Archive for category Politica

Più voce al Grillo parlante

Turba ed oltremodo sconcerta la reazione unisona della classe politica di fronte all’iniziativa del V-day promossa da Beppe Grillo e dal suo entourage. I distinti signori delle stanze dei bottoni, che non trovano l’accordo sulle riforme economiche per sanare un paese malato, che litigano sulle priorità da perseguire, che affondano i colpi delle offese e delle calunnie su ogni questione, che litigano sempre ed ovunque, senza mai raggiungere una sintesi proficua e soprattutto condivisa, oggi pervengono all’epico e lesto accordo di una posizione comune contro la protesta popolare che il V-Day ha impietosamente sollevato. Non sanno darsi una legge elettorale, né trovare una ricetta condivisa per la disoccupazione, per il debito pubblico, per lo sviluppo, ma sanno trovare un’intesa veloce contro chi mina la loro credibilità ed i loro privilegi. Parlano all’unanimità di antipolitica.
E invece no. La proposta di legge popolare per un Parlamento pulito è quanto di più vicino alla politica ci possa essere. Se l’etimo delle parole ha ancora un qualche significato, allora politica altro non è che l’attività del cittadino finalizzata al bene pubblico. Cosa c’è dunque di più concretamente politico di una proposta di legge avanzata da trecentomila cittadini? Cos’è più politico di tutto questo? Le leggi ad personam, la querelle sulle candidature di una partito che non esiste, i fanghi dei pubblici appalti, l’occupazione dell’informazione pubblica o il nepotismo delle istituzioni?
Questa non è un battaglia contro i mulini a vento, né lo svolazzamento scialbo di bandiere utopiche o contestatrici. Non è la solita “protesta contro”. Non sono i no-global, i pacifisti o i secessori di turno. Questo è un passo tangibile e bene circoscritto, che senza informazione di supporto ha raccolto un consenso ampio e vigoroso. È una proposta, non solo una protesta.
Ci siamo trovati d’accordo sui mali della classe dirigente, ed il ceto dirigente stesso si è sempre mostrato ipocritamente concorde con la società civile, allorquando ha dovuto riconoscere i drammi della mala politica. Dalle parole ai fatti. È opinione condivisa (tra gli altri citerei Sartori) che l’unico modo per scardinare il sistema attuale sia quello di colpire direttamente il Parlamento. Negare l’accesso dei condannati, ridimensionare il mandato e riprenderci il diritto di eleggere direttamente i nostri rappresentanti non è una battaglia di parte, ma un’obiezione di senso civico.
Io non vedo altre strade. Se potete, date voce a questo Grillo parlante.

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La debacle dell’Umby

Si è gridato ancora una volta allo scandalo ed al vilipendio, ma l’ultima provocazione di Umberto Bossi non può stupire nessuno. Se da vent’anni a questa parte non ci siamo ancora abituati alle folkloristiche maschere dei teatranti celtici, il problema non è loro, ma nostro. Ampolle miracolose e gesto dell’ombrello… ed oggi ci indigniamo per l’appello a boicottare il lotto unito al pavento di imbracciare il fucile? Fanno male i Fassini di turno ad enfatizzare la sparata leghista, poiché alimentandone il fuoco ne ingigantiscono inevitabilmente il tiro.
È ormai scientificamente provato che la pochezza di idee, e l’ignoranza del popolino verde vestito, vengono celate dietro la simbologia magica ed i toni rustici di una classe dirigente tutto sommato ignorante e ormai anche poco fantasiosa.
Mi chiedo piuttosto quanto giovi a questi navigati guru del marketing, l’immagine attuale del dux Umberto. Caduto e decaduto. La parola incerta, ed i movimenti insicuri di un’icona sofferente, suscitano piuttosto umana pietà e caritatevole compassione. Ben lungi dunque dai dorati e lontani anni del celodurismo, l’arianesimo celtico rischia oggi di autoelidersi da solo nella spietata evoluzione della specie.

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Né partito né democratico

Il dizionario Treccani alla voce “partito” recita: associazione volontaria di cittadini con una propria struttura organizzativa, costituita sulla base di una comune ideologia politico-sociale e avente come obiettivo la realizzazione di un determinato programma, attraverso la partecipazione alla direzione del potere.
Stando a questa definizione, risulta abbastanza facile confutare la natura partitica del costituendo Partito Democratico. L’imminente soggetto politico che riscalda la vecchia minestra dell’Ulivo, senza peraltro aggiungere ingredienti ulteriori né mutare l’identità dei commensali, è privo infatti di quell’attributo essenziale di unità programmatica ed ideologica che distingue (o dovrebbe distinguere) i partiti dalle più blande associazioni degli stessi. Cattolici e comunisti potranno anche correre insieme alle elezioni, ma non possono identificarsi appieno sotto il medesimo gonfalone. Un conto è camminare fianco a fianco per arginare le furie dell’avversario politico e contrastarne i diabolici disegni, ben altra cosa è fondersi in un’unica anima capace d’interpretare sentimenti comuni e comuni strategie. D’altro canto le esperienze delle ultime stagioni hanno già mostrato che a sinistra ci si può aggregare fin che si vuole, ma che per governare bene è necessaria l’unicità di intenti e vedute.
La bagarre per la corsa alle candidature del PD rende anche discutibile la scelta dell’attributo democratico. Le esclusioni di Di Pietro e Pannella, entrambi schierati nello sconfinato spazio del centro-sinistra, a tutto rispondono fuorché ai criteri di democrazia. In un vero partito democratico infatti, chiunque può aspirare alla leadership, dal momento che la scelta della guida è demandata in toto alla sovrana volontà dell’assemblea dei cittadini. La bocciatura dei due cavalli sani suona piuttosto come l’eliminazione di possibili ostacoli alla galoppata del candidato prescelto. Togliere a Veltroni i possibili veri concorrenti (non si penserà che Rosy Bindi sia una vera candidata alla leadership??), significa di fatto consegnargli il timone del partito ancora prima delle elezioni primarie. Anche in questo caso la commedia delle precedenti primarie uliviste, che investirono Prodi di ogni potere, depone a favore di questa tesi. La scelta del candidato operata nella stanza dei bottoni viene mascherata da plebiscito popolare.
Ho sempre sostenuto il bipolarismo, ma nella situazione italiana è davvero dura rimanere coerenti con le proprie idee. Da un lato la continuità del cavaliere nero e del suo entourage preposto a consolidare il potere del padre padrone. Dall’altro gli eterni incompiuti, capaci solo di riunirsi, chiacchierare e fondersi insieme l’un con l’altro. Ulivo, Unione, Partito Democratico… come se cambiare la salsa di una pasta scotta potesse appagare la grossa fame della società italiana.

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La questione immorale

Dice bene Marco Travaglio quando afferma che se non fosse per il precedente illustre di Berlusconi, il guazzabuglio DS-Unipol-Coop Rosse basterebbe da solo per chiedere le dimissioni dei celebri interessati e mandare a casa un governo. Tuttavia il conflitto d’interesse del Cavaliere, mastodontico e perpetrato nel tempo, oscura la gravità dell’”illecito rosso”, facendolo apparire esile, risibile e quasi giustificabile.
Evidentemente solo la nostra Banana Republic può permettersi un arco parlamentare completamente in conflitto d’interessi, senza soluzione di continuità né geografica (da destra a sinistra), né temporale (si resiste ad libitum. Dimissione? Chi è costei?).
Aitanti manager con amicizie importanti e dubbie, segretari di partito dal telefono intasato, guardie di Finanza alla caccia degli uni e in fuga dagli altri. Che panorama è questo?
Si è parlato da più parti di una rinnovata “questione morale”, facendo riferimento ai limiti etici e deontologici che la politica dei nostri giorni quotidianamente infrange e valica. Ormai… repetita stufant. Ed ancora una volta, innanzi alle accuse dell’opinione pubblica unita nel decretare il proprio disappunto, e davanti all’oggettività del proprio illecito, la classe politica si ritrova concorde nel fornire risposte errate. Di fronte alla divulgazione delle intercettazioni compromettenti, quelle di oggi come quelle di ieri, la politica non si sforza di interrogarsi e di auto-rigenerarsi, ma si limita ad imbavagliare i giornalisti.
Questa non è incapacità, né cecità. Al contrario, si tratta di pianificazione ed attenta lungimiranza. Si tratta di un piano strategico per sopravvivere, per mantenere lo status quo: cambiare significa mettere in crisi posizioni e privilegi. Perché mai dovrebbero farlo?

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Leader maximo in offerta Speciale

Il Governo ha allungato le dita nella pasta delle nomine di alti comandanti in modo dubbio, si è fatto sorprendere con le mani sporche e, ad un anno di distanza, non è riuscito a scrollarsi di dosso le polemiche (anche le più strumentali) che l’opposizione ha prontamente sollevato. Storia di ordinaria politica, di diatribe normali e pressoché quotidiane.
Lo stesso Governo non ha saputo soffocare le accuse, offrendo al generale Speciale il contentino di un nuovo ruolo, per insabbiare, tacere, dimenticare. Invece… l’effetto opposto: ovvero clamori, urla e fuochi d’artificio. Ma anche questo rientra nella normalità dello sciagurato teatrino bi-partizan delle accuse e delle difese, volto ad intontire l’opinione pubblica, ad anestetizzarla di fronte al dolore delle non-riforme.
Capita così che si debba arrivare ancora una volta al voto di fiducia. Il minestrone di maggioranza, diviso tra dibattiti e polemiche, è nuovamente costretto a litigare e votare questioni fini a se stesse. L’opposizione cavalca l’onda, dimenandosi compiaciuta nello stagno di una palude senza fine.
Cui prodest, a chi giova?
Siamo entrati in un vicolo cieco senza vie di fuga. Ogni occasione è propizia per la polemica e per l’immobilismo. Tutto sembra finalizzato al non-fine.
È triste (c’ho pensato molto, ma non ho trovato aggettivi più appropriati) sapere che l’empasse imboccata non ha soluzione. Il Governo è bollito, senza prospettiva alcuna. Auspicare nuove elezioni è irragionevole: la banda bassotti è pronta a risalire per completare il colpo.
Gli intellettuali vedono come unica possibilità quella dell’avvento di un leader nuovo ed illuminato, un leader maximo capace di rivoluzionare le consuetudini e sterzare la rotta. D’accordo.
Il problema è che l’orizzonte non sembra indicare alcun uomo nuovo, tantomeno illuminato. A meno che, dopo i gol di ieri sera, non si pensi a Quagliarella…

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Il nodo del neoleghismo

Tutti i nodi che si vengono a formare, che si complicano e che non si sciolgono, capita che prima o poi vengano al pettine. È solo una questione di tempo.
È questa la chiave di lettura dell’emergente neoleghismo che sta attraversando il Nord. Le amministrative hanno premiato i candidati del Carroccio oltre ogni previsione. Le vecchie battaglie, monopolio di Bossi e Calderoli, sembrano avere permeato buona parte del settentrione. La sicurezza che i cittadini hanno richiesto prima a Berlusconi e poi a Prodi non sembra aver ricevuto risposte soddisfacenti. Le imprese che chiedono meno tasse e più flessibilità per concorrere con l’Europa lamentano ogni giorno la loro insoddisfazione.
La celebre questione settentrionale nel tempo si è affrancata dalle posizioni secessioniste di separazione dal Sud, brandendo sempre più convintamene il desiderio di sopravvivere agli attacchi economici e sociali provenienti dall’esterno. Se all’inizio “i pochi” volevano l’indipendenza dal rimorchio del meridione, oggi “i molti” vogliono preservare il proprio benessere e la propria sicurezza. Non solo leghisti dunque, ma un malessere più diffuso e più consistente.
In questo nodo si incaglia il pettine del Governo. Prodi ha perso l’occasione di mostrare alla metà dell’Italia che non l’ha votato di poter badare anche ai loro interessi. Ha avuto l’occasione di fare ciò che Berlusconi non ha fatto ed è rimasto inoperoso, impegnandosi in questioni marginali ed irrisorie.
Se avesse aiutato le imprese e favorito la sicurezza, o se almeno avesse mostrato di affrontare il problema, oggi sarebbe più forte. Avvicinare il Nord era fondamentale per restare in piedi sull’asse ballerina dei pochi voti conquistati. Di fatto si è dimenticato di mezza Italia. La stessa mezza Italia che ora rischia di scivolare nel turbine senza ritorno dell’egoismo neoleghista. Un nodo che rischia di diventare un problematico cappio per tutti.

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L’omelia di padre Luca

Su istigazione intellettuale di Ruggero, ho letto attentamente tutto il discorso di Montezemolo all’ultima assemblea di Confindustria. L’appello del numero uno degli industriali disarma per la sua semplicità logica, seduce per la completezza dei contenuti e la pacatezza dei toni, ammalia per la condivisione degli argomenti. Non si può, insomma, non essere d’accordo. L’apostrofe alla politica degli sprechi e delle clientele, al circo infantile dei partiti, all’immobilismo dei burocrati cariatidi, è un sentimento che permea la società italiana in ogni suo strato. È il buonsenso che impone la critica ad un Governo ancora troppo statalista, che strizza l’occhio agli statali, ma non risponde ai cittadini e ad un’opposizione disfattista e vittima del suo stesso “essere contro”. Sarebbe lungo commentare ogni argomento, mi posso limitare a dire che la critica e la proposta di Montezemolo centrano perfettamente il bersaglio. Ben vengano, insomma. Mi pare tuttavia che il Nostro pecchi talvolta di ridondante retorica: ne deriva un rischio piuttosto concreto di scivolare nel populismo più becero. Non vorrei che attaccando in tutto e per tutto la classe politica (cosa di per sé lecita e, come detto, condivisibile) si arrivasse a cavalcare l’onda dei sentimenti strumentalizzando il malessere diffuso della società civile. La dico in modo più agreste: criticare tutti per raccogliere consenso ovunque. Sarebbe scorretto. Uso il condizionale perché a catechismo insegnano che i processi alle intenzioni proprio non si fanno. Nella lunga e, ripeto, completa digressione, Montezemolo si dimentica di due elementi poco trascurabili per il risanamento del Paese. Toccando ogni aspetto e scovando ogni ricetta, tralascia due temi che dovrebbero sfiorarlo più da vicino. Non parla dell’evasione fiscale, che le imprese, di cui si fa portavoce e guida, quotidianamente praticano perpetrano. Sanare questa piaga, che le “sue” imprese contribuiscono a incancrenire, risulterebbe utile alla causa comune. E non mi si argomenti che lo Stato troppo opprimente costringe ad evadere. I circoli viziosi si interrompono se uno degli elementi cade e capitola. Se tutti si giustificano, il circolo rimane vivo. Poi Luca Cordero non fa alcun accenno alle mega pensioni e stipendi dei manager. Si potrà facilmente ribattere che sono meritate. Ma allora il politico di lungo corso potrebbe comodamente dire che anche la sua pensione d’oro è meritata… e a questo punto chi potrebbe contraddirlo? Infine l’omelia sulla meritocrazia non cozza contro le clientele che i grandi manager mettono in atto nella loro giungla di protezioni e poteri incrociati? È forse un merito che gli stessi manager comandino dappertutto? E come è possibile che questi meriti si trasmettano geneticamente attraverso il diritto di sangue? In definitiva, tutto quanto detto da Montezemolo è sposabile e sostenibile. Mi sarebbe piaciuto che avesse attaccato la propria categoria con la stessa enfasi con la quale ha sbirciato nel giardino altrui.

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Referendum ecco i vizi che lascia

Domenica è stato indetto il “referendum day” per dare un’impennata alla raccolta delle firme. Mi è venuto in mente che avevo conservato un articolo di una ventina di giorni fa. Lunghissimo ed a tratti molto tecnico. Ma se, come a me, vi piace l’argomento, direi che le motivazioni sono valide e condivisibili.

Da due giorni è iniziata la raccolta delle firme per il referendum: non credo che si tratti di una buona notizia. Sono fermamente contrario alla legge Calderoli, che ho duramente avversato in Parlamento e, proprio per questo, non condivido questo referendum che, in realtà, non ne chiede l’abrogazione ma una modifica, anzi, a mio avviso, una lieve modifica. Del referendum si parla sotto due diversi profili: da un lato come pressione sul Parlamento perché approvi una legge elettorale nuova e diversa (sottolineo diversa) e, dall’altro, il quesito referendario, vale a dire la normativa che produrrebbe se approvato. Questo secondo aspetto va divenendo, in realtà, sempre più prevalente e da esso occorre partire. Frequentando i luoghi Comuni di vita quotidiana è facile percepire che la profonda e diffusa avversione verso l’attuale legge elettorale si fonda su tre motivazioni: in primo luogo le liste bloccate, che sottraggono agli elettori non soltanto la scelta ma anche la semplice conoscenza dei candidati; il meccanismo che condanna il Senato a maggioranze risicate o inesistenti, rendendo instabile qualunque governo; la frammentazione fra tanti partiti cui questo sistema proporzionale consente una presenza parlamentare consistente, producendo maggioranze poco compatte se non litigiose. Ebbene, come è stato scritto su questo giornale, il referendum agisce soltanto sul terzo aspetto, alzando le attuali soglie più basse di sbarramento e conferendo il premio di maggioranza a un sola lista e non più a una coalizione. Di questo va dato atto, a condizione di ignorare la facile previsione di listone unico per ciascuna coalizione, che poi si dividerebbe subito in diversi gruppi parlamentari, e i dubbi di costituzionalità provocati dalla mancanza di previsione di una soglia minima di consensi per ottenere il premio della maggioranza assoluta alla Camera. A parte le riserve sull’efficacia di questa unica modifica, quindi, il referendum lascia inalterati i primi due vizi fondamentali, liste bloccate e Senato senza vera maggioranza: il cuore della legge Calderoli. Se il referendum venisse celebrato e avesse successo, questo sistema, sancito dal voto popolare, ne sarebbe consacrato e avremmo per lunghi anni un sistema che impedisce ai cittadini di scegliere i parlamentari e produce governi instabili. La legge Calderoli, ideata per avvelenare i pozzi della prevedibile vittoria del centrosinistra, diffonderebbe i suoi veleni anche per le legislature future. Il referendum, come si è detto, è visto anche sotto un’altra luce, quella della pressione nei confronti del Parlamento e dei partiti per una nuova legge elettorale. Questo profilo è fondato: che alcuni partiti, particolarmente i più piccoli, adagiati sul sistema vigente, siano ora disponibili a una nuova legge è dovuto, soprattutto, al timore di soglie di sbarramento più alte. Ma via via che dalla “minaccia” del referendum ci si avvicina alla sua effettiva celebrazione, quella disponibilità è soverchiata da un diverso e più forte interesse di altri partiti: lo scioglimento delle Camere. Come insegna, fra l’altro, il precedente dei ‘93, l’intervento diretto del corpo elettorale che modifichi, anche soltanto in parte, il sistema elettorale, delegittima il Parlamento in carica e induce – direi obbliga – il Presidente della Repubblica a indire nuove elezioni. Nel ‘93 il referendum introduceva il maggioritario per il solo Senato e, lasciando la Camera con un incompatibile sistema proporzionale, richiese che si assicurasse anche a questa il metodo maggioritario e il Parlamento rimase in carica soltanto 11 tempo necessario per approvare la nuova legge e formare i collegi uninominali: il referendum odierno lascerebbe un sistema pronto, con premi di maggioranza in entrambe le Camere, sistema strampalato e inefficiente ma, comunque, applicabile subito. Queste condizioni offrono ai partiti maggiori del centrodestra la prospettiva politica di elezioni anticipate ed essi sono facilmente in grado di impedire, apertamente o meno, qualunque accordo, visto che, lodevolmente, il presidente del Consiglio, Prodi, ritiene che si possa procedere in Parlamento soltanto con larghe intese: l’avvicinarsi della celebrazione effettiva del referendum farà crescere questo interesse e la funzione referendaria di pressione sul Parlamento per una nuova legge si trasformerà sempre di più, verosimilmente, in fattore di dissuasione, i cui segni già si manifestano nella “melma” tattica che viene messa in campo in questi giorni. Temo, quindi, che sia cominciato, con la raccolta delle firme, l’effetto frenante per una nuova legge in Parlamento, come sarebbe, invece saggio. Il tempo, quindi, è questo; ed è breve. Non ci si può illudere che vi sia una possibilità per il Parlamento dopo l’eventuale successo del referendum: a quel punto ognuno direbbe la sua, come avvenne nel ‘93, sull’attuazione dell’autentica volontà dell’elettorato e, come si è detto, il capo dello stato dovrebbe indire nuove elezioni. Il tempo è questo e, si ripete, è breve; e la sede è il Parlamento, come ha ricordato ieri il presidente della Camera. Soltanto in Parlamento si potrebbe incidere davvero sulla frammentazione parlamentare, che con la legge precedente era stata contenuta, limitando a cinque i partiti che avevano superato lo sbarramento del 4%. Non basterebbe una correzione più o meno apparente della legge Calderoli: occorre modificare le norme delle Camere sulla costituzione di gruppi parlamentari e, soprattutto, occorre modificare la legge sul finanziamento dei partiti che distribuisce troppi soldi e a troppi soggetti. Nel merito della legge è bene attendere la faticosa opera del governo e ciò che approderà alle Camere, senza aggiungere altro alla già copiosa e talvolta fantasiosa serie di ipotesi. Credo che ci si possa limitare a far notare che il premio di maggioranza costituisce un collante di scarsa tenuta mentre è il collegio uninominale, nella assunzione di responsabilità di ciascun eletto con il comune elettorale di coalizione che garantisce, a questa, coesione adeguata. Nei giorni scorsi la scelta, coraggiosa e innovativa, di dai vita al Partito democratico, sembra aver stimolato un fenomeno aggregativo anche in altre aree politiche: occorre incoraggiarlo, con decisione ma senza forzature, senza pensare di poter mettere le briglie alla politica. Rendendosi conto che, spesso, quelli che appaiono toccasana fanno precipitare verso esiti imprevisti e indesiderati.

(Sergio Mattarella, deputato dell’Ulivo – Il Mattino 24 aprile 2007)

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Il tempismo di Gentiloni

Berlusconi ha ragione quando afferma che la nuova legge sul conflitto d’interessi muove da un intento di colpire la sua situazione. Se il leader forzista, unitamente al suo patrimonio e ai suoi interessi, non fosse entrato in politica, è certo che oggi non saremo qui a parlare di normative simili. In un certo senso, dunque, egli ha ragione quando lamenta un rapporto di causa effetto tra se stesso e il disegno di legge. D’altro canto però, non potrebbe essere altrimenti: se non fosse esistito il problema non ci sarebbe stata la necessità di trovarvi soluzione. Lapalissiano.
Il cavaliere può lamentarsi fin che vuole, giungendo anche ad appellarsi all’illegittimità della norma o rifugiandosi nel ruolo di vittima sacrificale, ma è inconfutabile il fatto che egli rappresenti comunque un’anomalia istituzionale che andava (e va) risolta. Il principio è disarmante nella sua semplicità: nessuno può fare leggi per sé stesso.
Con tutte le perplessità del caso, e con tutte le migliorie che ogni cosa nuova immancabilmente trascina con sé, l’ipotesi legislativa che si appresta a metter mano al conflitto d’interessi non è affatto sciagurata. Innanzitutto non impedisce l’eleggibilità del soggetto, limitandosi ad intervenire al momento dell’incarico, occupandosi dell’incompatibilità dei ruoli. Chiunque può candidarsi, ma al momento dell’elezione dovrà scegliere tra le sue imprese ed il ruolo politico. Nel caso in cui decida di ricoprire la carica, dovrà liberarsi del suo patrimonio, vendendolo o affidandolo ad un gestore neutrale, che non gli renderà alcun conto della gestione (è l’americanata del c.d. blind trust). Visto che la norma coinvolgerebbe anche sindaci ed amministratori locali, e soprattutto in virtù del fatto che la situazione precedente ristagnava in un vuoto normativo pressoché assoluto, sarebbe opera buona e giusta che divenisse legge.
Auspicavo che questo governo arrivasse almeno a legiferare in questa materia. Ma visti i contorni ed i fronzoli inutili in cui si è impelagato in questi mesi, non ci speravo più. Oggi, con la bozza di Gentiloni sembriamo essere vicini all’obiettivo. Come dire… meglio tardi che mai.

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Lezione di francese

Trovo che l’equidistanza e la scelta di non schierarsi manifestate da Bayrou alla vigilia del ballottaggio per le elezioni francesi riservi qualcosa di pedagogico per la classe dirigente italiana. Con tutti i distinguo del caso, il panorama d’oltralpe presenta non poche analogie con lo scenario italiano degli ultimi anni. Lo schieramento di Sarkozy, uomo d’affari con le mani nel mondo dei media, suscita timori reali sui futuribili conflitti d’interesse e sembra mostrare un occhio di riguardo solo per il ceto più abbiente. Quello di Ségolène Royal, a matrice più democratica e sociale, ha mostrato molto immobilismo nelle occasioni passate e oggi accende parecchie incertezze per la profonda propensione statalista.
Come in Italia, abbiamo dunque una grossa baleniera bipolare spuria (perché contornata da numerosi altri partitucci) dove i due marinai più grossi si contendono vicendevolmente la guida, appoggiati da equipaggi diversi. La differenza sostanziale sta nel fatto che il terzo incomodo Bayrou, a capo dello schieramento di centro, non solo ha rinunciato a fare alleanze pre-voto con uno dei due candidati (assicurandosi di fatto la vittoria), ma ha anche evitato di “vendere” i propri voti al miglior offerente del ballottaggio. Ha lasciato libertà di coscienza a sette milioni di elettori, rifiutando da ambo le parti ministeri promessi e praticamente certi. Almeno a fatti sembra dunque anteporre gli ideali al vile tornaconto di bottega. Una bella lezione per i centristi italiani, pronti a voltare la gabbana ad ogni stagione e ad allearsi con chiunque possa promettere loro il più misero tozzo di pane.

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