Archive for category Politica

L’avanspettacolo dei girotondi

Tanto di capello a chi oggi è sceso in piazza per manifestare contro le ennesime nefandezze del Governo. Benché l’idea dei girotondi mi metta l’orticaria e rimandi inequivocabilmente all’universo dell’infanzia, nella puerilità delle sue pretese, chi ha manifestato merita comunque rispetto. Non tanto perché ha avuto il coraggio di esprimere un’idea, perché questo non è affatto un merito, quanto piuttosto perché ha speso tempo e danaro nell’illusione di lavorare per il bene comune.
Temo, però, che lo sforzo profuso sia completamente inutile e miseramente inefficace. I modi per cambiare un sistema politico sono altri. O si fa un golpe, ipotesi rara, eticamente discutibile, ma molte volte sposabile e auspicabile, oppure si decide nell’urna di cambiare (anche poco, quel che si può) la rotta della deriva.
Insomma, i manifestanti di oggi hanno perso tempo: imbraccino le armi, se ne hanno la forza ed il coraggio, o convincano i loro conoscenti a cambiare voto alle prossime elezioni. Con palchi, girotondi, slogan e bande musicali si va solo a fare festa.

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Italia in rosso, italiani in rosa

Impazza la querelle sul divismo del premier, ovvero sul suo protagonismo mediatico, sulle intercettazioni piccanti, sulle raccomandazioni di show girl e palinsesti, sulle sue partecipazioni ai dibattiti televisivi… La rinuncia a Matrix, l’appello contro la gogna del pettegolezzo che offusca le buone cose regime, l’invito a valutare il governo sui fatti, non sulle chiacchiere da copertina rosa. Ha ragione il Cavaliere, in un certo senso, quando lancia il monito contro la chiacchiera da palazzo, contro cioè quell’abitudine di puntare l’indice sul malcostume della classe politica che poco c’azzecca con la pubblica funzione. È questa una consuetudine, forse tutta italiana, di appassionarsi più al gossip tout court che al bene pubblico. Di entusiasmarsi per il vaniloquio rosa più che per l’effettiva mala amministrazione e mala politica infuse nel paese. È paradossale, ma agli italiani sembra interessare di più l’ipotesi di un flirt tra Berlusconi e la Garfagna, che l’uso sistematico dei decreti legge, in procinto di spianare la strada ai privilegi e alle impunità. Ora, come allora e più di allora, ci meritiamo il governo che abbiamo. Italia in rosso, italiani in rosa.

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Difesa francese

Mentre gli italiani si azzuffano per decidere se sia meglio schierare Cassano dall’inizio contro la difesa francese dei bleus, oppure se Gattuso sia veramente più efficace di Perrotta, mentre tutta l’Italia trattiene il fiato attendendo la divina provvidenza agli Europei di calcio, il Governo si appresta ad abolire la class action (cioè il potere di organizzare un’azione legale collettiva) e a rendere penalmente untouchables le più alte cariche dello Stato. Film già visto: legiferare per i (soliti) pochi, mentre i (soliti) molti sono impegnati a pensare a tutt’altro.
Mi piacerebbe che alzassimo la testa dal televisore e oltre ai colpi di testa di Toni, giudicassimo anche i colpi di mano del Cavaliere. Ma ne siamo incapaci.

Ah… la difesa francese è una tattica del gioco degli scacchi. Wikipedia definisce il suo maggior svantaggio come “la posizione passiva che viene ad assumere, spesso per un lungo tratto della partita, l’alfiere del nero, bloccato com’è dai suoi stessi pedoni“.
Sarebbe davvero bello se tutti i pedoni si accorgessero dell’alfiere nero e ne bloccassero l’azione criminale.

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Quale festa

2 Giugno, Festa della Repubblica. Di fronte alle istituzioni incapaci, all’impossibilità degli elettori di scegliere i propri rappresentanti, alla classe dirigente intenta solo a perpetrare se stessa, ha davvero senso festeggiare la Repubblica?

Lo Stato italiano fu una cosa appena passabile finché rimase lo Stato dei pochi che lo avevano fatto e dei “notabili” loro diretti discendenti. Quando volle diventare – com’era giusto, logico e inevitabile – lo Stato di tutti, fu un disastro appunto perché non aveva radici, e cadde subito preda di due forze extra-nazionali, se non anti-nazionali: quelle cattoliche che avevano in corpo la Chiesa, e quelle socialiste che avevano in corpo la classe. Sui risultati dell’ultimo plebiscito, quello istituzionale del 2 giugno, tutto fu fatto per il successo del pronunciamento repubblicano, e non escludo nemmeno qualche broglio. Ma, come mi disse Re Umberto a Cascais, la Monarchia, a differenza della Repubblica che poteva contentarsi di un margine risicatissimo, avrebbe avuto bisogno di una vittoria netta che non era nelle sue reali possibilità. E questo, il galantuomo Umberto lo diceva a un monarchico, quale io ero e rimango. Convinto, com’ero e sono, che rinnegando la monarchia, gl’italiani buttavano al macero il Risorgimento, modestissima cosa, ma unico nostro patrimonio “nazionale”. E ora ne vediamo gli effetti. Con la Repubblica siamo scaduti da Cavour a Romita e ora a Bossi. Ma non c’è speranza che gl’italiani se ne rendano conto e lo riconoscano. Come al solito ritireranno fuori la fuga di Pescara e le balordaggini dell’attuale erede. Di distinguere il problema delle persone da quello delle Istituzioni, noi siamo assolutamente incapaci. Che l’Istituzione rappresentasse il filo, sia pure fragilissimo, della nostra identità e continuità storica, ci sfugge completamente perché di una identità e continuità storica nazionale non abbiamo nemmeno il sospetto.

(Indro Montanelli – Corriere della Sera, 8 giugno 1997)

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La panacea sbagliata

Il reato di clandestinità di imminente introduzione non può essere il rimedio a tutti i mali.
Il principio, secondo cui penalizzando questo status si elimineranno i problemi della sicurezza, scricchiola nelle premesse.
Al di là dei dogmi etici che vedono nella teoria dell’accoglienza un caposaldo di civiltà, se si presuppone l’equivalenza, di per sé errata, del “meno clandestini, meno insicurezza”, allora sarebbe più efficace chiudere le frontiere agli irregolari prima, non incarcerarli dopo. Ma è fallace anche l’assioma secondo cui chi delinque è necessariamente un clandestino. In genere delinque chi non ha o non vuole un lavoro stabile e sufficiente, non tanto chi è clandestino tout court. Più che perseguire il clandestino, sarebbe più coerente, più semplice e più comprensibile perseguire chi commette i crimini.
I principi cardine, per avviare un approccio risolutivo al problema, sono essenzialmente due e da essi non si può prescindere. Vecchi, certo, ma sempre disattesi, dunque sempre attuali.
Il primo riguarda la ferrea penalizzazione di chi sfrutta i clandestini. Il grande bisogno di manovalanza e la forte domanda di lavoro, generano lavoro nero. Perché chi ha bisogno di manodopera a basso costo e chi è disposto a raccogliere qualsiasi proposta lavorativa si incontrano nell’unico punto di contatto: l’illegalità. Se si penalizzassero gli impresari banditeschi e si favorisse la regolarizzazione di chi lavora, raggiungeremmo contemporaneamente tre risultati. Verrebbero tutelati i diritti basilari dei lavoratori; imprenditore e salariato pagherebbero entrambi le giuste tasse nel bene della pubblica collettività; gli irregolari, cioè senza lavoro e senza casa, sarebbero di meno. E meno gente a spasso, significa oggettivamente meno criminalità.
Il secondo principio irrinunciabile risiede nella certezza della pena. Se chi commette crimini rimane impunito, giocoforza continuerà a delinquere e legittimerà gli altri a fare altrettanto. Oltre a ciò, per quanto impopolare, non è indecoroso pensare ad investire ulteriormente nell’edilizia carceraria. È inutile stipare ad libitum i condannati in centri di permanenza temporanea o fare gli indulti perché le carceri sono piene.
In questa opera di sburocratizzazione e potenziamento della “macchina giustizia” vanno investiti i danari.

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L’etica del Travaglio

Non ho seguito l’ultima vicenda di Travaglio in diretta tv e non ho neppure visto registrazioni di sorta. Mi sono limitato a leggere qualche stralcio sui giornali, poca cosa.
Non dubito sulle parole del giornalista, che in questi anni ha sempre dimostrato di dire il vero. Scomodo fin che si vuole, ma la sua scientificità nel supportare con prove le parole che dice e scrive ha lasciato, negli anni, poco adito alla confutazione. Molti hanno precisato, ma nessuno è mai riuscito a smentirlo.
L’impressione tuttavia è che il Nostro stia cercando a tutti i costi lo scontro frontale. Forse per semplice masochismo, più probabilmente per autocelebrazione e pubblicità. L’obiettivo di divenire oggetto delle ire illiberali del PdL è fin troppo chiaro. Il fine di assurgere a vittima sacrificale, a capro espiatorio, mi pare evidente. In questo pecca Travaglio. Non nella sostanza delle verità che rende pubbliche, ma nella forma in cui le comunica. Esprimere quei concetti senza un contraddittorio, senza un confronto, mina l’etica del bravo accusatore e suscita i sospetti di cui sopra.

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Chi mal comincia

Per approntare un giudizio sull’assortimento della nuova squadra di Governo, bisognerebbe scindere l’aspetto della politica berlusconiana da quello del management scelto. Occorrerebbe cioè prescindere dalla filosofia e dall’indirizzo politico che hanno ispirato, ispirano e ispireranno le scelte del Cavaliere. Non perché la linea politica non abbia rilevanza, anzi!, ma piuttosto perché l’ovvio giudizio negativo su di essa pregiudicherebbe qualsiasi parere sulla scelta delle persone. Se infatti giudicassimo i nomi scelti, misurando la forma e la sostanza della politica forzista, incapperemmo nell’errore di bocciare chiunque, anche se fossero stati dodici premi nobel a giurare oggi di fronte a Napolitano. Insomma per produrre un’opinione oggettiva occorre mettere da parte la logica aberrante che sottostà al berlusconismo.
Fatta questa premessa, e fatta quest’azione di scissione intellettuale, i venti nomi usciti ieri sera dalla conferenza stampa del neo premier restano comunque poca cosa.
Assurdo criticare a priori tutte le nomine: la gran parte dei ministri è neofita, poco più che svezzata alla politica. Possiamo criticarne l’inesperienza o lodarne la freschezza, ma ogni giudizio serio deve essere sospeso, in attesa di azioni e movimenti pratici. Frattini, Sacconi e le ministre varie non convincono, ma ci spingono a congelare ogni responso.
Tra il popolaccio della Lega, Maroni è il personaggio più competente, compassato, mansueto e affidabile. Personalmente, avendo pochissimi pregiudizi di sorta, lo vedo con un barlume di ottimismo. Tra lui e i Calderoli di turno non c’è paragone: di questo gli va dato onestamente atto.
Invece non può essere benvista l’ulteriore investitura di Tremonti. Per la carica ricoperta, la sua nomina è forse la più ingombrante e imprudente: ne avremmo fatto volentieri a meno. Anche Scajola, La Russa, Matteoli lasciano alquanto perplessi. Il ricorso a qualche luminare tecnico avrebbe dato maggior lustro, spessore e midollo. Invece niente.
L’ultimo gradino della scala è occupato dal ministero dei Beni Culturali. Forse sta proprio qui il biglietto da visita del Governo: se non c’erano teste migliori di quella di Bondi, prepariamoci al peggio.

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La sconfitta mitigata

Le urne consegnano inequivocabilmente a Berlusconi e Bossi le chiavi del paese. Il primo, come sempre, ha saputo abilmente attrarre la miriade di voti vaganti, il secondo è l’unico che da anni proclama una proposta semplice e facile da capire, senza bizantinismi politici o sofisticherie di sorta. In un mare torbido di proposte ambigue e tutte uguali, il messaggio dell’interesse economico del nord è il più cristallino di tutti. Ed il nord, per questo, lo ha premiato.
Ma ritorna il governo dei furbetti e dei ricchi, acclamato dalle culture di Amici e del Grande Fratello e dai poveracci in cerca d’autore. Il plebiscito degli italiani non permetterà agli stessi di lamentarsi oltremisura. Hanno voluto in massa Berlusconi, e Berlusconi in massa si meritano.
Il governo sarà stabile e duraturo, longevo: non ci resta che piangere.
Se a Veltroni si può concedere un merito, occorre dargli atto che l’origine del big bang parlamentare risiede nelle sue prime mosse. Se stamattina ci siamo alzati con cinque gruppi parlamentari, anziché ennemila, è anche merito suo. Fu lui, che decidendo di correre pressochè da solo, segnò la berlina delle sinistre estreme e convinse Berlusconi a fare altrettanto. Tuttavia il confino dei partitucci è essenzialmente figlio della strabordante vittoria del Cavaliere, che ha di fatto raccolto con sé anche i piccoli bocconi e le briciole più insignificanti. Andiamo, insomma, verso una legislatura più snella e leggibile, lontana dai modernismi maggioritari, ma sulla giusta via della semplificazione. Questa chiarezza nel panorama parlamentare è l’unico esito positivo del voto dei giorni scorsi. Dispiacerà forse che le storiche voci socialiste e comuniste non trovino posto, ma personalmente non rimpiango affatto il surreale Bertinotti, l’insipido Boselli e tutti gli altri quaqquaraqquà.
Forse non tutto il male viene per nuocere.

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Il voto utile

Anche questa volta, com’è accaduto spesso nel passato più prossimo, vale il principio del “meno peggio”. Le sirene ingannevoli che inneggiano al “non voto”, nel confuso e sconfinato mare della campagna elettorale, vanno evidentemente ignorate e screditate. Così come i tentativi di convincerci che la vera protesta sarebbe arrivare in massa ai seggi e rifiutare le schede. Balle. Benché in molti ci abbiano provato, nelle democrazie moderne non si è ancora trovato un metodo alternativo al voto, che potesse portare a buoni risultati. Semplicemente per l’assunto che se non si vota, altri (fossero anche solamente coloro che si candidano) decideranno per noi. In assenza di ideali condivisi, di identificazioni chiare e convinte, meglio votare il “meno peggio”, che non votare. Perché l’astensione non premia chi si astiene, ma coloro che comunque a votare ci vanno.
La querelle sul voto utile ha lasciato strascichi di pressappochismo e di demagogia. Non è affatto vero che il voto ai partiti minori sia “buttato”. Innanzitutto perché chi crede in un ideale dovrebbe battersi per vederselo rappresentato anche in maniera marginale. In secundis perché molti dei cosiddetti partitucci possono conquistare seggi al senato (serve l’otto per cento) e ottenere quindi un potere determinante in caso di governi in bilico. E il prossimo governo sarà molto in bilico.
Io voterò, come dicevo, il “meno peggio”. Non indicherò le mie intenzioni. Non tanto per assurdi preconcetti morali sull’influenza che le mie parole potrebbero avere (su chi poi?), ma perché ritengo che il voto sia una delle cose più intime e segrete, che non si dovrebbero mai sbandierare troppo. Anche se sembrano tutte uguali, le proposte sono tante e diverse. Ciascuna con più limiti che virtù, è evidente, ma qualcosa bisognerà pur scegliere. E per ogni cattiva proposta, ve ne è sempre una peggiore. Certamente non voterò Berlusconi, che fra tutti reputo il peggiore.

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Il finanziamento dei nanetti


Sono in molti a non capire come mai anche i più nani dei nostri partitini si presentino ancora alle elezioni (per il Campidoglio, a Roma, i simboli sono 31!). Non si diceva che il coraggioso «andare da solo» di Veltroni, in parte imitato da Berlusconi, li avrebbe falciati? Già, si diceva. Se Prodi avesse, o avesse mai avuto, il fiuto politico di Berlusconi, l’ ultimo atto del suo governo poteva essere di cancellare con decreto legge la orrenda normativa sul finanziamento dei partiti che ha alimentato la proliferazione di nanetti e addirittura micro-nanetti visibili solo con una lente di ingrandimento. Dopo tanti provvedimenti impopolari, sarebbe uscito di scena in bellezza con un atto altamente popolare. Invece Prodi si è dichiarato difensore dei partitini fino all’ ultimo minuto, fino a quando il nanetto Mastella lo ha fatto cadere. E sì che Mastella lo preavvisava da mesi. Così anche questa partita è caduta su Veltroni, che chiaramente si trova ingorgato da troppi problemi. Che saranno aggravati, temo, dal suo reclutamento. Entro in parlamento, ha dichiarato la giovanissima e leggiadra Marianna Madia, capolista Pd nel Lazio, «forte della mia straordinaria. inesperienza politica». Se fosse una battuta, è difficile essere più spiritosi di così. Ma Marianna dice sul serio. Farà carriera. Come Robespierre, crede in tutto quello che dice. Sia come sia, sul punto Veltroni ha insediato un gruppo di lavoro presieduto dal suo costituzionalista «tuttofare» professor Ceccanti (tale perché si ritroverà, alla Camera, unico e solo). L’ idea sarebbe «meno soldi pubblici, più soldi privati». Ma non è detto che l’ idea sia buona. Il sempre richiamato esempio degli Stati Uniti è molto variegato. Ma per le elezioni presidenziali, che sono le più importanti, le limitazioni normative sono state di fatto cancellate dai Pac (Political Action Committees) che sono comitati privati e indipendenti che però «fiancheggiano» un candidato, e che sono liberi di combinarne di tutti i colori. L’ altro modello è quello dei matching funds: le donazioni dei privati vengono pareggiate dallo Stato. In tal caso l’ ipotesi divertente è che Berlusconi doni al suo partito 1 miliardo, obbligando il Tesoro a fare altrettanto. Ma l’ eventualità più probabile, in Italia, è che i privati non donino abbastanza per tenere in piedi la baracca. Veniamo al finanziamento pubblico. Dopo il referendum del 1993 che lo aboliva i partiti hanno rimediato con il rimborso per ogni voto conseguito. Il principio è sensato. Ma siccome siamo in Italia è rapidamente degenerato in una pappatoria generalizzata. Oggi il rimborso va a tutti i nanetti che arrivano all’ 1 per cento del voto; e dunque a gruppi politici che per gli studiosi nemmeno si qualificano come partiti (visto che non riescono ad eleggere nessuno). E’ questa pioggia benefica di soldi sprecati che foraggia la frammentazione e che la sostiene anche in questa elezione. Questa pappatoria, non è, beninteso, il solo scandalo che ci affligge sul finanziamento pubblico, ma è il primo da decapitare.

Giovanni Sartori (Corriere della Sera – 22 marzo 2008)

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