Archive for category Cose di paese

Veni, vidi, vici

Veni, vidi, vici

(Gaio Giulio Cesare – 47 a.C.)

(…probabilmente: Pino Adami – 2009 d.C.)

 

Alla fine la Svolta, lista dal nome orribilmente banale e scontato, ha vinto la tenzone per una manciata di voti. Paese spaccato in due, ma questo lo si sapeva da tanto tempo.

Non immaginavo che l’avremmo spuntata. O forse sotto sotto lo speravo ed inconsciamente scongiuravo, con il pessimismo cosmico, una sconfitta che avrebbe bruciato nell’orgoglio, prima ancora che nel cuore.

Nessuna vendetta, ma contro le cassandre rivali, che sbandieravano l’altezzosa previsione di una vittoria al 60-65%… un po’ di umana soddisfazione dovete concedermela.

Ho sempre creduto che l’unica via possibile per il successo dovesse essere l’accordo di tutte le forze alternative, guidate però da una personalità di rilievo. Non pretendo la paternità di questa strategia vincente, ma rivendico di averla suggerita e appoggiata fin dall’inizio, contro gli scettici e gli obiettori.

Questa è la vittoria di Pino Adami, della sua mitezza e tranquillità d’animo. Ho sempre insistito per alzare i toni della campagna elettorale ed il registro del confronto-scontro. Lui, impassibile, ha percorso la sua strada quasi sottovoce, parlando di proposte semplici e eclissandosi dai riflettori della ribalta e del ribaltone. Gli elettori hanno premiato la sua persona e la sua fama, che al cospetto del rivale sono imbarazzanti per la grandezza e spietate per il prestigio.

Oggi, e questo è l’auspicio più grande, nasce un nuovo modo di approcciare l’amministrazione. Servizi sociali al posto dell’edilizia selvaggia, partecipazione in luogo dell’arrogante autoritarismo.

A questo punto subentrano le paure e le ansie per un compito difficilissimo, quello di gestire bene la cosa pubblica. Non so che gestione sarà, né se sarà all’altezza. Io risponderò di me stesso e delle mie azioni. Personalmente sfodero un grande privilegio: non ho stipulato alcun patto elettorale, non dovrò prendere le parti di alcuna persona o gruppo, non dovrò sostenere a priori alcuna ideologia, non dovrò appoggiare preventivamente alcun disegno. Poi, chi vivrà vedrà, ma sperare bene è lecito perché Nietzsche scriveva che “nessun vincitore crede al caso”.

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AAA… “impuristi” cercasi

La mia generazione parla dei propri figli, citandoli con il semplice nome di battesimo. Non antepone, come facevano i nostri nonni ed i nostri padri, quell’impuro articolo determinativo tipico delle lingue lombardo-venete. “Il Silvio”, “il Piero”, “il Paolo”.

Sgrammaticato, scorretto, quasi da analfabeti. Eppure una ragione storica “quell’articolo lì” ce l’ha eccome. Deriva dall’abitudine di chiamare le persone con un riferimento colloquiale, come “il nostro caro Silvio”, “il nostro Piero”, “il nostro Paolo”.

Effetto della globalizzazione all’italiana, quella che sta bene attenta a parlare correttamente di fronte ai propri figli, quella che azzera le lingue locali ed i dialetti, in nome del comune verbo italico. Tutti diversi, figli di culture diverse, ma tutti uguali davanti alla lingua.

Per una volta abbandonate il purismo lessicale e rimanete sgrammaticati… qualcuno, dopo di voi, potrebbe ricordare da dove è venuto.

Il Silvio

 

 

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Delle torri

“Convenne rege aver, che discernesse
de la vera cittade almen la torre”.

(D. Alighieri – Purgatorio , Canto XVI)

 

Non ho partecipato all’inaugurazione delle torri restaurate. Il puntuale acume di qualcuno ha commentato il mio tardo arrivo alla cerimonia, contestandomi che “non vale… arrivare dopo un’ora di discorsi da parte delle autorità”, quando insomma il peggio è passato.

In realtà mi sono fermato all’inaugurazione solo cinque minuti, evitandomi di buon grado la retorica agricola dei padri fondatori e degli amministratori d’ogni livello.

Dal palco rosso, perfettamente agghindato, appare evidente il messaggio di paternità che l’amministrazione ha voluto dare all’evento. A due mesi dalle elezioni, la restituzione alla comunità delle torri restaurate e del percorso che permette di visitarle ha un’inconfutabile missione politica. Nemmeno lo sprovveduto cittadino voltese potrebbe in buona fede leggervi altre motivazioni. Emblematica la foto del sindaco con l’elmetto da cantiere, affissa all’ingresso… in saecula seculorum. Una sorta di monito: “Ricordate, cittadini, chi vi ha dato tutto ciò”.

Ma in questo caso, forse, il mezzo giustifica il fine. Insomma, che sia la propaganda a ispirare questo intervento di recupero architettonico poco importa.

La vista dalla sommità della torre granaria stuzzica l’orgoglio del cittadino voltese. Perché da lassù il panorama del paese è bellissimo. Al di là delle nozioni storiche e delle suggestioni culturali, che già da sole accrescono la bellezza dell’opera, è incantevole salire sul tetto di Volta ed ammirarne le accattivanti forme.

Il recupero delle torri, e la fruizione delle stesse, costituisce un accrescimento del nostro patrimonio. Felicità.

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Ex voto

Stamani, all’assemblea indetta dai nostri RSU aziendali, io ho votato. Non perché creda particolarmente nelle richieste da sottoporre all’azienda, proposte che di questi tempi paiono anacronistiche e forse pretestuose, ma solo per dare un po’ di forza ai nostri rappresentanti, troppo spesso esautorati, spuntati, inermi a causa del deserto attorno a loro.
Però lasciatemi dire che qualche perplessità sulle modalità di votazione è lecita. In Rwanda le votazioni sono di gran lunga più regolari e legali. Passi la scheda da compilare con una penna qualsiasi, sopra un tavolo davanti a chiunque (alla faccia del voto segreto!), ma vogliamo parlare delle liste dei votanti? Nessun riconoscimento personale: solo l’iscrizione del proprio nome da parte del votante, perché chiedere la firma sarebbe stato troppo, su un foglio di carta straccia. Avrei potuto votare per altre venti persone, oppure portare alle urne amici e parenti. Nemmeno le primarie Pd, credo, avrebbero saputo fare peggio.
E poi come si fa ad avere la certezza del risultato del voto e dell’effettivo numero dei partecipanti? Un voto che non vale assolutamente nulla… Fossi l’azienda, sorridendo farei spallucce.

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Grazie

Scusate il ritardo, ma come diceva Modugno “la lontananza è come il vento” e a volte quando il vento è troppo forte scompiglia la carta e rende poco agevole la scrittura. Questo per dire che Roma mi costringe a difficoltà tecniche che impantanano un po’ la vita del blog.
Ci tengo a ringraziare tutti gli amici che hanno assistito alla presentazione di sabato scorso. Ho interpretato la presenza di molti di voi come un profondo gesto d’affetto nei miei confronti. È banale dire che senza l’afflusso massiccio, l’evento sarebbe stato diverso, minore, ordinario.
Mi dicevano che in genere le presentazioni a Volta non superano le quaranta-cinquanta persone. Chi negli anni ha seguito tutti gli appuntamenti affini dell’editrice Sometti, mi riferisce di numeri tutto sommato esigui. Ad occhio e croce saremmo stati almeno centoventi. Questo ha trasformato una bella serata in una giornata indimenticabile.
Avrei voluto trascorrere con ognuno di voi qualche attimo in più. Parlare, scambiare impressioni e sensazioni. Ma il vortice me lo ha impedito e me ne scuso.
Ringrazio chi si è ricordato ed all’ultimo minuto è riuscito a correre lì. Ringrazio chi ha fatto molta strada, a volte accantonando incombenze più urgenti o semplicemente mangiandosi un po’ di nebbia. Ringrazio il manipolo degli irriducibili, che ero sicuro ci sarebbero stati, perché la certezza di averli al fianco è determinante per migliorarsi di continuo. Ringrazio chi era presente solo col cuore, perché nel marasma totale sono riuscito ad immaginare anche il suo sorriso.
Per me la serata di sabato è stata soprattutto questo, cioè affetto ed amicizia incommensurabili. Il resto è poca cosa.
 

 

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Radiofracchia?

Lo studio radiofonico di Radiobase è una stanza agghindata con semplicità: un ampio mixer, sul quale pende un microfono gigantesco, un computer con altre diavolerie elettroniche, un paio di cuffie, due sedie rosse. Tutt’intorno pareti ricoperte di piramidi spugnose, per assorbire il suono… dicono.
Entrando, ho provato sensazioni strane. Ho sentito il disorientamento di Renzo, quando si addentra nel surreale studio dell’Azzeccagarbugli. Ho provato il disagio di Gregor, spaesato nella sua cameretta dopo la metamorfosi di kafkiana memoria. Ho assaporato l’ammirazione di Adso, di fronte alla bellezza dello scriptorium abbaziale.
Nessuna agitazione, solo la mente che scivola altrove. Passo dall’immagine di Good morning Vietnam, alle pubblicità di Radio Deejay. Rispondo alle domande in maniera ripetitiva e forse confusa, quasi non me ne accorgo. Rapidamente termina l’intervista, si spegne il microfono e si “salva” la registrazione. Scopro che avevo un foglio con degli appunti che ho scordato di leggere e solo dopo ore mi rendo conto delle troppe ripetizioni e dei vari tentennamenti.
Ma non importa: è stato bello varcare quella porta anche solo per dieci minuti.

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Fotorimpianto

Il 2009 è iniziato da due giorni e io ho già un rimpianto. Quello di non aver fotografato Volta la notte di capodanno. Fiocchi di fascino sono caduti sui muri del nostro paese, nella copiosa nevicata dell’altra notte. Passare per le vie nelle ore notturne è stata una cosa meravigliosa ed incantevole. I vicoletti di Sassello parevano angoli di borgate cadorine, il Turiàs sembrava un cantuccio della Praga ritratta nei calendari. Tutto questo, come i botti e i fumi del Talisker, è svanito velocemente nella prima mattina. La nebbia e il rapido disgelo hanno fugato l’attimo.
Di tutto questo mi resta una foto scattata col telefonino, con una risoluzione da mosaico ravennate. Non avevo la fotocamera e nemmeno mi sono preso la briga di andarmela a prendere. Ci saranno altre nevicate, ma intanto…

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Santo Stefano 2008

Da qualche anno uno spirito nuovo soffia sulla Giornata dell’Opulenza. La festa in cui un gruppo di amici storici si ritrovava a tavola, nonostante tutto e tutti, sta lentamente mutando forma. Era l’appuntamento fisso, imprescindibile, che ogni anno, cascasse il mondo, ci vedeva protagonisti assoluti. L’espediente fortunato di un lungo e suntuoso pranzo, per parlare e viversi con franchezza. Non ci si vedeva per mesi, ma quella data del 26 dicembre è stata per anni (dodici, tredici?) la tappa fissa da percorrere, la meta scritta da raggiungere, la stella polare da seguire. Cambiavano le scuole, le donne, i lavori, ma quell’appuntamento è sempre rimasto “intoccabile” nelle agende di tutti.
Poi s’è rotto qualcosa. Qualche cronica defezione e qualche celebre abbandono hanno spinto a cercare sangue giovane per rinvigorire la vitalità del gruppo. Oggi rimane uno zoccolo duro di uomini-eroi e nuove leve che si affiancano promettenti. È tutto molto bello, ma è tutto diverso. Non trovo più lo spirito di allora e con nostalgico disappunto ammetto a me stesso che tutto scorre.
Per la cronaca, il tradizionale pranzo si è svolto con la consueta battaglia campale a colpi di forchetta e bicchiere. Questo il menù stilato dall’organizzazione.

Aperitivi:
Gocce di focaccia in allegoria di farcitura contadina
Fior d’oliva della Trinacria e capperi di Ventotene
Briosità di prosecco del feudo Castelfranco
Pacific sunset boulevard

Antipasti:
Lecca-lecca di formaggio caprino alle granaglie dei casali salentini
Carpaccio d’angus del Connemara, con sentori coloniali e nettare di frantoio
Cialda magna del mugnaio, in fragrante tostatura di cecio nobile

Prime portate:
Spaghetti all’ovo, in letto di bottarga della Gallura e aromi mediterranei
Follia del bucaniere con prelibatezze dei Caraibi
Risotto della Duchessa mantecato alla zucca, in virtuosismo di salsiccia mantovana e spezie dell’oriente

Sorbir freddo di agrumi siculi

Seconde portate:
Branzino del Mar Nero, in brillatura di sale e odori del maestrale
Filetto di vitellone brado, addomesticato alle vampe della pietra lavica con oli crudi dell’Ellesponto

Contorni:
Delizie selvatiche dei colli, in balsamo d’aceto
Ghiottoneria di patate novelle agli effluvi del rosmarino

Formaggi:
Giostra del caciaio, in vortice di mostarde piccanti e marmellate del bosco

Sorbir freddo del contado della Val di Non

Dolci:
Semifreddo cremoso, alla nocciuola del Monferrato
Sbricciolona sbronza
Anello del Re Ludwig in sposalizio di zabaione caldo

Frutta:
Gioie del granaio

Caffè

Selezione di grappe riserva e amari del contrabbandiere

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Intellettuali moderni

Jacques Le Goff scrisse anni fa un piacevole saggio intitolato “Gli intellettuali del Medioevo”. In quelle pagine sottolineava la nascita di una figura nuova e rivoluzionaria, sottolineando soprattutto le caratteristiche umane e le virtù empiriche di quegli uomini prestati alla cultura.
Stamani, con qualche perplessità e titubanza, mi sono recato nello studio dell’architetto Zandonella, per chiedere la sua disponibilità ad affiancare la presentazione del mio libro, in qualità di relatore.
Lo Zandonella architetto subitamente mostra le proprie riserve, adducendo di non essere all’altezza. Un gesto di falsa modestia, dico io. Chi meglio di lui potrebbe intervenire in una presentazione di un volume sul territorio e la sua storia?
Lo Zandonella uomo invece sale in estasi. Si compiace del mio lavoro e quasi gli brillano gli occhi di felicità. Accetta con gratitudine il volume che gli regalo e mi porge il suo: un interessante studio archeologico sul castello di Monzambano e sul suo recupero architettonico. Si affretta a farmi la dedica, come ogni scrittore navigato che si rispetti. Poi mi porge il mio dizionario, apre la pagina bianca e mi fa impugnare la penna. Ricambio, con visibile impaccio, una dedica improvvisata, ma efficace. La legge soddisfatto e il suo sorriso val più di mille parole.
Apprezza quanto gli dico e riporge considerazioni e attestati di stima autentici ed originali, che porterò via con me, nel profondo dell’intimo. Poi mi stringe la mano facendomi gli auguri.
Esco dal suo ufficio con l’impressione di un breve incontro tra intellettuali. E ribadisco a me stesso che la scrittura dà davvero alla testa.

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Scribo, ergo sum

Il filosofo Abelardo diceva che “bisogna prendere speciali precauzioni contro la malattia dello scrivere, perché è un male pericoloso e contagioso”.

La sensazione che si prova nel pubblicare un libro è quella di salire in orbita e di non voler scendere più. Scriverlo è meraviglioso, certo. Perdere tempo nelle passioni vere, nelle ricerche che hanno un gusto, nella cura dei particolari è un sentimento autentico e quasi inspiegabile. Questo è il vero piacere di lavorare. Ma quando si arriva finalmente alla pubblicazione, si è preda di una droga che altera l’organismo e la personalità, e che spinge ostinatamente all’assuefazione.

Vedere la propria copertina nelle vetrine del centro città annega di soddisfazione un ego già troppo compromesso. I commenti entusiasti dei compaesani fanno sentire importante. Trema la mano, quando scrive le prime dediche (io che firmo un mio libro?), mentre la voce che racconta al corrispondente della Gazzetta tutto quanto… è un fiume in piena che non s’arresta più.

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