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Hic sunt leones
Posted by Giullare in Cose di paese on 20 dicembre 2006
Hic sunt leones era il modo che i Romani utilizzavano per definire i confini meridionali del Sacro Impero. L’epigrafe “Qui ci sono i leoni” indicava che il desertico e selvaggio territorio dell’Africa era inesplorato e pericoloso: il mondo terminava lì, andare oltre era un’incognita assoluta. Un territorio sconosciuto agli uomini, dimenticato dagli dei e sconsigliabile ad entrambe le categorie.
L’ultima luminaria pubblica che si incontra salendo da via 1848 è collocata alla fine di piazza Italia, laddove inizia la pericolosa discesa di via Solferino. Le luci che improvvisamente si fermano hanno lo stesso sapore dell’iscrizione Romana: qua finisce l’Impero, termina il mondo civile… non andate oltre.
Se via Solferino è il naturale pseudo-cardo che si snoda dal centro del paese, perché non illuminarla? Perché decorare tutto il centro e abbandonare la principale direttrice d’uscita che porta a Mantova? Forse perché a Sassello pochi commercianti hanno sovvenzionato i ridicoli agghindamenti natalizi?
Al posto dell’ultima striscia di pendenti luminosi, una insegna lampeggiante con scritto “Hic sunt coiones, buone feste” sarebbe stata più appropriata.
Fiat lux
Posted by Giullare in Cose di paese on 18 dicembre 2006
Capisco benissimo che il periodo natalizio trascini con sé una certa propensione a tutto ciò che contempla una qualsiasi idea di luce. È assodato, e per questo ben comprensibile, che durante le festività la mente delle persone sia attratta da qualsiasi oggetto luccicante, luminoso, lucente… Siano insegne, luminarie pubbliche, luci al neon o semplici candele poco importa: associamo il segnale luminoso all’idea di Natale e di festa e attraverso questa percezione ci compiacciamo e ci commuoviamo. Automatico.
Come detto, comprendo benissimo tutta questa predisposizione. Però non si può continuare a tollerare il trionfo del cattivo gusto che impera indisturbato tra le strade di ogni paese, tra le case di ogni via, sulle finestre e sugli alberi di molte abitazioni. Cespugli senza foglie addobbati con squallide palle luminose, pini perfetti agghindati in un delirio scintillante senza forma e senza senso, file di luci ingarbugliate a casaccio su balconi imbarazzanti, porte di casa più simili ad ingressi di night di quarta categoria… La morale pubblica ed il comune senso del pudore dove sono finiti? Fosse per me imporrei multe pecuniarie ingenti, paragonabili alle sanzioni amministrative di chi inquina o disturba la quiete pubblica. Possibile che a Natale tutti si facciano prendere da questa fobia insensata e sentano l’incontrollabile istinto di illuminare l’illuminabile, in qualsiasi modo ed a qualsiasi costo?
E ho parlato solo della chincaglieria luminosa. Se comincio coi babbi natale appesi sulle grondaie…
Il Grande Bordello
Posted by Giullare in Cose di paese on 27 novembre 2006
Dalle colonne della Gazzetta di Mantova il sindaco di Volta annunzia la volontà della sua Giunta di installare alcune telecamere nelle zone nevralgiche del nostro comune. D’altro canto i furti massivi dei giorni scorsi sembrerebbero supportare l’avvento del Grande Fratello.
Parlandone stamani con Gianluca, sono sempre più convinto che si tratti invece di una mossa sbagliata.
Il provvedimento segue i furti di via Roma della scorsa settimana per una pura casualità. Si evince pertanto che l’intenzione delle Giunta prescinde dagli ultimi accadimenti, peraltro appartenuti ad una via diversa dalle zone di collocamento prospettato. Ma al di là dell’ubicazione, le telecamere non risolvono il nocciolo del problema. Forse verrà limitato qualche atto vandalico (ma quale atto vandalico poi? Una scritta sul muro o il danneggiamento di una fioriera?), però non possiamo credere che diminuiranno i furti. I ladri forse si inibiranno in tutto il resto del paese che non sia la piazza centrale o i giardini pubblici? In ogni caso il prezzo da pagare sarebbe troppo alto: dovremmo offrire il dazio della circoscrizione della libertà individuale. Barcolla il ragionamento “se uno non ha nulla da nascondere, non prova nessun fastidio davanti alla telecamera”. È vero, il cittadino rispettoso non cambierà il suo comportamento, ma non è necessario delinquere per sentirsi a disagio. Muoversi o parlare con persone sapendo di essere osservati, ci condizionerebbe. E soprattutto, dove si potrà arrivare? Questo è la vera domanda da porre. L’idea di avere telecamere ovunque è tutt’altro che paradossale. Appare invece come un naturale epilogo, di quella che può sembrare una scelta indolore. Iniziare a pensare al Grande Fratello significa prendere una rotta chiara e definita. Difficile ipotizzare che si possa tornare indietro: la mano (o l’occhio) dell’istituzione non potrà che essere sempre più presente ed invasiva. Se questo è il metodo di risoluzione… ad estremi mali, estremi rimedi. Avrei capito la proposta di intensificare le ronde delle forze dell’ordine, ma spiare tutti e comunque è ben’altra cosa.
Ai favorevoli chiedo se questa mossa non abbia piuttosto il sapore amaro della demagogia. La ratio del provvedimento appare disarmante nella sua banalità ed equivoca nella sua semplicità: di fronte ad un problema, ad una società preoccupata per l’incalzare degli episodi criminali, occorre dare l’impressione di fare qualcosa; allora disponiamo le telecamere, facendo credere che si tratti di una tutela delle istituzioni al cittadino; in questo modo il cittadino penserà che non si potranno più commettere crimini; lo stesso cittadino plauderà le istituzioni, indipendentemente dall’effettivo risultato raggiunto. Ma è un ragionamento capzioso, scollegato nei rapporti di causa – effetto.
Agricola, agricolae
Posted by Giullare in Cose di paese on 6 novembre 2006
“…ci saranno sempre i tuoi campi, sebbene la nuda pietra e la palude con il giunco limaccioso ricoprano i pascoli interi. Le pecore sgravate e sofferenti non si spingeranno verso pascoli sconosciuti, né saranno colpite da mali contagiosi del gregge vicino. Qua vivrai il fresco delle ombre, tra acque amiche e sorgenti divine; da un lato la siepe, succhiata nei fiori di salice da api iblee, di frequente con dolce sussurro ti recherà il sonno; dall’altro, il potatore lancerà al cielo il canto, mentre non smetteranno di tubare le colombe a te graziose, né finirà di gemere la tortora sopra l’alto olmo.”
Mi piacerebbe continuare ad immaginare il mondo agricolo come lo descrive Virgilio nelle sue Bucoliche. Purtroppo questa immagine viene scalfita, ogni anno, dalla Giornata del ringraziamento. Giornata dell’orgoglio agricolo voltese, giornata nella quale tutto il mondo contadino del nostro paese si ferma e si alza in piedi, per ringraziare gli dei e per mostrare alla cittadinanza intera l’importanza del suo lavoro. La comunità si prostra di fronte alla processione dei trattori, il paese si raccoglie attorno all’altare, agghindato con i prodotti della terra per sentirsi più vicino al cielo. Una messa fra le macchine agricole, condita da panegirici retorici sull’impegno agreste, improbabili apologie del contadino e sacre benedizioni di John Deere. Per un giorno non sembra esistere altro: solo i contadini, col loro bagaglio di saggezza, umiltà e rettitudine. Preghiamo per loro, perché riescano sempre a darci il pane quotidiano, perché abbiano la vicinanza ed il sostegno della società, perché continuino a costituire per noi un esempio da seguire. Dimentichiamo per un giorno la ricchezza della loro categoria e compiangiamo la loro fatica. E gli altri? Quelli che si alzano tutti i giorni alle cinque per imboccare un’autostrada che li porti al lavoro chissà dove? Quelli che campano con uno stipendio da fame o che non campano affatto perché uno stipendio non ce l’hanno? Quelli che rischiano la vita nei cantieri e quelli che si ammazzano di lavoro per dare da mangiare ai figli con qualche straordinario? Quelli che vengono umiliati dai capiufficio o dalla monotonia di un lavoro manuale sempre uguale? Per tutti costoro, e per tutti gli altri, Dio non c’è? Oppure sono loro che non hanno bisogno di Dio? Quelli che non piangono mai (né che piova troppo, né che piova troppo poco), e che non ricevono alcun contributo a fondo perduto, non meritano forse la stessa attenzione? La storia e la tradizione rurale del nostro territorio sono fuori discussione, ed anzi è giusto non dimenticare mai da dove veniamo. Celebrare la cultura contadina è doveroso. Tenere vivi il folklore e la tradizione significa salvaguardare la specificità, significa capire la storia e spiegare il presente. Ma tutto il resto sconfina nel patetico e nell’ipocrita. Scomodare Dio perché interceda sui poveri agricoltori, mentre in fondo alla piazza si tratta l’acquisto di una vacca a suon di bestemmie è una contraddizione di termini. Confortare e sostenere la categoria in presunta difficoltà, mentre piovono aiuti comunitari e si ristrutturano fienili che diventano ville diventa offensivo per la gente comune.
Canzone per un amico
Posted by Giullare in Cose di paese on 2 ottobre 2006
“Lunga e diritta correva la strada,
l’auto veloce correva.
La dolce estate era già cominciata,
vicina a lui sorrideva.
Forte la mano teneva il volante,
forte il motore cantava.
Non lo sapevi che c’era la morte
quel giorno che ti aspettava.
Non lo sapevi, ma cosa hai pensato
quando la strada è impazzita.
Quando la macchina è uscita di lato
e sopra un’altra è finita.
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito
quando lo schianto ti ha uccisa.
Quando anche il cielo di sopra è crollato,
quando la vita è fuggita.
Vorrei sapere a che cosa è servito
vivere, amare, soffrire.
Sull’autostrada cercavi la vita
ma ti ha incontrato la morte.
Voglio però ricordarti com’eri,
pensare che ancora vivi.
Voglio pensare che ancora mi ascolti,
che come allora sorridi.”
(Canzone per un’amica – Nomadi)
All’epoca delle superiori-università quante volte ho ascoltato questa canzone? In macchina col Cugi, con l’Andrea, col Tui? Quante volte l’ho cantata insieme al Lele, storpiando le voci e accompagnati solo dalla chitarra onnipresente del Paio? Cento, duecento volte? Forse di più.
Non l’ho mai ascoltata come si dovrebbe, non l’ho mai presa sul serio. La utilizzavamo cinicamente come overture dei lunghi viaggi. Tra le risate del Tui e le testa scossa del saggio Cugi…
Mi è tornata alla mente in questi giorni, da sola, senza alcun bisogno di sfogliare le pagine di un canzoniere né di ascoltare improbabili cd. Mi è tornata alla mente e ho pianto, benché non avessi più energie per piangere.
Ho pianto, pensando che sono stato l’ultimo a pagare al Lele l’aperitivo (cioè l’atto di vita sociale che più gradiva). Ho pianto, soffermandomi su “cosa ha pensato quando la strada è impazzita”, su “cosa ha sentito quando lo schianto l’ha ucciso” (si può sentire e pensare a qualcosa in quegl’istanti?). Ho pianto, perché a lui che amava tanto vestirsi bene, non è stato possibile neppure fare indossare l’ultimo abito.
Ora ho paura di rileggere le sue e-mail, ho paura di ascoltare il cantante che solo noi due adoravamo.
Qualcuno che lo amava ha chiesto a me se il Lele ora è da qualche parte. Che ne so io? Perché lo chiedi a me? E poi… si va davvero da qualche parte? Chi l’ha detto? Come si fa ad affermarlo con tanta sicurezza?
Non lo so, se sei da qualche parte o se proprio non ci sei più: “voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi. Voglio pensare che ancora mi ascolti, che come allora sorridi.”
A breve (troppo a breve) andrò a New York, in un viaggio che pianifico da almeno quindici mesi e che sogno da almeno quindici anni.
Il Lele non amava viaggiare, ma so che New York era una delle poche città che lo affascinava. Porterò con me una sua foto e la lascerò là. Nel patetico e stupido tentativo di fargli fare il viaggio che non potrà più compiere.
Ciao Lele
Posted by Giullare in Cose di paese on 28 settembre 2006
Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato che l’amicizia non vuole gesti eclatanti, ma ha bisogno piuttosto delle piccole cose della vita. L’amicizia è come un fiore che va coltivato giorno per giorno, con piccole dosi di affetto quotidiane, con l’equilibrio e la misura che appartengono solo ai giardinieri più bravi. Un fiore, per crescere e creare un seme, ha bisogno di acqua tutti i giorni, non di temporali. Ha bisogno di luce tenue e continua, non di un fuoco che lo bruci. E così è l’amicizia.
Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato il valore dell’ospitalità. Mi hai insegnato che per stare vicini non serve alcuna occasione, alcuna scusa. “Ci troviamo da me” era il tuo modo per chiamarmi “amico”.
Ti ringrazio Lele, perché mi hai insegnato che l’allegria salverà il mondo. Mi hai insegnato che non si può perdere l’allegria, che l’allegria dimostra che l’uomo è un essere pensante.
Scrive Paulo Coelho che “il Guerriero della Luce non ha bisogno che qualcuno gli rammenti l’aiuto degli altri: se ne ricorda da solo, e divide con loro la ricompensa”.
Adesso, che sei lassù, per favore, aiutaci e spiegaci perché può accadere tutto questo.
Noi da soli non riusciamo a capirlo.
Via Solferino e i sacri vasi
Posted by Giullare in Cose di paese on 13 agosto 2006
Da qualche anno l’amministrazione in carica ha rivisto l’organizzazione urbana, perfezionando il piano del traffico ed intervenendo sull’arredo urbano. La storica contrada Sassello è stata dunque arricchita di fioriere di ghisa, posate in coppia (un vaso da una parte, uno d’altra) per i due terzi della sua lunghezza. La scelta, se non discutibile, è risultata perlomeno alquanto opinabile. Personalmente non l’ho gradita, ma l’ho accettata di buon grado, ammettendo che potesse avere una sua logica. Il rallentamento del traffico, la salvaguardia dei pedoni, ed infine l’abbellimento estetico della via, sono “ragioni di stato” che possono giustificare l’interventismo in materia da parte della giunta.
Il punto è che se una decisione scaturisce da dei presupposti, e con essi si giustifica, allora occorre ammettere che se i presupposti vengono meno, anche la decisione perde la sua valenza e deve mutare.
I vasi, posti quasi sempre a ridosso dei muri, costringono i pedoni a sconfinare nella carreggiata anziché procedere al fianco delle case. La sicurezza di chi cammina non è dunque granché salvaguardata.
Progressivamente ho assistito alla transumanza coatta e silente di buona parte delle fioriere. Deportate per svolgere la stessa funzione in altre vie, o per abbellire le piazze in occasione di qualche evento mondano, hanno spopolato via Solferino, sconfessando il principio della miglioria estetica.
Oggi la contrada, che scende sinuosa tra le case del vecchio borgo, conta poco più di dieci piante, poste qua e là in maniera casuale e disordinata. Il tutto, lungi da pianificazioni o studi di sorta, sembra lasciato in balia di se stesso e dell’implacabile oblio del destino. Desolazione e pena, altro che abbellimento!
Convivium Voluptatis, casus belli
Posted by Giullare in Cose di paese on 6 luglio 2006
Lo scorso lunedì la signora Luciana Valbusa ha inviato una lettera alla Gazzetta di Mantova, per manifestare pubblicamente il suo disappunto. Queste le sue parole.
Caro Direttore,
giorni fa, esattamente il 28 giugno, si è svolta una bella rievocazione storica a Volta Mantovana, la serata del “Convivium Voluptatis”. Serata splendida, in una cornice che pochi possono permettersi, tra saltimbanchi, candele, gallerie segrete e suggestioni di ogni tipo. Il bello arriva al momento del tanto decantato banchetto, come al tempo del grande Marchesato; peccato però che nella solenne cena moderna non arrivino nemmeno le briciole dalla cucina. Gli invitati (quelli paganti 35 euro), dopo aver atteso invano con l’acquolina in bocca, se ne sono andati tra luminosi fuochi artificiali, a terminare la serata in pizzeria.
Questi sono fatti reali, effettivamente accaduti. Ciò che più dispiace è che nessuno degli illustri responsabili e degli attenti organizzatori abbia mosso un dito per promuovere le proprie scuse. Pensi se tutta la serata fosse andata a gonfie vele, che begli articoli di gloria e gratificazione sarebbero stati pubblicati sui vari giornali.
Una delle tante persone paganti
Nella stessa giornata un collaboratore della Gazzetta chiama la signora Valbusa, per accertarsi che sia stata lei a scrivere e per capire meglio la dinamica degli eventi. Tra sorrisi e cordialità, tutto procede nella più trasparente correttezza.
Il mattino seguente il giornale non pubblica questa lettera. Al suo posto un articolo, mal confezionato, non firmato e decisamente improvvisato, con cui l’organizzazione (e l’assessore Ughetti) si scusa del disservizio. Inutile che riporti pure quello. Anche la più idiota della menti capirebbe che è stato scritto con Ughetti al telefono e con l’articolo di mia madre davanti agli occhi.
Ora, Gianluca mi dirà che da sempre mi ha messo in guardia su questo atteggiamento scorretto della Gazzetta. E’ vero. Lui lo sa, voi lo sapete, noi lo sappiamo. Prima di difendere la libertà di parola e di denuncia, la Gazzetta pensa a curare i buoni rapporti con chi amministra. La signora Valbusa è imbestialita e tenta di telefonare al quotidiano, io me ne sono fatto una ragione.
Ma la questione è ben altra. Sullo scenario c’è infatti l’atteggiamento arrogante e fanfarone dell’amministrazione e del suo assessore. Nessuna scusa, nessuna giustificazione. Poi però si insabbia la questione (che permettete è davvero di poco conto e piuttosto banale) confezionando un articolo atto a salvare la capra ed i cavoli. Il gioco vale la candela? Valeva la pena gestirla in questo modo, perdendo la faccia anche sulle questioni più stupide?
E’ lo stile dei furbi, di chi ti frega due volte.
Siamo alla frutta ed io comincio ad essere stanco.
File transfert
Posted by Giullare in Cose di paese on 1 luglio 2006
Prendendo spunto da un libro (“Tra De Gasperi e gli U2”), Gianluca mi ha dato l’idea per scrivere un pezzo. Dovendo riordinare idealmente il mio computer e quello di mio nonno, quali file vorrei che ci scambiassimo? In un gioco paradossale, ho cercato di dire a mio nonno che cosa di buono mi manca tanto e che cosa mi piacerebbe che lui avesse conosciuto.
Da molto tempo mio nonno non c’è più. Questo è anche un modo per salutarlo.
Caro nonno, lasciami questi file:
1. Un paese dove tutti si conoscono. Potrei salutare chiunque, senza chiedermi “ma chi è questo qua?”
2. Le case con l’aia nel cortile e le tavolate numerose. Avrei tranquillità ed un clima di festa ormai quasi estranei. Si riassaporerebbe il gusto della famiglia.
3. Le magliette attillate di “lanina” dei calciatori. Morirei a collezionarle.
4. L’aria respirabile ovunque, i fiumi balenabili. Non ci sarebbe bisogno di ammazzarsi, aspettando in coda all’ingresso delle piscine.
5. Le donne che prima di tutto si occupavano dei figli. Avremmo madri che fanno le madri e padri che fanno i padri. Non madri che fanno i padri, padri che fanno i padri e figli che non sanno cosa fare.
6. Le soffitte polverose: tra mille cose inutili, c’era sempre qualcosa di affascinante. Magari sarei meno vittima di questa cultura “usa e getta”
7. Il dialetto come lingua ufficiale (per i più colti l’accesso all’italiano, seconda lingua). Chiamerei “portèch” il “garages”, e “sabèt e dumenica” il “weekend”. Bellissimo.
8. Il concetto di “abito della festa”. Eviterei di andare a messa in maniche corte e a lavorare in cravatta.
9. La consuetudine del filòs. Ogni sera non mi rincoglionirei come un ebete davanti alla televisione e “vivrei” a fondo le persone.
10. Una vespa in ogni famiglia, da guidare senza casco. Questa io ce l’ho, peccato per il casco.
Caro nonno, io lascio a te questi file:
1. La posta elettronica. Potresti sapere in tempo reale quanto latte vuole per domani la Lina Cofani. E soprattutto lei non potrebbe rimangiarsi la parola.
2. La Tennent’s super. A fine giornata, quando sfogli il giornale seduto sulla tua poltrona, sarebbe il massimo.
3. I Simpson. Dopo mangiato, prima di tornare sotto il sole dei campi, ti rilasseresti sorridendo un po’.
4. L’aria condizionata. Magari sul tuo trattore. Eh?
5. Gli agriturismo. Così ne apriresti uno anche tu ed io ora saprei cosa fare della mia vita.
6. I tasti Ctrl+C e Ctrl+V. In effetti te ne faresti poco: sposteresti mucche virtuali, da una stalla all’altra. Nulla di più.
7. Il servosterzo. Hai presente girare attorno all’aia col trattore ed il carro pieno di fieno?
8. Le polo a manica lunga. Ti ringiovanirebbe e al bar parleresti di sport con aria esperta..
9. La RyanAir. Con la scusa di andare al mercato di Montichiari, potresti girarti mezza Europa all’insaputa di tutti.
10. Blu Notte e Sfide. Forse non è una buona idea: poi avresti paura ad entrare nella stalla buia e penseresti a Rivera più che alla nonna. Lascia perdere.
Campanilismo a tavola
Posted by Giullare in Cose di paese on 27 maggio 2006
I Capunsèi, piatto tipico della tradizione popolare voltese, sono stati inseriti nella lista delle peculiarità agroalimentari della Regione Lombardia. Il nostro piatto-simbolo, sintesi di una cucina povera e di una storia contadina secolare, ottiene dunque una sorta di “protezione” e riconoscimento, entrando di diritto nella lista dei migliori prodotti da preservare e difendere, al fianco dei Tortelli di zucca e alla Sbrisolona.
Ho sempre creduto nel valore della tradizione popolare, nel folclore dei natali, nella suggestione e nella ricchezza del nostro passato ancestrale. Accolgo pertanto con sublime piacere la decisione di inserire i Capunsèi tra le etichette ufficiali della gastronomia del territorio da tutelare.
Non ho accolto con identico favore ed entusiasmo l’attribuzione della zona di provenienza dichiarata dalla Gazzetta Ufficiale della Regione. Si certifica che i Capunsèi provengono dai Colli Morenici del Garda, anche se origine e produzione non valicano il territorio di Volta. Provate a chiedere i Capunsèi a Castiglione o a Ponti.
Perché dunque, se si assegna la Torta di S. Biagio a Cavriana ed il Salame mantovano alla sola città di Mantova, non si può dire che i Capunsèi sono di Volta?