Archive for category Cose di paese

A Volta deludono

Non mi sono mai interessato troppo al calcio di paese. Non so perché, forse perché sono un atleta scarso o semplicemente perché non l’ho mai trovato appassionante.

Stamani leggo di una cessione dei diritti di Promozione del Volta, al vicino paese di Monzambano: un vero affronto per chi crede ancora nelle questioni di campanile. A corredo dell’articolo, si citava il rientro (a questo punto a Monzambano) del patron Ferri, allontanato illo tempore tra mille polemiche.

Sapevo delle difficoltà economiche del calcio voltese, e dei continui progetti per salvarlo sempre naufragati, ma la notizia mi ha comunque spiazzato e amaramente confuso.

A Volta non serve pensare a Signori per deludersi di calcio.

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F.A.Q. elettorali

Sono terminate ieri le votazioni provinciali. Il bello dei seggi è la vita che li attraversa, le persone che passano davanti alle urne con le loro smorfie, con le loro manìe, con i loro aforismi. Spaccàti di vita zippati in due giorni, sfilate di giovani arrembanti, di signore imbellettate, di anziani ormai troppo stanchi.

Ho raccolto le sette domande più frequenti, che ogni scrutatore si sente rivolgere dai personaggi tipici.

–         Quello che appena entra, essendo sconosciuto a tutti (anche a sua moglie), dice: “serve la carta d’identità?”. No, abbiamo messo il cartello fuori con scritto che il documento è obbligatorio solo per fare uno scherzo. Cribbio, ci sei cascato!

–         Quello ultrasessantenne, che con l’andamento lento del grande elettore rassicura tutti: “Faccio a meno del documento, tanto mi conoscete già”. Massì, tranquillo… ti raggiungo in cabina e ci beviamo una birretta insieme. Gimme five!

–         Quello che prima di entrare nella cabina si gira con la scheda aperta in una mano, gli occhiali da lettura nell’altra, e urla: “Si deve segnare il nome o anche il simbolo?”. Dipende: cosa vuoi votare? Valà, lasciala bianca che poi la compiliamo noi.

–         Quello che guardando tutti gli scrutatori e mettendo la scheda nella fessura dell’urna, ma stringendola ancora in mano sussurra: “la metto qui?”. No, la porti pure a casa, magari qualche sera le vien voglia di votare per L’isola dei famosi

–         Quello che dopo aver riposto la scheda nell’urna e dopo aver ritirato la tessera elettorale, sorridendo e guardando un po’ tutti prima di lasciare il seggio, sentenzia: “siamo a posto?” Non lo so, mi dica lei… era venuto per votare o voleva anche un etto di prosciutto?

–         Quello che dopo aver compiuto tutte le operazioni, non si rassegna all’idea di andarsene e con tono supplichevole dice: “Devo firmare qualcosa?”. Se stai qui fino a lunedì pomeriggio, un paio di firme sui verbali te le facciamo fare. Hai pazienza?

–         La migliore in assoluto in quanto a frequenza, pronunciata da un elettore su due dopo aver ricevuto la scheda di voto, è: “la matita è dentro?”. Sì, è dentro. Mi raccomando, faccia un bel disegno.

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A PARER MIO – Se Risorgimento è solo l’altro nome del Vialone

Qualche mese fa è apparsa sui giornali la notizia della cancellazione del decreto, che sanciva l’annessione della provincia di Mantova allo stato italiano. Il 16 dicembre 2010 infatti, nel marasma di eliminare tutte le leggi inutili, il Ministro per la Semplificazione normativa ha depennato anche il Regio Decreto del 1866, con cui Mantova e “le province della Venezia” entravano a fare parte del Regno d’Italia. Una svista grave, passata velocemente in cavalleria tra timide battute e dominante indifferenza. Anche se la Costituzione mette al sicuro l’italianità di Mantova, sancendo che la Repubblica è “una e indivisibile“, la cittadinanza non si è affatto indignata per questo errore grossolano, limitandosi a scuotere le spalle e a passare oltre.

Non molto lontano da noi, alcuni comuni hanno scelto di non festeggiare il 17 marzo: le amministrazioni locali hanno decretato che i dipendenti comunali dovevano lavorare e che proprio non c’erano soldi per cerimonie pubbliche e manifestazioni.

La retorica della passione nazionale insomma, l’enfasi del tricolore e delle celebrazioni per festeggiare ampollosamente l’Unità, i lunghi monologhi sul Risorgimento, sembrano sentimenti e necessità solamente dettati dai media, figli unici del grande circo della comunicazione. Sono  solo i giornali e le tv a parlare di patriottismo e di senso dello stato. Sono sempre i mezzi d’informazione e di divulgazione a propinarci le canzoni e gli inni all’Italia, lei lezioni di storia e gli appelli all’unità. Ma la gente comune?

L’impressione è che i cittadini non percepiscano in maniera così forte questo amor patrio, che non avvertano appieno l’importanza di festeggiare il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Che si sentano davvero italiani solo per le vittorie della nazionale e per i successi della Ferrari, che pensino al Risorgimento solo come all’altro nome del Vialone.

Forse perché i loro problemi quotidiani sono altri e più gravi. Forse perché nelle difficoltà di tutti i giorni, non c’è molto tempo per pensare alla storia d’Italia.

O forse, più semplicemente, dopo centocinquant’anni sono ancora attuali le parole di Cavour, che vedendo fatta l’Italia si chiedeva quando sarebbero stati fatti gli italiani.

(Editoriale pubblicato su Voltapagina n. 37)

Particolare del Comune

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Equivoco in cucina

Una signora ha telefonato a mia madre per sapere come si cucinano i “ciucarì”.

Si tratta di una pianta perenne (Silene vulgaris) che cresce spontaneamente nei prati e della quale sono apprezzati soprattutto gli impieghi culinari: risotti, insalate, frittate. I suoi fiori hanno la forma di palloncino ed è suggestiva, benchè poco attendibile, l’idea che il nome derivi da Sileno, leggendario amico di Bacco dalla proverbiale pancia tonda. Più probabile l’origine dal greco “sialon” (saliva), per la vischiosità delle sue secrezioni.

Ad ogni modo… la signora ha detto che avendo ricevuto in regalo molti “ciocarì” (non “ciucarì”), voleva un consiglio sul modus cucinandi. Mia madre è partita in quarta a spiegare come si prepara un dolce a base di riso soffiato e cacao.

Aveva capito “ciocorì”. Per la gioia di tutti i palati, l’equivoco è stato presto chiarito. Ma quanto è bella questa lingua?

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Sogno infranto

“Sogno, qualcosa di buono
che mi illumini il mondo
buono come te”
(Zucchero – il volo)

Il Sogno è uno di quei personaggi mitologici che hanno fatto la storia di Volta. Io lo ricordo da sempre, da quando faceva il calzolaio nella minuscola bottega di Sassello, in quella casa dove abitava anche il Renato Balì, altro personaggio in cerca d’autore.
Iniziai a frequentare la sua bottega fin dalle elementari, quando mia madre mi mandava a portare le scarpe da risuolare. “Vai dal Sogno e digli che gli metta i tacchi nuovi. Ma non chiamarlo Sogno, che non vuole! Chiamalo Angelo”, mi diceva ogni volta. L’origine di quel soprannome rimane per me un mistero assoluto.
Sempre mia madre mi raccontò che il Sogno zoppicava perché da giovane aveva subito un incidente in moto ad un passaggio a livello, ed il treno gli aveva tranciato di netto una gamba. La sua gamba di legno (che da piccolo credevo gli servisse da supporto per piantare i chiodi nelle suole), e la sua bottega ferma agli anni ’50 dall’aspetto estremamente sinistro, mi incutevano un certo timore ogni qualvolta mi recavo da solo a ritirare le scarpe. Mi divenne amico durante la caccia al tesoro del grest, credo attorno agli otto anni, quando riservò solamente per me un paio di anfibi numero 47, oggetto dell’ansiosa ricerca: la mia fu l’unica squadra a consegnare l’articolo.
Gli anni dopo, nel periodo delle superiori, iniziò a farmi i complimenti per la qualità delle scarpe che gli portavo e non capii mai se faceva un elogio al mio stile, oppure se le sue erano solo lusinghe prettamente commerciali, per imbonirsi il cliente.
Girava per il paese con un’apecar color carta da zucchero e mi “suonava” ogni volta che mi incrociava.
Dopo il trasloco della bottega nel garage di vicolo Ortaglia e dopo la definitiva chiusura, ho perso un po’ le sue tracce. Rimarrà sempre una figura unica ed indimenticabile della mia infanzia, un personaggio uscito da un romanzo noir, col volto austero del cattivo e l’animo gentile del protagonista buono.

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Volta, Italy

Se siete tra coloro che si stanno riempiendo la bocca di tricolore, se il vostro spirito patriottico è debordato quando s’è deciso che il 17 marzo non si lavora, se improvvisamente avete scoperto che il Risorgimento non è solo l’altro nome del Vialone, allora c’è una mostra che fa per voi.

Fino al 20 marzo, presso le scuderie di Palazzo Cavriani è possibile visitare “Uomini e vicende, miti e valori”, l’esposizione di materiale, più che altro di natura postale, relativo agli accadimenti del Risorgimento Italiano che hanno coinvolto i nostri territori. Le lettere vidimate dall’ufficio postale di Volta, con il timbro dell’Impero Austriaco; le lettere con lo stesso timbro, ma con la sigla austrica abrasa dai Francesi; manifesti, disegni dell’epoca. Al piano superiore c’è anche qualche equipaggiamento bellico, ritrovato sulle colline: potrete capire la differenza tra la borraccia del fante e quella del cavaliere, la baionetta piemontese e quella austriaca e cose del genere.

Intendiamoci, nulla di metafisico. Anzi, alla lunga è una mostra che rischia di essere ripetitiva e piuttosto monotona. Però chi temeva la deriva leghista del comune, forse potrebbe ricredersi.

Un comune italiano

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Diritto d’asilo

Questo doveva essere l’articolo di A PARER MIO dell’ultimo Voltapagina, poi però mi sono auto censurato perchè a volte sono troppo polemico. Per questo blog però, decisamente meno politically correct, può andare bene lo stesso

Noi andavamo “all’asilo dalle Suore” a piedi. Davanti all’entrata non si vedevano processioni d’auto, al massimo qualche mamma con la 126 tracimante di bambini. Le giostrine del cortile non s’appoggiavano su tappeti di gomma a norma UE, ma traballavano su un solco tondo, scavato in mezzo alla ghiaia appuntita. Non c’erano gli scivoli anti barriere architettoniche: c’erano invece degli enormi tubi di cemento, che nella nostra fantasia sembravano i vagoni di un treno. Ci faceva da mangiare la Maria del Ricardo, che non aveva certo il diploma di educatrice, ma che preparava una pastasciutta sublime (molto più apprezzato dai bambini questo secondo requisito, rispetto al primo). Credo non ci fossero particolari percorsi educativi da seguire. Di certo se facevi arrabbiare, Suor Matilde ti metteva in riga alla svelta.

Da qualche tempo, quel luogo ha cambiato forma ancora una volta. L’Amministrazione, adempiendo ad una delle sue promesse più ambite, ne ha fatto un nuovo asilo nido. Le aule si sono ridotte, i bagni sono divenuti più funzionali e in quello che fu l’immenso refettorio è stata ricavata una camera per dormire.

Sarà poca cosa, ma è qualcosa. Non si tratta di una nuova struttura (per la quale erano stati preventivati 800.000 euro di spesa), ma della sistemazione di un edificio esistente. A volte risparmiare non significa per forza rinunciare. Chi sminuisce gli interventi architettonici non comprende la portata di un tale servizio. Chi delegittima la scelta di investire sul vecchio asilo ricavandone una nuova scuola, nega l’evidenza di un compromesso storico. Quello cioè di spendere poco e di avere un servizio completo, ampio, largamente sentito.

La sensazione, come spesso mi capita, è quella del processo alle intenzioni. Cosa avrebbero detto gli stessi oppositori di questa scelta, se in tempi di ristrettezza economica si fosse speso un milione di euro per un nuovo asilo nido?

Piuttosto, la lacuna dell’Amministrazione è quella di non aver spiegato con sufficiente trasparenza la scelta di affidare l’incarico alla Cooperativa Orizzonti. È dunque lecito criticare e chiedere spiegazioni per questo aspetto, ma non per la scelta inequivocabile di realizzare un asilo che non c’era più.

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La torre di Bab-led

“Poi dissero: Venite, costruiamoci una città e una torre la cui cima giunga fino al cielo;
acquistiamoci fama, affinché non siamo dispersi sulla faccia di tutta la terra”
(Genesi 11, 4)

Ma l’avete vista?

Non ho fatto neppure in tempo a pubblicare il post sulla rinuncia del Comune all’illuminazione superflua, che mi ritrovo la torre granaria perfettamente robotizzata con lunghissimi festoni a led. Il trionfo del kitsch, l’apoteosi del cattivo gusto, il tripudio del pacchiano. Ci voleva una bella fantasia per realizzare un obbrobrio simile. Penso che un’amministrazione possa rinunciare a tutto, tranne che al buongusto.

Veduta della torre di BabLed dalla finestra di casa mia

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Luci e punti di vista

Un vecchio faceva il cammino con il figlio giovinetto. Il padre e il figlio avevano un unico piccolo asinello: a turno venivano portati dall’asino ed alleviavano la fatica del percorso. Mentre il padre veniva portato e il figlio procedeva con i suoi piedi, i passanti li schernivano: “Ecco,” dicevano “un vecchietto moribondo e inutile, mentre risparmia la sua salute, fa ammalare un bel giovinetto”. Il vecchio saltò giù e fece salire al suo posto il figlio suo malgrado. La folla dei viandanti borbottò: “Ecco, un giovinetto pigro e sanissimo, mentre indulge alla sua pigrizia, ammazza il padre decrepito”. Egli, vinto dalla vergogna, costringe il padre a salire sull’asino. Così sono portati entrambi dall’unico quadrupede: il borbottìo dei passanti e l’indignazione si accresce, perché un unico piccolo animale era montato da due persone. Allora parimenti padre e figlio scendono e procedono a piedi  con l’asinello libero. Allora sì che si sente lo scherno e il riso di tutti: “Due asini, mentre risparmiano uno, non risparmiano se stessi”. Allora il padre disse: “Vedi figlio: nulla è approvato da tutti; ora ritorneremo al nostro vecchio modo di comportarci”.

(Esopo)

Quest’anno niente luminarie. Alcuni dicono che il Comune non vuole spendere soldi per qualcosa che è superfluo per definizione. Altri dicono che il Comune ha finito i soldi, e forse è vero. Altri infine, dicono che il Comune non paga più i fornitori, e per questo chi installa le luci quest’anno si è rifiutato di lavorare (questo mi sembra un po’ troppo).

Molti si lamentano comunque, perché con l’assenza di luci e scintillii “non sembra neanche Natale”. In tutti i paesi ci sono luci brillanti, palle luminose e neve colorata… e da noi? Niente.

Sarebbe stato bello ascoltare quelle stesse persone, che oggi accusano la mancata illuminazione natalizia, di fronte ad un bello sfoggio di luci incandescenti. Cosa avrebbero detto se in questo periodo di crisi economica e tagli alle sovvenzioni, Volta avesse speso svariate migliaia di euro per agghindarsi a festa accendendosi di supefluo?

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Cara Santa Lucia…

Dall’inizio di dicembre e quasi fino a Pasqua, la Gazzetta di Mantova ci propina le immancabili letterine di Santa Lucia. Un’interminabile sfilza di bambini dell’asilo, che chiedono la pace del mondo, invece dei giocattoli. Marmocchi che parlano di serenità e rispetto, anziché di Hello Kitty e X-Box. Infanti di due anni più preoccupati della salvaguardia dell’ambiente e della salvezza del pianeta, che delle caramelle.

Non ho ben capito quale sia la soddisfazione dei genitori che scrivono queste lettere angoscianti, fingendosi bimbi prodigio. E che dire poi della Gazzetta che pubblica questa mestizia per vendere dieci copie in più?

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