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Perché comandare in Libano
Se l’Italia dovesse guidare il contingente militare internazionale in Libano, sarebbe indubbiamente il raggiungimento di un risultato prestigioso. Sarebbe un ragguardevole successo della politica estera. Si affermerebbe l’autorevolezza internazionale del nostro paese e “contare” internazionalmente implica molti vantaggi. L’autorevolezza nei rapporti internazionali significa peso nelle decisioni centrali. Poter decidere e poter influenzare le scelte dell’Unione Europea, ad esempio, è fondamentale. Le politiche economiche ed agricole dell’Europa hanno una ripercussione sostanziale sulla nazione-Italia. Ed anche l’idea di un paese forte e stabile può promettere evidenti favori (si pensi agli investimenti esteri).
Acquisire appeal nella vetrina internazionale è dunque un mezzo per ottenere vantaggi. Per questo la classe politica italiana si è schierata quasi unanimemente a favore dell’assegnazione del comando al nostro paese. I pochi pareri contrari ed isolati dovrebbero far meditare. All’estrema sinistra ci si arrocca su veti assurdi, temendo (a torto) di tradire ideali superiori. All’estrema destra si teme che il “prestigio dell’Italia” venga confuso col “prestigio di Prodi” e per questo si rema contro. Ma la scelta è giusta.
È chiaro che questo compito deve essere svolto solo in presenza delle più tutelanti garanzie.
– Il mandato deve essere sotto l’egida Onu. Questa condizione, peraltro già operativa, permette di distinguere una missione di guerra da una missione di pace. Infatti solo il mandato Onu può garantire la “non arbitrarietà” di un intervento armato. Giungere in Iraq, senza un mandato della comunità internazionale, altro non è che un atto arbitrario emanato da uno stato contro un altro. Un atto di guerra insomma.
– Devono esserci regole chiare e definite in maniera condivisa. Deve essere l’Onu stessa che detta le regole. Sono le cosiddette “regole d’ingaggio”. L’Italia, in sostanza, deve sapere quali sono i limiti e le facoltà entro i quali muoversi.
– Oltre alle regole, è necessario acclarare gli obiettivi. Siano essi, come in questo caso, di peace building o di peace keeping.
– L’impegno e le risorse (fisiche ed economiche) forniti dalle nazioni che partecipano alla missione devono essere dichiarate fin dall’inizio. Al fine, più che ovvio, di non ritrovarsi a capo di un’armata brancaleone, incapace di onorare gli impegni e dequalificante per chi opera il comando.
Se queste garanzie saranno rispettate, e se ogni circostanza onorerà i crismi più sacri, l’Italia avrà l’occasione di interpretare un importante ruolo di protagonista nel nuovo (speriamo) film che sta per iniziare in Medioriente. Al contrario, col venir meno di una qualsivoglia variabile, co-parteciperemmo alla solita proiezione di sempre, senza infamia e senza lode. E senza un futuro accettabile per nessuno.
I due padri del gettito fiscale
Rimbomba l’eco della notizia secondo cui nel primo semestre del 2006 le entrate fiscali sono aumentate di oltre il 12% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Impazza al contempo la corsa per l’attribuzione di questo record straordinario (straordinario perché extra-ordinario, ovvero oltre, lontano, dalle circostanze usuali). A sinistra e a destra ci si preoccupa di riconoscere l’inaspettato merito. In una gara alla paternità, la preoccupazione più incipiente è quella di accaparrarsi questo figlio imprevisto, ma incredibilmente bello. La banda di Berlusconi è certa che si tratti del frutto partorito dalla semina economica del governo uscente; Prodi, dal canto suo, sostiene che l’iniezione di fiducia targata ulivo abbia spinto gli italiani a pagare le tasse: “se si è certi che non ci saranno condoni, si è più propensi a non evadere”.
La battaglia per il conseguimento del merito, e per la cavalcata della popolarità, offusca le ragioni reali ed esplicative dell’incremento. Nessun economista o sociologo ci ha seriamente spiegato i motivi di questo dato sorprendente. Resteremo a discutere per giorni su chi ha “ottenuto più entrate”; eviteremo di chiederci come possa un governo, in carica da ottanta giorni, influire sulle entrate del semestre precedente; ed eviteremo anche di domandarci come sia possibile che una coalizione in carica per cinque lunghi anni ottenga maggiori entrate nel periodo della sua morte fisiologica. Discuteremo su quello che la classe dirigente desidera che discutiamo, abboccando ancora una volta all’amo.
Abuso di fiducia
Da metà aprile ad oggi, il centrosinistra è ricorso al voto di fiducia in Parlamento per ben sette volte: un record. Per chi non mastica di “prassi istituzionale”, chiarisco che il voto di fiducia altro non è che un espediente, più che lecito intendiamoci, per sveltire l’iter di una norma da approvare. Sostanzialmente, anziché votare sui singoli emendamenti, il Parlamento viene interrogato con una sorta di aut-aut. Il Governo cioè, lo pone in una condizione di scelta: o votare la fiducia all’esecutivo (il Parlamento si fida ciecamente del programma della maggioranza, lasciando perdere ogni dibattito e votazione sugli emendamenti e sulla legge stessa) o sfiduciare il Consiglio dei Ministri (in questo caso il Governo cade e le camere probabilmente si sciolgono).
L’escamotage descritto snatura in modo essenziale il ruolo del Parlamento, privato di quella funzione di discussione e confronto, vitale per la sopravvivenza democratica di uno stato moderno. Se il Parlamento non discute e non si confronta, non vota e non decide, lo Stato si indebolisce finendo per subordinarsi silenziosamente alle decisioni del Governo.
Ha ben poco da giustificare Romano Prodi. Il ricorso alla fiducia finalizzato al superamento dell’ostruzionismo del centrodestra (ovvero, l’unico modo per superare l’infinità di emendamenti) è di per sé una contraddizione di termini. L’opposizione deve fare emendamenti ed il Parlamento deve discuterli. Aggirare la discussione (quando diviene ostacolo) significa evitare che le istituzioni svolgano le funzioni per cui sono state create. A cosa servono un Parlamento che non dibatte e un’opposizione che non propone correzioni o aggiustamenti? E la scusante del “anche i governi prima ne hanno abusato” appare di cattivo gusto e di basso stile: legittimare i propri errori con gli errori compiuti da altri non risolve in modo esaustivo la questione.
Rammarica che questa ondata autoritaria venga da un Centrosinistra che si era proclamato paladino della democrazia e strenuo difensore della pluralità di posizioni e opinioni. È chiaro che il potere straripa da chi ce l’ha.
L’indulto come il condono
I primi cento giorni di un governo, altro non sono che il biglietto da visita che una maggioranza parlamentare deve offrire di se stessa. In una legislatura si possono (o non si possono) fare tante cose, va da sé che i primi tre mesi abbiano un’importanza relativa in riferimento alla totalità del tempo a disposizione. È tuttavia opinione diffusa che dall’inizio di una legislatura si possa inquadrare un andamento più globale, il cui giudizio dovrà essere operato solo alla fine.
Torno dalle ferie con la notizia dell’approvazione alla Camera di un provvedimento di indulto, in grado di scarcerare più di dodici mila detenuti. Riduzione della pena, da applicare anche ai reati finanziari, alla corruzione, alla concussione… persino al reato del voto di scambio mafioso. Se queste sono le priorità dell’Ulivo, i provvedimenti più urgenti da attuare, le questioni da cui partire per gettare le basi di “un’epoca nuova”, allora il problema è davvero sconcertante. Una coalizione che ha trascorso cinque anni a delegittimare Berlusconi in nome del conflitto d’interessi, che ha puntato il dito contro gli abomini delle leggi ad personam, che ha sbrodolato ovunque belle parole in nome dello stato sociale, in difesa dell’ambiente della scuola e quant’altro… davvero non ha nulla di meglio e di prioritario da porre all’ordine del giorno? Davvero è questione più urgente scarcerare Tanzi e Cagnotti, Ricucci e Fiorani, Previti e Wanna Marchi?
Bertinotti ha salutato la votazione sentenziando: “Oggi è una bella giornata per la Camera e per le istituzioni”. Io continuo banalmente a concordare con l’uomo qualunque del bar qualunque, per il quale alla fin fine “sono tutti uguali”. Giudizio insipido e poco originale, ma il più reale che mi sia venuto in mente.
Scelta difficile, ma scelta da fare
Ogni volta che ci si appresta a votare per un referendum, mi stupisce la leggerezza con cui le istituzioni demandano scelte così difficili al popolo. Quasi mai la società civile, infatti, è in grado di prendere decisioni su materie delicate come quelle referendarie. Perché non ha piena coscienza, perché non conosce la materia, perché non sa valutare ragionevolmente le conseguenze e gli impatti. In un gioco degli opposti, gli eletti delegano gli elettori, al fine di “declinare” saggiamente (ma immoralmente) ogni responsabilità. Non nego la sacralità del principio democratico, ma denuncio piuttosto la debordante irresponsabilità della classe dirigente, pronta a disattendere in ogni occasione i compiti che il popolo stesso le ha affidato.
È dunque in questo panorama di confusione e incertezza che saremo chiamati ad esprimere un Sì od un No, per la riforma alla Carta Costituzionale. Come sempre, dietro un quesito di questa portata si celano aspetti positivi e negativi.
Non è la migliore delle riforme, ma è una riforma. Il testo è rimasto invariato per sessant’anni e anche il più scettico degli osservatori ammetterebbe che una revisione è più che opportuna. La ratio che ha ispirato i Padri Costituenti deve seguire l’evoluzione del tempo. Se i principi fondamentali e i diritti vanno conservati, l’organizzazione dello Stato deve adeguarsi alla società in movimento.
Questa tuttavia è una riforma di “una” parte politica, non è una riforma condivisa. D’altro canto i tentativi precedenti di mettere mano alle modifiche (esperimento Bicamerale) sono sempre rovinosamente falliti. L’occasione di cambiare davvero, appare ghiotta perché difficilmente riproponibile. La domanda non è tanto se “sia giusto cambiare”, quanto piuttosto se “il cambiamento sia, o non sia, buono”… Occorre pertanto chiedersi se ne vale la pena, analizzando le effettive modifiche che il disegno di legge propone.
1) La riforma delle due camere con l’istituzione del Senato Federale, e con la divisione netta delle competenze, snellirà certamente gli iter burocratici del Parlamento. Le Regioni peseranno istituzionalmente di più, entrando di diritto nell’amministrazione centrale dello Stato. Le camere saranno più dinamiche, mancherà forse quel ruolo di “decantazione” rappresentato dal vecchio bicameralismo e finalizzato ad impedire legiferazioni avventate e poco meditate. Questo è un rischio reale.
La riduzione dei parlamentari mi lascia indifferente: il problema non è il numero degli eletti (riducendolo anzi, si rischia di minare il principio di rappresentanza diffusa), quanto la loro capacità: meno parlamentari non significa più produttività.
2) La crescita dei poteri in capo al Premier, debilita (per matematica) la funzione del Parlamento. Questo lascia carta bianca al Primo Ministro: gli scioglie le mani e gli consente di realizzare programmi ambiziosi, ma gli conferisce anche la facoltà di compiere danni gravi. Anche in questo caso tuttavia è difficile valutare se l’opportunità superi il pericolo. Premierati forti si riscontrano in molte altre democrazie (Germania, Gran Bretagna) e il tanto paventato “rischio dittatura” mi sembra remoto.
3) Alle Regioni viene attribuito un potere legislativo pressoché esclusivo in materia di sanità, istruzione e polizia amministrativa. Questo migliora la sussidiarietà, dal momento che le risposte verranno fornite ad un livello più vicino rispetto alle domande poste dal cittadino, ma creerà probabilmente disparità di trattamento tra regione e regione, tradendo il principio del federalismo tout court (non sarà infatti un “mero patto tra eguali”).
4) Il Capo dello Stato vedrà ridurre i già esigui poteri che fanno capo alla sua persona. Non è un fatto positivo che il suo ruolo di “notabile garante” si riduca progressivamente.
5) Aumenteranno i membri della Corte Costituzionale eletti dal Parlamento; non cambierà pressoché nulla per le elezioni del CSM.
La riforma è corposa, forse troppo corposa per essere accettata in un colpo solo. Alcune cose sono buone, altre meno. Come detto, è un tentativo prezioso di modificare una struttura che va modificata.
Essendo la proposta di una sola parte politica, sarà efficace e accettabile solo se segnerà l’inizio di una discussione condivisa. Altrimenti sarà un mero atto di forza.
Auspico che tutti votino in coscienza e con consapevolezza. Scegliere come votare solo affidandosi alle parole dei politici o agli schieramenti dei partiti è una decisione irresponsabile e troppo semplice.
Il diritto all'illegalità
Quando commenta la rivolta nel Centro di permanenza temporanea di Torino, il capogruppo di Rifondazione comunista alla Camera non chiede il miglioramento di queste strutture. Vuole che vengano soppresse. Per Gennaro Migliore – così ha detto alla Stampa – “l’immigrazione clandestina non può essere considerata un reato che prevede la reclusione dell’immigrato in strutture detentive controllate dalle forze dell’ordine», il clandestino deve essere trattato «come un soggetto che ha la sua storia individuale”: una definizione che gli consente, ovviamente, di violare le leggi dello Stato italiano. Occorre dunque chiudere i Centri e dare all’immigrato illegale un permesso temporaneo di soggiorno, “magari di un anno”, che gli consenta di trovare un lavoro. il deputato di Rifondazione non si chiede quali sarebbero le conseguenze di una tale liberalità. Non sa, o non vuole sapere che i mercanti de1l’emigrazione dirotterebbero verso l’italia la loro “merce” e aumenterebbero il loro giro d’affari, ignora, o preferisce ignorare, che i nostri confini mediterranei sono una frontiera di Schengen (il trattato europeo sulla libera circolazione delle persone, senza controlli di valico, tra i Paesi che lo hanno sotto- scritto) e che l’Italia ha l’obbligo di presidiarla anche nell’interesse dei suoi partner. Non se lo chiede e lo ignora perché la legge Turco-Napolitano, con cui i Centri furono istituiti, non è la sua legge, perché il trattato di Schengen non è il suo trattato, perché questa Europa non è la sua Europa e, forse, perché questo Stato non è il suo Stato. Sostiene il governo Prodi perché l’accordo con i partiti dell’Unione ha permesso di battere Berlusconi e a Rifondazione di conquistare qualche tribuna, al governo e in Parlamento, da cui predicare il suo verbo anticapitalista, antimilitarista e terzomondista. Ma si ritiene autorizzato a proclamare la necessità di una politica «alternativa» che prescinde dagli impegni internazionali del Paese, dalle sue leggi, dalle sue esigenze economico-sociali e dalle preoccupazioni della maggioranza dei suoi cittadini. Dopo avere assistito per cinque anni, sul problema dell’immigrazione, alle intemperanze e agli scatti umorali del partito di Umberto Bossi, abbiamo ora una Lega di sinistra che sogna un altro Stato e non ha alcuna intenzione di contribuire al miglioramento di quello in cui viviamo. La strada da percorrere è quella delle riforme. Occorre migliorare i Centri e ritoccare, alla luce dell’esperienza, la legge approvata dal governo Berlusconi. Occorre anche contrastare le correnti xenofobe presenti in alcuni settori della pubblica opinione. Ma non è possibile rinunciare ai controlli, incoraggiare l’immigrazione clandestina e permettere che l’afflusso delle persone nel territorio italiano venga lasciato nelle mani dei nuovi mercanti di schiavi, Ciò che sta accadendo in almeno due Paesi mediterranei (in Spagna, recentemente, il problema ha assunto dimensioni ancora più gravi) dimostra che la questione deve essere affrontata in una prospettiva e con criteri europei. Se i confini esterni dei Paesi di Schengen sono frontiere comuni, è necessario che l’Ue, o perlomeno i firmatari del trattato, abbiano una stessa politica dell’immigrazione, concludano con i Paesi della costa meridionale del Mediterraneo accordi collettivi e adottino, in materia di asilo, gli stessi principi. Sappiamo che non sarà facile, per Romano Prodi, governare una coalizione composta da molte anime, Ma un chiarimento oggi, su un problema ditale importanza, è molto meglio di una lunga serie di incertezze e di ambiguità.
(Sergio Romano – Corriere della Sera, 05 Giugno 2006)
Onorevole, mi permetta…
Chiamato in causa sull’argomento “Italia dei Valori” e sul ruolo di Di Pietro, ho inserito un commento sul blog dell’onorevole ed ho mandato una e-mail al suo indirizzo personale di posta elettronica. Questo il mio rimprovero integrale.
Onorevole Di Pietro,
persone a me care, che l’hanno sostenuta affidandole i loro voti, mi hanno introdotto a questo blog. Ammiro la sua iniziativa e le riconosco l’attenzione per la comunicazione verso il cittadino, dote rara nella classe politica italiana. Come avrà modo di intendere, non sono tra quelli che hanno votato il suo partito. Rispetto agli autori degli interventi contenuti in questo spazio, mi divide dunque quel concetto di “mandato”, tanto decantato. Mi uniscono tuttavia il disgusto e la delusione, per un governo neonato che sembra disattendere ogni promessa fin dai suoi primi passi. Le riassumo i motivi che danno origine alla mia (e a quanto vedo non solo “mia”) collera.
1- Lei ha fatto una campagna elettorale improntata quasi esclusivamente sui temi della giustizia. Ha attaccato gli scempi del governo precedente, partendo dall’anomalo rapporto dell’ex premier con i tribunali e terminando con la necessità di “fare giustizia”. Ha biasimato condoni e indulti, ergendoli a bandiera contro la quale lottare. L’elettore medio che le ha conferito mandato, lo ha fatto unicamente per un desiderio di giustizia che lei sembrava incarnare. Lo ha fatto nella speranza che potesse occuparsi direttamente dell’unica questione, la Giustizia appunto, della quale si intende. Ha sperato che sulla poltrona del dopo Castelli potesse sedere un esperto di ruolo. Oggi l’elettore si ritrova con Mastella alla Giustizia e Di Pietro alle Infrastrutture (come se Pecorario Scanio andasse alla Difesa, per dire). I casi sono due: o lei non vale niente ed è incapace di negoziare (ma allora perché mai gli elettori dovrebbero sostenerla?), oppure la sua campagna elettorale era “falsa” e la sua necessità era quella della poltrona qualsiasi.
2- Non perde occasione di argomentare la sua lealtà a Romano Prodi, anche di fronte a scelte poco condivisibili. Mi chiedo: se non condivide le scelte di Prodi, perché non dargli un appoggio esterno, invece di piegare continuamente la schiena evitando di mostrare qualche volta i pugni sul tavolo? Non sarebbe eticamente più corretto?
3- Un teatrino per decidere poltrone ed incarichi. Ma scusi, su che cosa vi eravate accordati prima del voto? Non sulle cariche istituzionali, non sui ministeri. Su che cosa? Sul programma? E allora perché, ad esempio, Bertinotti vuole partire dall’amnistia e lei no? Possibile che non vi accorgiate che ci sono questioni più importanti da affrontare. Alzi la voce!
4- Tanta retorica per dare “più spazio alle donne”. Sarebbe questa l’azione che segue all’idea? Sei donne su venticinque ministeri, di cui cinque senza portafoglio? Lo capite che la gente misura la vostra credibilità anche da questi segnali?
Se queste sono le premesse, le faccio tanti auguri. Ne ha bisogno. Non sono onorevole come lei, ma sono ospitale. Dopo aver giocato in trasferta la invito sul mio blog, più semplice e scarno del suo, ma sicuramente meno contraddittorio (www.silviobau.it). So che non ci verrà. Ma a breve sono convinto che avrà tanto, tanto tempo libero. E se tra qualche mese non saprà cosa fare… io l’aspetto.
Prodi e i suoi prodi: governo nuovo o governo vecchio?
Ho atteso l’elenco della squadra di governo, come il cliente medio del bar sport attende i convocati di Lippi.
In realtà attendevo un vento ed uno spirito nuovi. So che ogni maggioranza “governanda” promette cambiamenti drastici, rivoluzioni efficaci e migliorie radicali. Ed a causa di questa prassi istituzionale, non mi ero minimamente illuso. Tuttavia la critica ad oltranza che il centrosinistra ha fatto dell’era Berlusconi, mi aveva lasciato sperare che “Prodi e i suoi prodi” non potessero che invertire la rotta. Criticare il sistema, scardinarlo e proporne uno diverso. La logica appare disarmante nella sua semplicità e chiarezza.
Ad un solo giorno dall’investitura ufficiale del premier, resto sconcertato dalla lista dei neo (nel senso di inquietanti punti neri) ministri.
Avrei voluto un ruolo di primissimo piano per Emma Bonino, persona capace, non corruttibile e di riconosciuta professionalità. La ritrovo col contentino di un ministero senza portafoglio. Avrei voluto un luminare al Ministero dei Beni Culturali: mi ritrovo con la caricatura di Alberto Sordi (Rutelli). Avrei considerato naturale l’avvento di Di Pietro alla Giustizia: scopro che i titoli di Mastella in materia valgono molto più di Tonino. Tanti proclami sullo spazio da dedicare alle donne: solo Livia Turco ha un ministero con portafoglio. E poi Parisi alla Difesa?
Mi compiaccio per Padoa Schioppa e per Bersani, persone di indubbio valore e sono convinto che D’Alema agli Esteri potrà fare bene. Per il resto devo affidarmi al fatto che i nomi sconosciuti costituiscano una speranza di piacevole sorpresa, più che un sospetto di poltrone ben spartite.
È aumentato anche il numero dei dicasteri, in perfetto stile “prima Repubblica”. Aspettavo un governo nuovo, ma le premesse mi paiono abbastanza vecchie.
Re Giorgio
“Sient a mme nun ce sta nient a ffa, okkay Napulità”
(Renato Carosone, Tu vo’ fa l’americano)
Dopo quattro votazioni, con la maggioranza assoluta di 543 voti su 990 presenti, Giorgio Napolitano è assurto alla carica di Capo dello Stato. La vicenda ha appassionato l’Italia come la nomination di un reality. Non per un innato senso dello stato che coinvolge e permea ogni anfratto della società italiana, quanto piuttosto per uno strano senso della suspense che ci porta morbosamente a mangiarci le unghie, ogni volta che siamo in attesa di conoscere l’epilogo di qualsiasi evento somministratoci dai media. Si sostiene da più parti che l’attesa per il foto finish sia alquanto esagerata. In definitiva i poteri effettivi del Presidente della Repubblica sono piuttosto marginali, rispetto magari al Presidente del Consiglio o confrontati a quelli del Capo dello Stato di un’altra nazione (si pensi alla Francia). Compiti principali che attendono Napolitano sono la rappresentanza ufficiale della nazione, lo scioglimento delle Camere (previa consultazione), la nomina formale del Presidente del Consiglio, la possibilità di rinviare alle Camere le leggi approvate, la nomina dei senatori a vita, la presidenza delle riunioni del CSM, la nomina di un terzo dei giudici della Corte Costituzionale, il comando delle Forze Armate, la presidenza del Consiglio supremo di difesa, la possibilità di concedere la grazia e di commutare le pene, il conferimento delle onorificenze. Altre attribuzioni sono poco più che ornamentali, dunque in definitiva il suo ruolo non parrebbe così delicato…
Tuttavia l’importanza dell’incarico è di ben altra natura. Non scaturisce infatti da poteri circoscritti e tangibili, ma da una serie di prerogative personali. Innanzitutto il Capo dello Stato deve rappresentare tutta la società civile, nel senso che deve riassumere i valori maggiormente condivisi. Se esso è sunto, specchio e summa di tutto il popolo, avrà certamente un ascendente sulle scelte di Parlamento e Governo. Fungerà da monito e garante per gli indirizzi governativi, nonché da credibile e ricercato consigliere. Pensiamo al rispetto che suscitava Ciampi quando esprimeva un’opinione. Governo e opposizione non hanno mai manifestato dissenso alle sue affermazioni. Paragoniamolo a Scalfaro o Cossiga, biasimati e strumentalizzati in ogni occasione possibile. Un Presidente della Repubblica forte, il cui vigore, come detto, sgorga dalla sua biografia personale e conseguentemente dall’appeal e dalla condivisione da parte del popolo e dell’opinione pubblica, potrà garantire la salvaguardia di principi e valori fondamentali (costituzione), nonché condizionare molte scelte politiche dell’esecutivo. Un presidente “amato” difende la Repubblica e infonde fiducia a chi la amministra. Se non altro per semplice scelta di opportunità, il Governo non potrà mai contraddire un Capo dello Stato benvoluto e sostenuto da tutta la nazione.
È dunque per questa semplice ragione che la scelta di un uomo altamente rappresentativo appare fondamentale: perché dal suo tasso di gradimento deriva la sua forza. Per la stessa ragione non poteva essere scelto D’Alema. Opinabile è la sua statura istituzionale, ma indiscutibile è la sua appartenenza ad una precisa e definita parte politica. Troppo compromesso, insomma, per essere super partes.
Entrambe le coalizioni hanno sbagliato il metodo d’approccio alla questione. Il centrosinistra doveva proporre una rosa di nomi, ma ufficialmente ha candidato e si è autovotato un solo candidato: il suo. Dopo anni a predicare la condivisione e la concertazione, ha perso la prima, importante occasione di razzolare bene. Si è scelto il candidato e lo ha eletto con la forza dei numeri, infischiandosene della metà degli italiani che ha votato dall’altra parte. Sull’Ulivo pende anche l’ombra di una mirata spartizione delle poltrone tra i principali partiti componenti. Nulla di nuovo, se questo non stridesse ruvidamente con i retorici principi sventolati con arroganza, da chi si è sempre sentito depositario assoluto del bene.
Il centrodestra ha sbagliato a non sostenere Napolitano. Si poteva eleggerlo al primo giro, impalmandolo “presidente di tutti”. Invece no.
L’uomo e il suo profilo non si discutono, Napolitano va benissimo. Sono sindacabili le pappocce, fatte da entrambe le parti, inutili e facilmente evitabili con l’uso di misurato buonsenso.
Personalmente avrei preferito una personalità più affrancata come Mario Monti, ma sono soddisfatto dell’esito. “Okkay Napulità”, dunque. Certamente meglio lui, di gentaglia come Amato o Dini.
Quel 24% che non capisco
La Cassazione oggi ha confermato la bontà degli scrutini elettorali, approvando ufficialmente e definitivamente la vittoria, seppur stringatissima, da parte dellâUnione e di Romano Prodi. Si può dunque dibattere con serenità e certezza a proposito dei risultati delle politiche 2006.
Ho compreso benissimo le motivazioni che hanno spinto metà degli italiani a votare per il centrosinistra. Comprendo altrettanto bene le ragioni che hanno portato lâaltra metà a votare per il centrodestra. Visto che ci si aspettava una vittoria più netta da parte dellâUnione, è forse lâanalisi delle preferenze alla CdL a meritare più attenzione, a richiedere una spiegazione più articolata.
à comprensibile la percentuale raccolta da Alleanza Nazionale. Chi si sente più o meno profondamente ispirato ai valori della destra, difficilmente poteva affidarsi alla sinistra. Men che meno a questa sinistra. Anche chi è rimasto deluso dallâesperienza del governo uscente, se animato da un cuore a destra, ha probabilmente deciso di estremizzare il proprio voto, appoggiando AN e fornendo un supporto meno diretto al Cavaliere.
à comprensibile la percentuale raccolta dallâUdC. Moderati di destra, cattolici impauriti dallo spettro comunista, âfolliniani di secondo peloâ (ossia moderati di centrodestra che hanno capito col tempo che Berlusconi è un debito, non una risorsa) non potevano che confluire nei proseliti di Casini.
à comprensibile la percentuale raccolta dalla Lega. Lâelettore del Carroccio ha due sole esigenze: il federalismo (meglio se fiscale) e la lotta allâimmigrazione (clandestina o meno). Gli stanno a cuore solo questi due temi e relega tutto il resto nel contenitore della bassa priorità . Se trova risposte su questi argomenti, allora è disposto ad accettare qualsiasi compromesso, ovvero ad appoggiare chiunque. Potrà definirsi visione limitata, oppure visione efficace. Ma tantâè, il risultato non cambia.
Ciò che non mi risulta comprensibile è lâaltissima percentuale raccolta da Forza Italia. A parte coloro che credono ciecamente nellâopera del Cavaliere e nella sua leadership carismatica (sempre più in via dâestinzione), chi altri ha votato per Forza Italia? Non le persone appartenenti allâautentico pensiero della destra, non gli estremisti, non i moderati cristiani e/o democristiani. Per tutti costoro ho già elencato le naturali case di appartenenza, gli approdi più ovvi. Ma allora perché un elettore su quattro ha preferito il partito di Berlusconi, facendone il primo movimento italiano? Seriamente, ed oltre ogni polemica, sarei grato se qualcuno mi spiegasse chi ha formato quel famoso 24%.