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Bossi Jr, Milano e il clima caraibico
La Lega, giurava anni fa Umberto Bossi, «assicura assoluta trasparenza contro ogni forma di clientelismo». Di più: «Non si barattano i valori-guida con una poltrona!». Di più ancora: «Dobbiamo essere in primo luogo inflessibili medici di noi stessi se vogliamo cambiare la società!». Bene, bravo, bis. Ma i figli, come dice Filomena Marturano, «so’ piezz’e core». Così, quando si è trattato di dare vita all’«Osservatorio sulla trasparenza e l’efficacia del sistema fieristico lombardo », chi ha piazzato nel Comitato di presidenza? Suo figlio Renzo. Certo, l’approccio «mastelliano» alla raccomandazione («un peccato veniale», l’ha sempre definito Clemente) non è per il segretario della Lega una novità assoluta. Qualche anno fa, infatti, l’uomo che aveva fatto irruzione in politica tuonando contro il familismo, aveva già piazzato a Bruxelles il fratello Franco e il figlio Riccardo. Assunti come portaborse, il primo a carico di Matteo Salvini e il secondo di Francesco Speroni, evidentemente lieti di spendere «in famiglia» la prebenda di 12.750 euro al mese che ogni deputato riceve per l’attaché. Quali competenze avessero l’uno e l’altro non si sa e non si è mai avuto modo di approfondire: dopo la scoperta della doppia sistemazione parentale, ufficializzata dalla pubblicazione sul sito Internet www2.europarl.eu.int/assistants, le due nomine furono precipitosamente annullate. Meglio perdere un paio di stipendi che esporsi al rischio di mal di pancia dei leghisti di base allevati nel mito dei duri e puri.
Quanto alla competenza di Renzo Bossi nel nuovo incarico, il mistero è ancora più fitto. L’assessore regionale Davide Boni ha spiegato a Repubblica che la nomina del ragazzo è solo il primo passo: «Stanno scadendo i vertici e noi ci facciamo avanti perché la Fiera è troppo importante per Milano e l’intera Padania e perché la Lega esprime una classe politica di tutto rispetto». «E Renzo?» «Con lui la squadra non potrebbe essere più incisiva». L’affermazione, ovviamente del tutto estranea a ogni forma di leccapiedismo verso il Capo, è rassicurante. Fino a ieri, infatti, sulla statura del figlio del ministro delle Riforme esistevano due sentenze. Una emessa dai professori che l’hanno bocciato agli esami di maturità la prima, la seconda e poi ancora la terza volta che si è presentato, rendendo inutili tutti i ricorsi. L’altra emessa dal padre stesso il giorno in cui gli chiesero se Renzo fosse il suo delfino: «Delfino, delfino… Per ora è una trota». Battuta che fece nascere all’istante, su Internet, un «Renzo Trota fans club». Auguri, comunque. Al delfino salmonato e alla Fiera di Milano. Dopo tutto, può essere l’inizio di una brillante carriera. Del resto, negli staterelli caraibici, cose così capitano da un pezzo. Avete letto l’Autunno del patriarca di Gabriel García Márquez? Una delle scene indimenticabili è quella in cui la madre del dittatore, Bendicion Alvarado, nel vedere «suo figlio in uniforme d’etichetta con le medaglie d’oro e i guanti di raso» davanti al corpo diplomatico schierato al completo, non riesce a «reprimere l’impulso del suo orgoglio materno» e grida entusiasta: «Se io avessi saputo che mio figlio sarebbe diventato presidente della Repubblica lo avrei mandato a scuola!».
Gian Antonio Stella – Corriere della Sera, 4 febbraio 2009
Ubi maior, minor cessat
L’approvazione della nuova legge per le elezioni europee alza al 4% la soglia minima di sbarramento per poter accedere alla rappresentanza.
Principio buono, tra l’altro diffusissimo in Europa, ma che puzza di convenienza all’italiana. Se è vero che riduce la frammentazione, rimargina lo sperpero dei rimborsi statali ai partiti e garantisce, sulla carta, maggior governabilità, è anche vero che le motivazioni della sua approvazioni bipartisan appaiono un po’ meno nobili. È chiara infatti la convenienza convergente di Pd e Pdl al dissolvimento dei piccoli partitini mangiavoti, che gravitano scomodamente sia a destra che a sinistra.
Non ci vedo barlumi di modernizzazione, né anticipazioni di evoluzione politica. Ci vedo solamente vecchi accordi di botteguccia.
La via d’uscita del vicolo cieco
Mi schiero tra i disillusi, quelli che fatalmente non credono che ci possa essere una via d’uscita. Appartengo alla schiera degli scettici, che per la crisi mediorientale non riescono ad ipotizzare soluzioni plausibili e sostenibili. Come si può fare? Semplicemente, non si può fare.
La ragione che sta a monte di tutto il conflitto va ricondotta alla povertà del territorio. Ragioni e torti dei due popoli si mescolano in un vortice infinito, partorito storicamente nella notte dei tempi. Però tutti i fanatismi religiosi che ne sono scaturiti, peculiari di chi non ha altre chances nella vita, affondano primariamente le radici in un fertile vuoto economico. Attecchiscono laddove l’ignoranza e l’indigenza precludono qualsiasi via d’uscita. Laddove non c’è futuro per se stessi e per i figli, perché l’unica possibilità è la morte.
I turchi innestati nel nord Europa, raggiunto il benessere economico, hanno ammorbidito i propri estremismi e abbandonato i radicalismi religiosi, quasi integrandosi. Perché cambiando l’aspettativa di vita, si moderano gli ideali. Processo poco nobile, se volete, ma efficace per salvare la pelle.
Così in Palestina. Non è perseguibile alcuna soluzione “partigiana”, che decreti la supremazia di una parte a discapito dell’altra. Si può solo lavorare per una lenta e graduale integrazione, iniziando dallo sviluppo economico che permetta di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. Un’apertura culturale che schiuda le menti delle nuove generazioni (di tutte), per un progressivo affrancamento dalle imposizioni formative di chi crede irrimediabilmente al conflitto.
I temporanei “cessate il fuoco”, o le risoluzioni Onu da avanspettacolo, non produrranno mai alcun effetto a lungo termine. Si sostengano invece le economie di quei territori, si inizino davvero programmi culturali ad ampio raggio… li si faccia evolvere. In fondo la cultura della vita è anche questo.
Misera Chiesa in misero Stato
Il Vaticano taccia come “approssimazione storica e meschino opportunismo politico” l’intervento di Fini sulle responsabilità della Chiesa cattolica, di fronte alla promulgazione delle leggi razziali del ’39. Scontro tra eredi dei colpevoli, sembrerebbe.
Si perpetra così l’antico vizio dell’Italia di fronte ai dibattiti storici: l’abitudine cioè, secondo cui ognuno può dire un po’ quello che vuole.
È innegabile che l’atto infame del regime totalitario, cui va addebitata ogni responsabilità, trovò una parte di sostegno nell’opinione pubblica di una società ormai compromessa e marcescente. In un paese allo sbando, che vedeva nella guida forte del dux l’unica via d’uscita, non furono isolate le posizioni di chi assecondava qualsiasi scelta del regime, anche la più folle. D’altro canto è acclarato anche che il papa di quel periodo, Pio XII, si schierò fermamente contro le leggi razziali, pronunciando più volte inequivocabili discorsi ed appelli.
A Pio XII, però, si rimprovera di non aver mai condannato apertamente le deportazioni del regime nazista. Nel Museo dell’Olocausto di Gerusalemme, un’iscrizione definisce il papa come “ambiguo”. Di fronte alle proteste del Vaticano, i responsabili del Museo si resero disponibili a rivedere quel giudizio qualora i documenti degli archivi vaticani avessero dimostrato i buoni intenti del Pontefice. Il permesso ad accedere agli archivi non fu mai accordato.
Di ambiguità fu accusato anche Pio XI, suo predecessore, che parlo di Mussolini come dell’”uomo della provvidenza” e che si vide più spesso impegnato a contrattare i privilegi ecclesiastici che a esecrare il regime fascista.
Forse dunque, come spesso accade, la verità sta un po’ nel mezzo.
Esiste sull’argomento un bel libro, che non ho ancora avuto modo di leggere: Pio XI, Hitler e Mussolini. La solitudine di un papa, di Emma Fattorini.
Ne riparleremo.
La sindrome di Chopin
La proposta del Parlamento per contrastare il malcostume tutto italico dei pianisti, ovvero di coloro che maramaldamente votano pigiando i pulsanti degli assenti, è quantomeno bizzarra. Non bastante l’avvento dei badge personali (vota solo chi infila il proprio badge nella tastiera), l’idea suggerita è quella del controllo delle impronte digitali, integrato nei pulsanti.
La classe dirigente, vertice della piramide, che dovrebbe dare l’esempio primo e supremo di rettitudine, non solo insiste nella scostumata prassi di votare per gli assenti, ma propone di spendere 450 mila euro (dei nostri!) per auto-limitarsi.
Nei più civili paesi musulmani, al mercato tagliano le mani dei ladri. Basterebbe un primo avvertimento e poi una legge del taglione: nessuna spesa e risultato assicurato. Invece no: intanto sperpero perpetrato, poi chissà…
Chissà certo… perché non è detto che con i 450 mila euro il problema si risolva. L’Avvocatura della Camera ha già messo in guardia tutti quanti sul pericolo di violazione della privacy. Mettete pure la scansione delle impronte, ma poi potrà essere usata solo su chi dà il consenso. Perfettamente inutile ed inefficace quindi. Soldi spesi, ma obiettivo fallito.
Maestro, musica!
Abbronzatissimi
“Ah! Abbronzatissima,
sotto i raggi del sole,
com’è bello sognare
abbracciato con te”
(E. Vianello – Abbronzatissima)
Anche ammettendo, ma non concedendo, che la gaffe di Berlusconi sia stata invero una battuta difettosa, il turbamento rimane lecito e sacrosanto. A poco serve urlare alla congiura e alla strumentalità delle obiezioni sollevate. I maggiori quotidiani americani ed europei sono sobbalzati alla notizia: pensare a una campagna delatoria contro il Cavaliere da parte dei giornali mondiali risulta quantomeno audace. Della serie: ma chi se lo fila?
La tesi della battuta sbagliata avrebbe ragion d’essere se i precedenti del Nostro non fossero così imbarazzantemente pesanti e scomodi. Dalla superiorità della civiltà occidentale al kapò e ai coglioni (noblesse oblige), il panorama è vasto e ben assortito: repetita non iuvant.
Tutto finisce in burla e polemica da bottega, quando il gaffeur non supera il confine nazionale. Ma se si va oltre, la grancassa risuona e la figuraccia è assicurata.
Berlusconi ha rapidamente proclamato una dichiarazione di amicizia per l’americano. Sarà un caso (o un complotto?), ma Obama, l’uomo oggi più potente del mondo, si è affrettato a chiamare nove capi di stato. Oltre a salutare Francia, Germania, Inghilterra, ha ritenuto necessario relazionarsi subito con Corea, Messico, Australia… ma non con l’Italia. Un vero affronto per il nostro premier, diventato nero non per spirito d’emulazione, ma dalla rabbia.
Il cavaliere nero
Obama doveva vincere. Innanzitutto perché dopo gli anni della tragica amministrazione Bush, urgeva non solo un cambiamento, ma un cambiamento radicale. Poi perché le carte del candidato democratico, al cospetto di quelle del repubblicano, erano ineludibilmente migliori. Tra tutte, sono state determinanti la sua verde età e l’enormità dei fondi di cui ha goduto per la campagna elettorale: mai un candidato alla Casa Bianca aveva ricevuto tanti dollaroni.
Giusto così e bene così. Se è vero, come è vero, che gli Stati Uniti ed il mondo intero necessitano di un nuovo afflato, Obama è il concorrente che offre più credenziali e più garanzie. Più di McCain e anche più della stagionata Hillary Clinton.
Tra le sfide che lo attendono e le aspettative che dovrà sedare, ne sottolineo una. Vedremo se riuscirà ad invertire anche la rotta della sudditanza con le grandi lobby industriali americane. Quelle che pagano le campagne elettorali e sostengono economicamente i bisogni della politica stelleestrisce. Quelle che evidentemente non fanno nulla per nulla. Saprà il Presidente Usa cavalcare il buosenso e dire no alle industrie che sovvenzionano la guerra, a quelle che generano la fame e a quelle che inquinano il pianeta?
Per il resto, ha ragione Di Pietro (in questo periodo molto in voga su questo blog): non possiamo pensare che Obama risolverà i mali dell’Italia.
Dietrologia dello spirito
Tuona l’intellighenzia italiana contro le parole di Alemanno e La Russa, rei di non aver condannato apertamente, totalmente ed inequivocabilmente la parentesi fascista. Sacrosanto, ci mancherebbe.
La stessa intellighenzia però, e l’opinione pubblica che inevitabilmente la segue a ruota, non accetta l’idea che possa essere messo in discussione il primato morale, etico e assoluto della Resistenza e dei suoi derivati. Non accetta che il dogma possa oscillare. Come l’infallibilità papale, la castità prematrimoniale. Molto più semplice e conveniente somministrare l’iniezione di una guerra tra bene e male, tra buoni e cattivi, nitidamente ed indissolubilmente separati. Di qua i pii, di là i lupi mannari. Invece si trattò di un fenomeno molto più complesso, di una vera e propria guerra civile, tra italiani divisi a metà e fomentati da sentimenti ed illusioni diversi. Non fu la guerra tra il bene ed il male, fu molto altro.
Saremo mai pronti e sereni per affrontare un dibattito simile?
Cloaca Maxima
È di qualche ora fa, la notizia che il capogruppo del Pdl al Senato, Gasparri, ha definito il Consiglio Superiore della Magistratura una “cloaca”. Poco dopo, l’interessato ha seccamente precisato che “non intendeva denigrare l’istituzione”.
Ora, se io dicessi a mia madre che è una cloaca, prima mi chiederebbe cos’è una cloaca e poi non mi rivolgerebbe più la parola per qualche mese. E questo anche se precisassi che non intendevo offenderla.
Siamo stufi di questi toni da bettola di bucanieri, dei continui attacchi e delle susseguenti smentite. Se uno attacca un’istituzione, abbia il coraggio di affondare il colpo, di portare fino in fondo la polemica, di non ritrarre il culo. Ma definire qualcosa “cloaca” e poi smorzare i toni, facendo appello alle buone intenzioni è solo tipico degli ominuccoli.
Gli onorevoli in soggezione
L’odierno voto del Parlamento al Lodo Alfano segna inequivocabilmente il primo passo verso l’impunità di alcuni cittadini rispetto a tutti gli altri. Come se l’efficacia dell’istituzione potesse essere garantita solo dall’intoccabilità di chi la guida. Con questa scusante da palcoscenico, ci vogliono convincere della bontà della norma, della buonafede dell’atto.
Sul merito del provvedimento, sul suo movente e sulla regia del mandante, ci sono pochi dubbi ed in molti hanno puntato i riflettori della critica. L’ottimo Sartori, qualche giorno fa, ha sottolineato anche un altro aspetto, ugualmente interessante e degno d’attenzione: quello del servilismo dei parlamentari, sempre pronti alla vile ed incondizionata obbedienza.
“Nell’ultima campagna elettorale Veltroni ha combattuto un anonimo, un avversario senza nome e cognome. Ha malamente perso (anche per questo, ritengo). È vero che uno dei tantissimi difetti della politica italiana è la eccessiva personalizzazione del potere, il potere che addirittura coincide con una persona. Ma l’occasione per dimostrare che non deve essere così non è una contesa elettorale. Ciò premesso, il fatto resta che gli italiani oramai si dividono (asimmetricamente) tra berlusconiani e no. Da un lato c’è sempre e soltanto Berlusconi; dall’altro ci sono stati Prodi, D’ Alema, Amato, Rutelli, Veltroni, tutti in transito e sempre in contesa tra loro. Dunque un polo coincide con una persona. Il che equivale a dire che non riusciamo più a separare i problemi come tali da una persona che li impersona. Questa eccessiva personalizzazione è, a mio avviso, dannosissima; e per contrastarla inventerò qui un nome finto: Silvio Arcore. Il premier Arcore in questo momento è furioso. Dopo aver vinto tre elezioni ancora non è riuscito a saldare i conti con la magistratura. È ancora imputato nel processo Mills che andrà a sentenza prima della prescrizione; e per di più teme altri scherzi che ne ostacolino, a suo tempo, il disegno di salire al Quirinale. E così vara con urgenza una legge «blocca processi» che ferma per un anno tutti i procedimenti che prevedono pene massime al di sotto dei dieci anni (nel caso Mills sarebbero sei); e per ogni evenienza interpola, nel «pacchetto sicurezza» al quale gli italiani tengono, una coda estranea (il lodo Alfano) che rende Arcore intoccabile fino all’ aprile 2013, e probabilmente oltre. Ora, se davvero si trattasse del signor Arcore, quasi tutti direbbero che le due escogitazioni sono pessime, e che servono soltanto a lui. Invece il nostro Silvio sostiene che sono necessarie e nell’interesse di tutti. Ammettiamo che siano necessarie. Anche così si potrebbe sicuramente far meglio. Una legge che diminuisce il carico degli arretrati giudiziari ci vuole. Ma dovrebbe cancellare i processi inutili, tali perché destinati a finire nel macero delle prescrizioni. Ma no. No perché, così riformulata, la legge non salverebbe il premier Arcore. Anche se una sua eventuale condanna in una sentenza di primo grado gli lascia dieci anni e passa di ricorsi e di appelli, il Nostro antepone il suo interesse e prestigio privati a quello di far funzionare la macchina della giustizia. E considerazioni analoghe (la mia è sul Corriere del 21 giugno) si possono fare sull’immunità. Eppure la maggioranza parlamentare di Arcore fa quadrato (superbulgaro, senza nemmeno un dissenso) nel sostenere che le due proposte in questione sono nell’interesse generale, nell’interesse di tutti. È vero: anche Arcore ne beneficia, ma soltanto perché lui è uno dei tutti. Le cose che mi spaventano sono oramai parecchie; ma il livello di soggezione e di degrado intellettuale manifestato in questa occasione da una maggioranza dei nostri «onorevoli» (sic) mi spaventa più di tutto. Altro che bipartitismo compiuto! Qui siamo al sultanato, alla peggiore delle corti. Cavour diceva: meglio una Camera che un’anticamera. Ma quando un’anticamera si sovrappone alla Camera, non so più cosa sia peggio.“
Giovanni Sartori (Corriere della Sera – 5 luglio 2008)