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I soliti accordi
Dopo il meeting di Arcore, anche l’Unione ha stilato in fretta e furia una proposta per la revisione della legge elettorale. Segno che i tempi sono maturi e la scadenza assai prossima.
Facile annuire ed essere d’accordo con gli scenari presentati. L’inciviltà della legge precedente rende apprezzabile anche la proposta di Calderoli. E tra mille criticità criticabili, anche la “bozza Chiti” può essere considerata un buon punto di partenza.
Non è un caso che i due poli stiano cercando una sorta di convergenza al proposito. Non è improbabile neppure che riescano a trovare un accordo nel giro di poco tempo. La legge elettore serve, dunque mettersi al tavolo per lavorarci è il minimo che si possa fare.
Si è trovata la convergenza su sistemi più o meno proporzionali, che personalmente aborro, ma che ritengo positivi se unanimemente condivisi. Sbarramenti e premi di maggioranza vari non costituiranno alcun ostacolo ad un’intesa partecipata. Insomma, l’accordo si troverà.
È triste che tra le miriadi di proposte nessuno abbia avanzato quella dell’ineleggibilità di condannati e inquisiti. Anche su questa “non proposta”, l’accordo sarà unanime.
Illusioni di un Cavaliere
Ha ragione Pierluigi Battista quando definisce un “errore del Cavaliere” il voto di ieri della CdL sul rifinanziamento delle missioni italiane all’estero. Eccerto. In primis perché Berlusconi & Co, in barba ai proclami di sempre nei quali ponevano l’interesse nazionale al di sopra di tutto e di tutti, si sono rimangiati voto e parole nella speranza di raggiungere gobbamente e goffamente un risultato di quartiere (la caduta di Prodi). In secondo luogo perché il gioco non è valso la candela ed al danno si è aggiunta la beffa di vedere Prodi sempre ancorato al suo timone. Hanno sbagliato i conti, insomma, e poco valgono le giustificazioni del giorno dopo, quelle in cui si dice che l’astensione al Senato è scaturita da motivi ideali, perché il provvedimento da approvare era troppo “timido” per essere sostenuto. Balle. Il voto di ieri poteva ammettere solo il pollice verso della sinistra estrema. Chi non appartiene a questa schiera e ha voltato le spalle, lo ha fatto per raggiungere altri fini.
Ora però Berlusconi dovrà cercare di spiegare e giustificare il tentativo maldestro. Come può convincere gli Italiani di volere anzitutto il loro interesse, avendo dimostrato ancora una volta in maniera eclatante di badare principalmente al proprio tornaconto?
La caduta di Prodi e l’inizio della fine
Che il governo di Romano Prodi fosse nato sotto la grigia nube della provvisorietà è un dato di fatto. Auspicavo tuttavia che nel suo breve mandato potesse affrontare di petto alcune delicate questioni. Liquidare i problemi più urgenti per poi tirare a campare, nel semplice, ma razionale giudizio che ogni ulteriore intervento sarebbe stato un surplus di tutto guadagno. Così non è stato. Il Governo ha disatteso le promesse, non ha affrontato i temi più veri e sentiti della sue battaglie (conflitto d’interesse in primis) pur trovandosi di fronte alla più ghiotta delle occasioni. Ha preferito la strada dell’impopolarità, battendo terreni dove sapeva che sarebbe stato difficile camminare compatti. Non ha combattuto le guerre comuni, ma ha intrapreso battaglie di quartiere, in luoghi diversi e con avversari diversi. Si è occupato di indulto, di pacs, di una finanziaria dura. Troppo difficile, anche per chi ha (e Prodi non le ha) legioni forti e compatte. Per usare un gergo meno forbito, ma più chiaro, potrei dire che se l’è cercata. Questa caduta di Prodi rammarica proprio perché con qualche accortezza in più poteva essere evitata.
Ora le ipotesi di futuribili si riassumono sulle dita di una mano:
– L’eventualità più accreditata è quella del “Prodi bis”. Il professore che ottiene un reincarico, fa un piccolo rimpasto e naviga a vista, in attesa del primo scoglio. Sarebbe un governo fotocopia, che non può spingersi nei mari delle riforme importanti, che non può pestare i piedi al Vaticano né scegliere linee nette di politica estera. Sarebbe una “non soluzione”, perché il problema reale verrebbe solamente rimandato di qualche mese e l’agonia degli Italiani proseguirebbe senza ragione.
– È più augurale, seppur poco probabile, la strada del cambio di maggioranza. Se si riuscisse a formare un governo confinando la sinistra radicale, potrebbero nascere i presupposti per una legislatura più longeva e creativa. Ma se non si vuole attingere dall’Udc (e nemmeno l’Udc vuole fungere da stampella), la strada diventa un vicolo chiuso.
– L’avvento di un gabinetto di tecnici o quello di un governo di minoranza stile prima repubblica, avrebbero un identico effetto. Il primo opererebbe con le mani legate, col secondo trionferebbe il cerchiobottismo fine a sé stesso. Un guaio statico.
– Il peggiore degli epiloghi sarebbero le lezioni anticipate: Berlusconi tornerebbe al timone e con lui le barbarie ad personam e le nefandezze della sua Giustizia. Purtroppo, infatti, il miraggio di una destra affrancata dal Cavaliere appartiene ancora all’ambito dell’irrealtà.
Dovunque la si guardi e comunque la si prospetti, tutte le ipotesi risolutive future sono accomunate dal paradossale denominatore del peggioramento. Non si tratta di catastrofismo, ma la debacle prodiana rappresenta solo l’inizio di una lunga fine.
Se il Dio di Ruini diventa di destra
Mi è stato inoltrato un ottimo articolo confezionato da Ezio Mauro, direttore di Repubblica. Lo trovo molto interessante e altrettanto condivisibile. Lo ripropongo.
C’è una domanda cruciale per la politica italiana che nessuno fa a voce alta, assordati come siamo in questo inizio di secolo dal suono delle campane dei vescovi. Eppure è una domanda che, a seconda delle risposte, può cambiare il paesaggio politico del nostro Paese e può ridefinire alleanze e schieramenti. La questione è molto semplice e si può sintetizzare così: è ancora consentito, nell’Italia del 2007, credere in Dio e votare a sinistra?
Nel silenzio della coscienza individuale è senz’altro possibile e anzi è comune, risponderebbero molti dei nostri lettori, che hanno in mano un giornale laico, sono in parte cattolici e votano abitualmente per lo schieramento di sinistra, magari talvolta turandosi il naso. E infatti, non è la libera testimonianza individuale che è in discussione: e ci mancherebbe. Ciò che invece mi sembra sotto attacco è l’organizzazione politica del pensiero cattolico di sinistra, la sua “forma” culturale, l’esperienza storica che ha avuto in questo Paese e infine e soprattutto la traduzione concreta di tutto ciò nella nostra vita di tutti i giorni e nel possibile futuro. Cioè l’alleanza tra i cattolici progressisti e gli ex comunisti che è al centro della storia dell’Ulivo, che oggi forma il baricentro riformista del governo Prodi e che domani dovrebbe essere la ragione sociale del nuovo partito democratico, risolvendo l’identità incerta della sinistra italiana.
Se non fosse così, non si capirebbe tutto ciò che si muove in queste ore sotto il mantello dei vescovi. È come se per la gerarchia fosse iniziata la terza fase, nei rapporti con la politica italiana. Prima, nel Paese “naturalmente cristiano”, la Chiesa poteva presumere di essere il tutto, affidando ad un unico soggetto politico – la Democrazia Cristiana – la traduzione nel codice statuale dei suoi precetti e la tutela dei suoi timori, sempre nell’ombra dei corridoi vaticani, perché l’impronta del Papato oscurava comunque in una surroga di potenza l’identità culturale dell’episcopato nazionale.
Poi, a cavallo del giubileo e all’apogeo di un papato universale come quello di Wojtyla, ecco la coscienza per la Chiesa di essere finita in minoranza in un Paese cattolico per battesimo ma scristianizzato nei fatti, improvvisamente “terra di missione” per una riconquista che per compiersi ha bisogno di un disegno forte e autonomo dei vescovi, perché dopo secoli anche in Italia da “tutto” la Chiesa deve diventare “parte”.
L’uomo che gestisce il passaggio in minoranza della Chiesa – la seconda fase – e capisce le potenzialità politiche di questa nuova condizione, è il cardinal Ruini, presidente della Cei.
Diventando parte, la Chiesa diventa reattiva, combattiva, entra in concorrenza con le altre grandi agenzie valoriali e le centrali culturali, si “lobbizza” agendo da gruppo di pressione sui centri di decisione della politica e soprattutto della legislazione. Ruini intuisce che la sfida della modernità, in questa fase, è soprattutto culturale, e capisce di trovarsi di fronte – dopo Tangentopoli e la caduta del Muro – partiti senza tradizione, senza bandiere, senza identità storica. Il pensiero debole della politica italiana può dunque essere attraversato facilmente dal pensiero forte del Papa guerriero, e nella breccia possono utilmente infilarsi i vescovi per una politica di scambio che abbia al centro i cinque temi della vita, della solidarietà, della gioventù e soprattutto della famiglia e della scuola.
La terza fase comincia quando Ruini avverte che alla Chiesa è consentito, nei fatti, ciò che nella Repubblica non è permesso alle altre “parti”. Ogni componente della società, ogni identità culturale, nella sua autonomia e nella sua libertà deve riconoscere un insieme in cui le parti si ricompongono: lo Stato. Ma è come se la Chiesa, mentre ammette di essere diventata minoranza, non accettasse di vedere in minoranza i suoi valori, faticasse a stare dentro la regola democratica della maggioranza, dubitasse del principio per cui in democrazia le verità sono tutte parziali, perché lo Stato non contempla l’assoluto. La Chiesa oggi in Italia è più debole di ieri nei numeri? Non importa, perché i numeri non contano visto che per Ruini il cristianesimo è avvertito nel nostro Paese come “senso comune”, una sorta di substrato antropologico, una specie di natura italiana: alla quale si può trasgredire solo con leggi che diventano automaticamente contro natura, dunque sono contestabili alla radice.
È un discorso che ha in sé l’obiettivo grandioso della terza e ultima fase del lungo regno ruiniano sull’episcopato italiano: la riconquista dell’egemonia, non più attraverso il partito dei cristiani ma direttamente da parte della Chiesa, che con la spada di questa egemonia rifonderà la politica, separando infine il grano dal loglio e costituendo un nuovo protettorato dei valori nell’esercizio di un potere non più temporale, ma culturale. Un progetto che può compiersi solo davanti ad un sistema politico gregario, senza autonomia, incapace di testimoniare un sentimento civile della Repubblica, svuotato di identità al punto da vedere nella Chiesa l’ultima agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie. Fonte ancora di mobilitazione, forse di legittimazione, almeno di benedizione, in un Paese in cui tutti i leader politici – o quasi – si sono convertiti se non altro mediaticamente, o comunque hanno dichiarato di essere pronti a farlo, e altrimenti sono in lista di attesa: o, come si dice, in ricerca.
Siamo davanti ad una sorta di neo-gentilonismo, con la religione che diventa materia di scambio, nella presunzione che sia vera la leggenda del voto cattolico di massa orientato dalla stanza del vescovo. Con l’intercapedine culturale dei partiti debole e fragile, la Chiesa scopre la tentazione di raggiungere direttamente il legislatore, si accorge che la precettistica può influenzare molto da vicino la legge, dimentica la distinzione suprema tra la legge del creatore e la legge delle creature. Se il disegno è egemonico, tutto è potenza. E se un testo legislativo diventa simbolico, qui si deve dare battaglia fino in fondo perché la bandiera trascende la norma e il valore ideologico supera il valore d’uso. Ecco la prima risposta alla domanda intelligente di Giuliano Ferrara ai vescovi: dove volete andare con questa battaglia intransigente, non più negoziale, sui Pacs, visto che si prepara “un risultato che collocherebbe l’Italia in un ambito di cautelosità e di disciplina morbida delle pretese nuove forme di famiglia”? Semplicemente, vogliono andare fino in fondo: non della battaglia sui Pacs, ma della battaglia per l’egemonia culturale, che è appena incominciata.
Come accade in ogni battaglia, anche in questo caso il cardinal Ruini lascerà tra poco in eredità al suo successore non solo le truppe, le mappe e le strategie, ma anche le alleanze. Che sono tutte a destra, perché qui si compie, oggi, la lunga cavalcata di quello “strano cristiano” che avevamo visto muoversi sulla scena italiana per la prima volta sei anni fa. Incapace da più di un decennio di far nascere un nuovo sistema culturale che dia un codice moderno ed europeo a moderati e conservatori, la destra si accontenta della prassi di potere e di consenso berlusconiana e prende a prestito le idee forti, che non ha, nel deposito di tradizione della Chiesa italiana. La destra cerca un pensiero, la Chiesa cerca la forza e nell’incontro inedito il verbo si fa carne: e poco importa che sia carne pagana, con la mistica idolatra del berlusconismo che ha introdotto una nuova religione in politica, rendendo Dio strumento dell’unzione perenne al demiurgo, mentre nasce un nuovo “cristianismo”, con la fede svalutata in ideologia.
Se questo disegno si compie, la Chiesa corre il rischio mondano di diventare parte, se non addirittura un soggetto politico diretto, e si amputa a sinistra la cultura politica cattolica, per la prima volta nella storia della Repubblica. Escludendo quei cattolici democratici che hanno preso parte attiva alla nascita della costituzione e delle istituzioni repubblicane, e che soprattutto hanno saputo per decenni coniugare la fede con la laicità dello Stato. Forse per il cardinal vicario vale ancora la condanna di Augusto Del Noce contro i “progressisti cattolici”: “Trasformano talmente il cristianesimo per non ledere l’avversario, che bisogna dubitare se effettivamente credano”. Certo, per Sua Eminenza vale la profezia di Rocco Buttiglione: “Il cattolicesimo che si era lasciato ridurre nell’inglobante progressista oggi non ha più nulla da dire, torna attuale il pensiero cattolico che aveva rifiutato il progressismo”.
La partita ruiniana sembra puntare proprio qui, a far saltare l’alleanza tra i cattolici democratici e la sinistra ex comunista, in un disegno riformista che può diventare un partito. Ecco perché ieri sui Pacs – dove i vescovi intervengono ormai sugli articoli di un disegno di legge, non sui valori – è riecheggiato addirittura il solenne “non possumus” di Pio IX, con un monito preciso contro la sinistra e in particolare contro i cattolici democratici: quanto sta accadendo, ha scritto infatti con chiarezza il giornale dei vescovi con un linguaggio mai usato nei giorni più neri della Repubblica, è “uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana”.
Il dado, a questo punto, sembra tratto. È vero che la presenza cristiana nel Paese, come dice Pietro Scoppola, non è riducibile a questo schema di comodo. Ma la Chiesa, con lo spartiacque benedetto di Ruini rischia di aprire per la prima volta un fronte religioso nella battaglia politica italiana, qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, una faglia inedita. In un terreno fragilissimo, dove troppi politici sono pronti a cambiare opinione a ogni rintocco di campana, sensibili nei confronti dei vescovi molto più al comando che ai comandamenti. Ecco perché bisogna chiedersi se è ancora consentito credere in Dio e votare a sinistra.
Anche se bisognerebbe aggiungere un’ultima domanda: in quale Dio? Nella prima fase dell’era Ruini, era un Dio post-democristiano, comodo perché relativo, appagato dalla sua onnipotenza e affaticato dal suo declino. Nella seconda fase, quella della minoranza, è diventato un Dio italiano, in una sorta di via nazionale al cattolicesimo. Oggi, rischiano di farci incontrare un Dio di destra, e già solo dirlo sembra una bestemmia.
(Ezio Mauro – da La Repubblica del 7 febbraio 2007)
"Dico", quel che penso
Che le coppie di fatto siano un fenomeno reale, esempio tangibile del mutamento progressivo della società, è incontrovertibile. Mutamenti sociali, nelle abitudini, nelle aggregazioni, che devono essere viste come domande che il cittadino pone a tutti coloro che regolano la vita di una comunità. È per questo che uno stato laico non può non considerare simili questioni e attivarsi per fornire delle risposte. Uno stato laico deve innanzitutto riconoscere queste tendenze crescenti e deve esprimere i suoi giudizi in base alla legislazione vigente, non ai precetti morali che vivono fuori dalla sua laicità. Altrimenti è un’atra cosa. In secondo luogo, riconosciute e giudicate queste tendenze, deve saperle fronteggiare.
Al Governo Prodi va dunque il merito di aver preso in considerazione una necessità diffusa, di essersi mosso per dare ai cittadini delle risposte di fronte ad un crescente bisogno collettivo.
Confuto tuttavia il merito di questa risposta, sempre in virtù della mia vecchia convinzione che Prodi e i suoi prodi siano obbligati a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: si trovino cioè costretti ad accontentare pochi, nel tentativo di non scontentare nessuno.
Non si capisce innanzitutto come si possano equiparare le coppie di fidanzati a quelle di parenti (fratelli e affini). Due fratelli che convivono hanno forse il bisogno di vedere sancito il diritto reciproco di visita all’ospedale? Non esistono già norme che tutelano la parentela in materia di successione? Occorre stabilire con nuove leggi che due fratelli conviventi hanno il diritto di subentrare vicendevolmente nei contratti d’affitto?
Tutti questi diritti, a cui si sommano svariati doveri (es. mantenimento) sono attribuiti anche alle coppie di fatto, generalmente intese (fidanzati conviventi). Ma allora cosa distingue tutto questo da un tradizionale matrimonio civile? Non stiamo parlando alla fin fine degli stessi diritti e doveri sanciti in un atto pubblico, stipulato di fronte al sindaco?
Il dubbio è che tutto il palco serva a sostenere l’introduzione sulla scena dell’istituzionalizzazione delle coppie omosessuali. Ma allora non sarebbe stato più razionale e corretto legiferare specificatamente per queste realtà? Certamente sì. Tuttavia lo scalpore e i voti contrari sarebbero stati di ben più ampie dimensioni.
Un colpo al cerchio, uno alla botte…
Il Centrosinistra e il vallo dei diritti civili
Avrà dei seri problemi Romano Prodi ad affrontare le delicate questioni della tutela dei pacs e dell’eutanasia, argomento, quest’ultimo, rientrato in voga grazie alla vicenda Welby.
Le contraddizioni intestine della sua maggioranza verranno al pettine e non potranno essere superate. L’ala sinistra, che va da Rifondazione ai Verdi, ha già iniziato a sbandierare l’esistenza di un programma elettorale condiviso, in virtù del quale verrebbe legittimato un intervento in materia. Nulla di specifico, perché il programma che raggruppava l’Unione della campagna elettorale contemplava l’intento di agire, ma poco diceva riguardo agli interventi precisi da intraprendere. È comunque un patto, al quale ogni sottoscrivente si è volontariamente legato. La frangia Radicale, dal canto suo, pare aver accettato l’alleanza in funzione quasi unicamente di questa possibilità: l’obiettivo delle riforme liberali in materia di diritti civili è da sempre il cavallo di battaglia ed il fine ultimo della triade Bonino-Pannella-Capezzone. Scettica ed intransigente appare invece la componente cattolico-centrista della coalizione. Al di là dei motivi più che comprensibili dell’ostilità alle riforme, gioca un ruolo chiave la tempestiva, chiara ed intransigente presa di posizione del Vaticano. Non c’è infatti alcuno spazio per cincischiare, temporeggiare o barcamenarsi nell’incertezza: Razinger ha dettato le regole per i buoni cattolici; ipotizzare comportamenti diversi da parte di Margherita e Udeur diventa piuttosto pindarico.
Essendo le questioni di natura “morale”, è impensabile un cambio di rotta da parte di uno dei due schieramenti: un partito può cambiare idea sulla politica economica, su sanità o lavori pubblici, ma è inverosimile che pieghi la schiena sui diritti civili. Dovrebbe inevitabilmente mettere in discussione la propria ideologia e questo in Italia non avviene mai, perlomeno non apertamente e dichiaratamente.
Cosa accadrà dunque? Certamente per questo non cadrà il Governo. Accadrà che le questioni verranno affrontate blandamente, cercando di accontentare un poco gli uni senza scontentare troppo gli altri. Non accadrà nulla di epocale o trascendentale, nulla di vagamente “zapatereggiante”. Insomma nessun epilogo alla spagnola, ma come sempre tutto all’italiana.
Casini in vista
“Tutto il Casini fatto per averti,
per questo amore che era un frutto acerbo,
adesso che ti voglio bene io ti perdo”
(E. De Crescenzo – Ancora)
Diciamolo chiaramente: lo strappo di Casini non segna tanto la decisione di brandire una nuova strategia d’opposizione, come il diretto interessato ripete ad libitum, quanto piuttosto la messa in discussione di un preciso schema gestionale, quello del Centrodestra, e della sua leadership. Una messa in discussione, quest’ultima, che ha origini antiche e che oggi si istituzionalizza. Nel senso che dopo aver covato il germe di folliniana memoria, trova ora l’ufficialità nell’affrancamento sancito da Casini.
Colgo con piacere e curiosità questa scelta. Mettere in discussione Berlusconi, significa chiaramente rinunciare ad un preciso cliché. Il modello padronale della gestione centralizzata, che il leader di Forza Italia ha imposto con successo in questi anni. Il modello del carisma illuminato (o finanziato), che ha permesso al Cavaliere di coagulare intorno a sé persone e partiti, quindi numeri, in nome della sua autorevolezza o del suo potere. Ho già avuto modo di parlare di questo argomento (tra gli altri, La strategia del Cavaliere), inutile ripetersi.
Oggi questo leader, acclamato ed impalmato dal suo popolo meno di una settimana fa, viene messo in discussione da un alleato. Poca cosa. A meno che non si tratti dell’inizio della fine.
La vicenda sibillina di Casini non svela alcun epilogo. Parlare contemporaneamente di “Grande Centro” e di “Imprescindibilità del bipolarismo” aiuta poco chi desidera chiarezza. È vero, sarebbe difficile pensare ad un centrodestra senza Berlusconi, ovvero senza il leader plebiscitario della coalizione, senza il capo del primo partito italiano, senza il collante naturale della CdL. Ma ipotizzare un polo alternativo alla sinistra e libero dalle catene degli interessi berlusconiani è un’idea davvero suggestiva.
Tra Repubblica delle Banane e taciti consensi
Il giallo delle schede bianche denunciato da Deaglio racchiude non poche perplessità.
Chiarisco dapprima i fatti. Attraverso un’accurata indagine giornalistica, nei giorni scorsi emerge un piano artificioso per modificare l’esito elettorale delle ultime votazioni politiche. Nel tragitto telematico che compiono i dati delle urne per giungere dalle Prefetture al Viminale, una manomissione ai sistemi informatici avrebbe modificato una considerevole quantità di schede bianche in preferenze pro Forza Italia. Chi lavoricchia nel settore informatico sa che l’intervento per pilotare un flusso di dati da una parte piuttosto che dall’altra è alquanto banale. Il problema sono gli accessi ed i controlli, ma modificare in questo modo un software è di per se abbastanza semplice. Questo tentativo di pilotare le votazione spiegherebbe, col senno di poi, la divergenza di dati tra le proiezioni, che davano l’Unione saldamente in testa, e l’esito finale che ha visto la vittoria del Centrosinistra per una manciata di preferenze. Sempre a detta di chi ha condotto l’indagine, anche le schede bianche avrebbero raggiunto percentuali irrisorie e pressoché identiche su tutto il territorio. Un’esiguità ed un’uniformità mai viste prima. Il trionfo di Forza Italia sarebbe stato impedito dall’ex Ministro Pisanu, che colto da un estremo ritorno di coscienza, avrebbe interrotto il folle saccheggio di voti. Ma qualcosa non mi torna.
1- Perché se Forza Italia poteva addirittura gestire con propri uomini la trasmissione dei dati telematici, avrebbe messo in atto la più stupida delle strategie: accaparrarsi sommariamente quasi tutte le schede bianche, destando sospetti in ogni dove? Non era meglio studiare una strategia più raffinata e meno rude, come sottrarre qualche voto agli avversari, oppure far crescere proporzionalmente anche gli altri partiti della CdL?
2- Perché perpetrando una truffa di queste proporzioni, Forza Italia è riuscita a perdere? Vi pare che una ruberia di queste dimensioni si improvvisi qualche giorno prima, sperando solo nella collaborazione del Ministro degli Interni? Vista l’entità della posta, mi sarei aspettato un piano più articolato.
3- Perché se un manipolo di giornalisti è arrivato a scoprire queste cose, la maggioranza di governo (dotata di poteri ben più forti e di strumenti ben più efficaci) non ha saputo scovare da sola l’arcano? E perché tuttora sembra quasi disinteressata alla questione? Se io avessi il sospetto di un broglio compiuto dal mio avversario e avessi ogni potere per indagare, la prima cosa che farei sarebbe screditarlo (per sempre) agli occhi di tutti. Lapalissiano.
4- Come è possibile che indagini di questo tipo partano sempre e solo dai giornalisti? La magistratura, nella migliore delle ipotesi, si interessa delle questioni solo dopo il clamore dei giornali. Perché da sola non ci arriva o perché qualcuno la blocca?
5- Perché non si inizia subito a controllare i verbali? Non è necessario ricontare le schede, come tutti paventano. La manomissione sarebbe avvenuta a valle, nella trasmissione ultima dei dati dalle periferie a Roma. Basterebbe controllare se i dati collimano con le somme contenute nei verbali dei seggi, o anche solo verificare i consuntivi che ogni comune effettua alla chiusura dei seggi stessi. Sarebbe un’attività piuttosto semplice e relativamente breve. Al contempo farebbe chiarezza, in un senso o nell’altro, ponendo fine a questa inutile coltre di incertezza.
6- Perché Deaglio & Co hanno realizzato un dvd, che nella giornata di uscita non si trovava in edicola? Passi la volontà di fare dei soldi con questa storia, ma creare un’aspettativa simile e manipolare l’appetibilità del prodotto non è eccessivo?
Ci affidiamo all’esito delle indagini, non per speranza, ma perché non possiamo fare altro. Tutti i politici invocano chiarezza, ma nessuno rema nella direzione giusta. La minoranza getta acqua sul fuoco, la maggioranza non sembra toccata dal problema (questa è la cosa che meno capisco). Potremmo scoprire che qualche giornalista ha preso in giro tutti quanti e si è fatto una montagna di soldi. Oppure che siamo davvero nella Repubblica di Bananas, dove anche le più basilari regole democratiche hanno perso la loro certezza e la loro essenza. Esportare la democrazia all’Est, dibattere sulla necessità di elezioni regolari in paesi usciti dalle dittature, mandare uomini a presidiare i seggi iracheni… e poi trovarsi in casa brogli simili (e connivenze simili) sarebbe davvero surreale.
(E)lezioni americane
Ai cittadini statunitensi si possono rimproverare molti difetti. La mancanza di una cultura, generata innanzitutto da una mancanza di storia e il superomismo congenito sono tra i più biasimabili. I politici americani altro non sono che l’espressione e la rappresentazione di questi cittadini e di questi difetti.
Dalle elezioni di mid term, tuttavia, possiamo imparare qualcosa. Il dato rilevante è ovviamente la bocciatura della politica di Bush. Questo indica che è possibile dare il voto all’operato di una legislatura, anche prima che essa si sia conclusa. Le elezioni dei giorni scorsi hanno proprio la funzione politica di trasmettere a chi sta governando un giudizio sul suo operato. A pensarci bene, è più utile concorrere alla correzione di una linea politica in divenire, che bocciarla alla fine, quando ormai ciò che è stato è stato. Questo espediente è un formidabile strumento democratico. A noi manca.
In secondo luogo a stupire la mentalità italiana (non quella europea) sono state le dimissioni imposte a Rumsfeld. Depennare dalla lista degli scranni il regista della guerra in Iraq, senza peraltro che costui sia incappato in particolari scandali od errori, significa dare un segnale importante di pubblica ammenda e di volontà di cambiare. Per un’Italia che conserva la poltrona e la carica anche al più corrotto dei funzionari pubblici, e che ospita in Parlamento una folla di inquisiti, questa è un’eccellente lezione morale. Non si tratta del solito rimpasto alla volemosebbene, ma di una vera e propria ammissione di colpa.
Infine, dal momento che la coesistenza di Congresso e Presidente schierati su posizioni opposte è la norma che regola la politica statunitense, e non l’eccezione, l’Italia dovrebbe imparare che le opposizioni politiche sono una risorsa del sistema, non un suo limite. Cariche e ruoli politicamente divisi ed opposti, consentono un controllo reciproco, un veto all’avventatezza di certe decisioni, una garanzia di equilibrio. Per la nostra classe politica invece, ogni potenziale voto in meno in Parlamento costituisce un ostacolo al buon governo. Da qui trasformismo e ribaltoni, adatti per ogni tavola e buoni in ogni stagione.
Il doppio effetto di una Lega nuova
Al raduno delle camicie verdi in Val Brembana, Umberto Bossi ha usato un linguaggio nuovo, quindi sorprendente, per arringare la piccola folla di fedelissimi giunta per dissetarsi alla fonte del Senatùr. Pacatezza in tema di federalismo: non più lotta strenua alle istituzioni centrali, condita da invettive più o meno ortodosse, ma “metodo democratico”. Autonomia da raggiungere solo tramite il sistema, non sbaragliandolo con qualsiasi mezzo. Parole sorprendenti anche in materia di indulto, considerato la via di salvezza, da offrire ai carcerati, nella speranza che non delinquano più.
Questa svolta buonista del vertice leghista rischia di partorire due effetti.
Un primo effetto positivo è la riduzione dell’estremismo e della radicalizzazione del partito e del conflitto politico, di cui la Lega stessa è parte attiva. L’evidente tentativo di convergenza al centro per accaparrarsi elettorato moderato (i partiti che stanno agli estremi non hanno svantaggi nel convergere: gli elettori più oltranzisti non potranno fuggire oltre, mentre giungeranno nuovi moderati) comporta per definizione un riequilibrio delle posizioni: gli eccessi si attenueranno ed il dibattito convergerà sui temi tradizionali e più condivisi. Sarà dunque più semplice discutere le riforme da fare e le scelte da prendere, dal momento che ci sarà meno spazio per gli scontri tra posizioni antitetiche ed opposte.
L’effetto contrario, e negativo, è che paradossalmente la scelta del “metodo democratico” da parte della Lega renderà meno democratico il Parlamento. La convergenza del partito di Bossi segnerà uno spostamento dell’asse politico-partitico interno alle Camere. In sostanza verranno rappresentate in maniera minore le posizioni degli italiani più estremisti, che non potranno scegliere altri partiti più radicali, perché inesistenti. E un Parlamento che fatica a rappresentare tutte le posizioni, che soffre di un deficit di rappresentanza, è un Parlamento debole.
Questo potrebbe essere il doppio effetto portato dal vento della nuova Lega. Ma per ora è tutta mia fantasia.