancora possibile vedere l’Islam come opportunità e non come minaccia. La cultura xenofoba, nel senso più letterale del termine (ovvero l’avversione agli stranieri) e la difesa della particolarità , dei propri usi e dei propri costumi, hanno sempre incontrato in Italia l’antitesi di chi sosteneva che l’Islam potesse rappresentare un patrimonio culturale, un’occasione di confronto per la tradizione cristiano-occidentale: aprire le porte, aprire la mente; accogliere non in nome della carità , ma del progresso.
Ma di fronte all’intransigenza e all’estremismo arabo, per carità pilotato a dovere da chi ha ancora il potere di plagiare le folle inerti, ha ancora un senso parlare di opportunità ? Di fronte ad una mancanza totale di disponibilità al dialogo e di accettazione delle regole comuni, ha ancora un senso parlare di Integrazione (con al I maiuscola)?
Non sto parlando dei doveri di carità ed accoglienza che ciascun individuo, prima ancora che lo Stato, dovrebbe espletare. Sto parlando di Integrazione. Quel fenomeno che unisce e fonde, al fine ultimo di completare. Noi ne abbiamo davvero bisogno? E loro lo vogliono realmente?

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Il vizio di forma della Lega

La Lega ha avuto l’indubbio merito storico di fare da madrina ad un importante processo di cambiamento che ha spinto l’Italia attraverso gli anni bui di tangentopoli fino alla seconda repubblica e all’apogeo del maggioritario. Non sono tutte vittorie dirette della Lega. Anzi, per la verità quasi nessuna. Tuttavia è incontestabile che i malcontenti di fine anni 80, ovvero le contestazioni ad una classe politica che non solo era sempre più “inquinata” e corrotta, ma che non poteva più garantire il benessere degli anni passati, insieme alla fine delle ideologie, che poneva termine allo schieramento aprioristico per un partito piuttosto che per un altro, furono polarizzati ed espressi dalla neonata (quindi candida, perché chi non ha passato non può avere fedina penale sporca) Lega Lombarda. Le alte percentuali di voto della Lega di quegli anni non sono riconducibili solo al malcontento dei cittadini settentrionali nei confronti del parassitismo meridionale e del centralismo romano. Sono piuttosto l’espressione, come spesso avviene in questi casi, di una fiducia incondizionata nell’unico soggetto che può rappresentare un taglio radicale col passato. Questo più o meno il ragionamento comune: poiché tutti gli altri alla fine sono uguali, mi fido solo di chi, sulla carta, appare diverso.
La Lega, dunque, ha avuto il merito storico di capeggiare e riunire il malcontento comune, impedendo che lo stesso si esaurisse e che il vecchio sistema si autorigenerasse in un inscardinabile circolo vizioso.
La fiducia degli elettori è sempre scaturita dall’impressione che nella Lega si convogliasse la protesta generale ad un sistema marcio, l’antagonismo ai mali congeniti del sistema, l’antisistema. Lo stesso Bossi, all’epoca, si presentava come uomo di rottura: l’uomo del popolo, l’uomo medio che da governato diventa governante, senza mai diventare politico. I toni accesi e tutt’altro che moral-populisti, diametralmente opposti al buonismo e alla demagogia imperante, hanno prodotto voti, fino a trascinare gli uomini leghisti nelle alleanze di governo. Da movimento extraparlamentare, tra alterne fortune e cangianti vicende, la Lega è entrata in parlamento ed è assisa infine ai banchi dell’esecutivo. Ed è a questo punto della sua storia che ha dovuto fare i conti con il proprio successo.
Non tratterò qui le ideologie leghiste, i paradossi e i limiti che le compongono e nemmeno la liceità e la correttezza delle loro ragioni incipienti o delle cause che ne stanno alla base. Dirò solo che condivido poco o nulla del suo pensiero e ancor meno dei suoi metodi. È però interessante riflettere sulla capacità di gestire il successo (che significa gestire il potere) da parte della sua classe dirigente. L’impressione è che la nomenklatura del Carroccio, abilissima nel contestare il sistema, nel fare opposizione, nel manifestare e discutere ogni errore e limite dello status quo, non sia altrettanto preparata per ricoprire incarichi di vertice, istituzionali. Altre forze politiche votate geneticamente all’opposizione sono incapaci di proporre e attuare la riforma di quanto contestano, proprio per loro definizione e vocazione. Si pensi a Rifondazione, ad esempio. Ma oltre a questo limite di sostanza, la Lega ne mostra anche uno di forma, ovvero sembra incapace, per propria natura, di ricoprire qualsiasi ruolo istituzionale. Le gaffe di Calderoli, le parole di Borghezio sembrano denunciare più un’incapacità di svolgere un ruolo, che una volontà a polemizzare. L’uomo della Lega non sa parlare da politico, non sa agire da statista, non sa operare da diplomatico. Sa urlare il suo malcontento, ma non sa sussurrare la sua soluzione.
L’episodio di Calderoli fotografa in maniera cristallina il concetto. Il tentativo di strumentalizzare l’episodio internazionale delle vignette su Maometto, al fine di ribadire il sostegno a chi osteggia il pericolo Islam, è naufragato tristemente. E anche la giustificazioni di aver agito da uomo e non da politico fa acqua da tutte le parti. Il vero politico non può mai disgiungersi dal suo ruolo istituzionale, né dimenticarsi dell’incarico che copre. Se non è capace di curare la forma che l’istituzione richiede, allora torni a fare l’uomo comune.

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Il gioco dei programmi

Apprendo dal tg delle 20.00 che la Casa delle Libertà ha presentato un programma per la nuova legislatura. Dieci punti chiari e definiti, che riprendono una linea politica già tracciata e che mirano a completare un epocale riforma del sistema, da poco avviata. Pensioni, tasse… Non ho letto i singoli punti, ma potrei elencarli con una margine d’errore davvero risicato.
Sappiamo benissimo che si tratta del noto e banale “populismo delle promesse”. Chiunque può rendersi conto che tra il “Contratto con gli Italiani” (alias la promessa) e le leggi del governo uscente (alias i fatti) non solo non vi è riscontro alcuno, ma non vi è neppure differenza; giacché la differenza è possibile solo tra termini paragonabili.Una tattica pre-elettorale vecchia e logora. Una tattica che tuttavia rischia di essere vincente. Non nel senso che farà vincere Berlusconi, per il quale ho già annunciato la sconfitta, ma nel senso che renderà all’Unione una vittoria mutilata, una vittoria magra. È infatti indubitabile che la CdL sappia comunicare. Il messaggio schematico, facile, accessibile e comprensibile dei dieci punti raggiungerà ogni elettore. Solo i più avveduti sapranno filtrare col setaccio della ragione, distinguendo la demagogia dalla realtà . Per tutti comunque il messaggio resterà chiaro. Magari pochi ci crederanno, ma resterà certamente chiaro e definito. Ed a questo gioco del programma polista (ma forse sarebbe meglio dire “polare”) concorre anche il Centrosinistra. Mentre da una parte si sfoderano “le dieci carte che cambieranno l’Italia”, dall’altra si discute sterilmente sulla necessità del Tav. Non che il dibattito che vede Prodi e Fassino contro Bertinotti e Pecoraro Scanio non sia legittimo. Che una coalizione si confronti e discuta da posizioni differenti su argomenti di questa stregua è più che lecito. Il problema sta nel farlo in campagna elettorale. All’elettore non arriverà il messaggio di una coalizione che discute, ma quello di un’accozzaglia che si divide anche sul più uniforme degli argomenti. Il programma dell’Unione c’è e c’è da tempo. Ma il cittadino comune ne ha l’effettiva percezione?
In definitiva non discuto la sostanza dei due programmi e neppure quella delle due coalizioni. Discuto la diversa capacità di comunicare e la differente efficacia dei messaggi.
In fondo le vittorie elettorali (e le sconfitte) nascono anche da qui.

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Il populismo che si ripete

Con l’aiuto di Gianluca ho rubato dal blog di Beppe Grillo una preziosa citazione sul populismo. E’ un brano di qualche anno fa, ma in tempo di campagna elettorale mi è parso semplicemente attuale. Non trovo termine migliore per definirne il valore di questa analisi. È mia opinione che si possa qualunquisticamente applicare ad ogni governo e ad ogni opposizione.
Leggendolo, pensate a chi può averlo scritto. In fondo (non barate) ho messo l’autore.

Una sola preoccupazione spinge a costruire programmi nuovi o a modificare quelli che già esistono: la preoccupazione dell’esito delle prossime elezioni. Non appena nella testa di questi giullari del parlamentarismo balena il sospetto che l’amato popolo voglia ribellarsi e sgusciare dalle stanghe del vecchio carro del partito, essi danno una mano di vernice al timone. Allora vengono gli astronomi e gli astrologhi del partito, i cosiddetti esperti e competenti, per lo più vecchi parlamentari che, ricchi di esperienze politiche, rammentano casi analoghi in cui la massa finì col perdere la pazienza, e che sentono avvicinarsi di nuovo una minaccia dello stesso genere. E costoro ricorrono alle vecchie ricette, formano una “commissione”, spiegano gli umori del buon popolo, scrutano gli articoli dei giornali e fiutano gli umori delle masse per conoscere che cosa queste vogliano e sperino, e di che cosa abbiano orrore. Ogni gruppo professionale, e perfino ogni ceto d’impiegati viene esattamente studiato, e ne sono indagati i più segreti desideri.

Le commissioni si adunano e rivedono il vecchio programma e ne foggiano le loro convinzioni come il soldato al campo cambia la camicia quando quella vecchia è piena di pidocchi. Nel nuovo programma, è dato a ciascuno il suo. Al contadino la protezione della agricoltura, all’industria quella dei suoi prodotti; il consumatore ottiene la difesa dei suoi acquisti, agli insegnanti vengono aumentati gli stipendi, ai funzionari le pensioni. Lo Stato provvederà generosamente alle vedove e agli orfani, il commercio sarà favorito, le tariffe dei trasporti saranno ribassate, e le imposte, se non verranno abolite, saranno però ridotte.
Talvolta avviene che un ceto di cittadini sia dimenticato o che non si faccia luogo ad una diffusa esigenza popolare. Allora si inserisce in gran fretta nel programma ciò che ancora vi trova posto, fin da quando si possa con buona coscienza sperare di avere colmato l’esercito dei piccoli borghesi e delle rispettive mogli, e di vederlo soddisfatto. Così, bene armati e confidando nel buon Dio e nella incrollabile stupidità degli elettori, si può iniziare la lotta per la riforma dello Stato.
Ogni mattina, il signor rappresentante del popolo si reca alla sede del Parlamento; se non vi entra, almeno si porta fino all’anticamera dove è esposto l’elenco dei presenti. Ivi, pieno di zelo per il servizio della nazione, iscrive il suo nome e, per questi continui debilitanti sforzi, riceve in compenso un ben guadagnato indennizzo.

Dopo quattro anni, o nelle settimane critiche in cui si fa sempre più vicino lo scioglimento della Camera, una spinta irresistibile invade questi signori. Come la larva non può far altro che trasformarsi in maggiolino, così questi bruchi parlamentari lasciano la grande serra comune ed, alati, svolazzano fuori, verso il caro popolo.
Di nuovo parlano agli elettori, raccontano dell’enorme lavoro compiuto e della perfida ostinazione degli altri; ma la massa ignorante, talvolta invece di applaudire li copre di parole grossolane, getta loro in faccia grida di odio. Se l’ingratitudine del popolo raggiunge un certo grado, c’è un solo rimedio: bisogna rimettere a nuovo lo splendore del partito, migliorare il programma; la commissione, rinnovata, ritorna in vita e l’imbroglio ricomincia. Data la granitica stupidità della nostra umanità , non c’è da meravigliarsi dell’esito. Guidato dalla sua stampa e abbagliato dal nuovo adescante programma, l’armento proletario e quello borghese ritornano alla stalla comune ed eleggono i loro vecchi ingannatori.
Con ciò, l’uomo del popolo, il candidato dei ceti produttivi, si trasforma un’altra volta nel bruco parlamentare e di nuovo si nutre delle foglie dell’albero statale per mutarsi, dopo altri quattro anni, nella variopinta farfalla
“.

dal Mein Kampf di Adolf Hitler. Curioso, eh?

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La strategia del Cavaliere

Silvio Berlusconi sa che perderà le elezioni. Non le perderà perché il programma dell’Unione è più concreto, più attuabile o migliore rispetto a quello della CdL, e neppure perché gli uomini di Prodi sono più carismatici dei suoi. Le perderà semplicemente perché ha governato male. Non solo non ha saputo dare quanto aveva promesso, ma neppure è riuscito a convincere di averlo dato. I segnali della sua caduta, prima ancora che nelle consultazioni amministrative post 2001, si trovano nella sua azione di governo. La stessa ragione che lo ha spinto a scendere in politica, ora lo boccerà . Sarà infatti il peccato di aver cercato con accanimento e priorità la difesa dei suoi interessi a scalzarlo dalla sedia che si era accuratamente costruito. Perderà per sua stessa mano, non per merito o valore dell’avversario.
Gli rimane una sola, ultima possibilità . Quella di perdere ai punti. Con la reintroduzione del proporzionale (argomento che non approfondisco perché meriterebbe una trattazione a parte) il suo obiettivo è quello di “perdere, ma per poco”. Col fine ultimo di rigiocarsi una nuova partita dopo che la nuova maggioranza, risicata (per la nuova legge elettorale) e frammentata (per natura), si disintegrerà in uno scontato, e già visto, processo di autodistruzione.
È in quest’ottica che si spiegano le sue continue apparizioni televisive e mediatiche in genere. “Non importa come se ne parla, purché se ne parli”. Berlusconi sta tentando di entrare di prepotenza negli argomenti dei suoi avversari e degli italiani. Questa è la sua tattica. Così semplice e quindi così efficace. Sono settimane che l’opposizione non fa che parlare della sua prepotenza televisiva e della sua occupazione “abusiva” degli spazi di comunicazione. Non si conosce nulla dei programmi degli schieramenti, nulla dei candidati. Non sappiamo cosa la CdL ammetta essere stato aberrante, e quanto giusto, della sua legislatura. Non sappiamo cosa in concreto farà l’Unione. Sappiamo solo che tutti, ed evidentemente faccio anch’io pubblica ammenda, parlano di Berlusconi. È dunque oggettivo il vantaggio di questa tattica. Non paga gli altri candidati della CdL, sempre meno visibili agli occhi degli italiani. Non possono raccontare quanto di buono (secondo loro) hanno realizzato, perché il focus è solo sul premier. E non avvantaggia di certo il centrosinistra, che anziché impegnare tempo e risorse per farsi capire e per spiegare quanto farà , insiste nel demonizzare lo strapotere del cavaliere. In questo modo tutti fanno il suo gioco.
Provino tutti quanti, almeno per una volta, una soltanto, a prestargli meno attenzione. Vorrei tanto sapere se esiste un centrodestra senza di lui, o un centrosinistra senza la paura del demonio.

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