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PM
(da un blog, in rete)
Per me la sigla PM ha sempre avuto il significato di “Piccolo Missionario”. Almeno da quando all’elementari il parroco mi iscrisse contro la mia volontà a questa rivista per ragazzi delle Edizioni Paoline. Non che fossi obbligato a leggerla, ma mi dava sui nervi che a settembre regalassero sempre il diario Piemme. Io volevo un diario diverso, magari del Milan o della Ferrari, ma i miei genitori non me lo compravano dicendo: “ma dai, hai già quello bellissimo del Piemme…”. Probabilmente anche per questo la mia infanzia è stata difficile. Certamente per questo l’immagine della sigla PM mi ha sempre lasciato nello sconforto più totale.
Anni dopo, al lavoro, mi hanno proposto l’esame per la certificazione internazionale di PM. Stavolta significa Project Manager, e si fa sul serio. Millantano fin da subito che il 50% dei candidati non supera l’esame. Libri in inglese, qualche formula matematica, un po’ di dura teoria. Seguono mesi di studio. Non un’impresa, ma certamente un grande sforzo. Non impossibile, ma complicato. Non esageriamo, un medio esame universitario.
Il giorno dell’esame, mentre raggiungiamo la sede della prova, incrociamo un’anziana donna che porta la spesa recitando al contempo delle preghiere. Come se anche quel PM fosse davvero un tutt’uno con le Edizioni Paoline e con chi le governa.
Mentre ci incrocia recepiamo chiaramente l’invocazione: “e splenda ad essi la luce perpetua…”
Ci interroghiamo, per decidere se si tratti di una premonizione di gloriosa luce eterna o piuttosto di un segnale d’inevitabile e imminente trapasso.
Ringraziando il cielo, dunque, è andata bene.
Ruzz…oloni lessicali
palle di neve al sole
razzi incandescenti prima di scoppiare
sono giocattoli e zanzare, sabbia da ammucchiare”
(S. Bersani – Le mie parole)
Giusto perché non seguiamo le mode, a casa mia è arrivato Ruzzle. Pazzi.
Potrebbe dimettersi il Papa che non se ne accorgerebbe nessuno, siamo impegnati a giocare a Ruzzle. Mi sento idiota, ovviamente.
Per i pochi digiuni, ricordo che Ruzzle è un videogioco comunemente diffuso tramite un’app di smartphone. Gareggiando on line, bisogna riconoscere il maggior numero di parole possibili, all’interno di una scacchiera di lettere. Dicono che derivi dal comune gioco da tavolo “Il Paroliere”, ma mi sembra che nei libretti di enigmistica l’avessero inventato parecchio tempo prima. Ricordate il gioco “trova la parola”, dove bisognava cerchiare insieme le lettere che componevano un termine in italiano?
La storia dell’applicazione Ruzzle è un po’ curiosa. Nasce all’inizio del 2012, ma viene subito snobbata. A fine anno però si registra un repentino incremento di download in un piccolo villaggio nei pressi di New Orleans, dove c’è un college. Velocemente, in poche settimane, la mania degli studenti si propaga nel pianeta.
La scorsa notte ho dormito pochissimo, interrogandomi sull’utilità di un gioco come questo. È innegabile la sua funzione sociale di aggregazione, condivisione, divertimento… Ma può uno strumento del genere migliorare anche la comprensione della lingua italiana? Si può, seppur per gioco, migliorare il proprio personale vocabolario, ampliarlo, affinarlo? Ruzzle può evitare i ruzzoloni lessicali?
Sicuramente strumenti come questo possiedono un’innegabile valenza linguistica. Ingegnarsi per trovare la parola più strana o più lunga, vedere le possibili soluzioni, è certamente un miglioramento per il linguaggio limitato di molti di noi. Le stesse considerazioni però si possono fare per gli sms e le email. Se consideriamo questi strumenti “scrittura”, allora possiamo dire che scriviamo molto di più che in passato.
Ma sulla qualità nutro ancora grossi dubbi.
Ritorno alla vigna
A 65 anni, avevo ancora i brufoli”.
(G. Burns)
“Persona che nel prossimo futuro si troverà senza stipendio, senza ammortizzatori sociali e senza pensione. Persona che è stata incentivata a lasciare volontariamente il posto di lavoro, magari perché l’azienda era in crisi”.
Stando alla definizione di Wikipedia, tecnicamente Papa Ratzinger può dunque definirsi un “esodato”.
Sulle sue dimissioni, tutti parlano di grande responsabilità, perché con “un gesto di coraggio ha saputo rinunciare al proprio beneficio personale, in favore del bene della Chiesa”. Non ho dubbi sul fatto che se fosse rimasto al suo posto “avrebbe compiuto un grande sacrificio, anteponendo il bene ultimo della Chiesa al proprio interesse privato”. Insomma, era impossibile che sbagliasse. Infallibilità papale.
Razzy in pensione non giocherà certo coi nipotini. Forse però “l’umile servo nella vigna del Signore” incontrerà la sua gemella. La cosa che più ricorderò del suo pontificato è quella contadina galiziana nella vigna, che sembra davvero la gemella del Papa.
Latte alla ginocchia
(P. Cevoli)
Gli allevatori e i contadini sono una razza strana. Gente schietta, con un senso pratico e un cervello veramente “fino”. Genuini, e depositari delle cose semplici. Ma per via di attaccamento ai soldi… sono una roba brutta. Sempre lì a piangere miseria e poi girano con dei Jonh Deere che sembrano ville in Val Gardena. Diciamo che, loro malgrado, non sempre risultano simpatici.
Nei giorni scorsi, ad esempio, è emerso l’ennesimo conto da pagare per le quote latte. Robe da matti.
Un po’ di storia. Nel 1983, per paura che un’eccessiva produzione determini il crollo dei prezzi del latte, la Commissione Europea stabilisce delle quote nazionali e delle multe per gli inadempienti. Gli Scandinavi sono subito ligi e prima di mungere una vacca, telefonano al commercialista. In Italia, quasi chiunque sfora il patto e dopo dieci anni l’ammontare delle multe è di due miliardi di euro. È l’inizio della fine e l’Europa è già parzialmente cremata.
Nel 1996 giro di vite (o di vitello). Il Governo propone una specie di sanatoria: il conto del latte l’avrebbe pagato lo Stato, cioè anche i “non allevatori” (impiegati, operai, casalinghe… che in effetti il latte lo bevono), ma da quel momento in poi si sarebbe fatto sul serio e gli allevatori birichini avrebbero pagato di tasca propria. Niente da fare. Pantalone continua a fare credito a tutti: moltissimi allevatori perpetrano nello sforamento delle quote e lo stato paga il conto all’Europa.
Nei giorni scorsi la Corte dei Conti quantifica che dal 1996 al 2010 le multe ammontino ad altri due miliardi e mezzo di euro. Totale: quattro miliardi e mezzo. Soldi che gli allevatori disubbidienti avrebbero dovuto restituire alla collettività, e invece…
Ma oltre ai soldi delle multe pagate all’UE, nel tempo si susseguono sperperi burocratici per gestire ricorsi amministrativi, agenzie di riscossione, procedure di verifica e normative per le proroghe. Il latte non finisce in un caseificio, ma in un casino. È l’anarchia totale.
Nel 2009, ci pensa il Ministro dell’Agricoltura Zaia a mettere ordine, risolvendo il problema alla radice. Priva Equitalia del potere di riscossione e gli allevatori, immersi nel latte fino al collo, applaudono.
E qui che il debito diventa a lunga conservazione.
I viaggi della speranza
Non so se sia più fastidioso pensare a Corona latitante a Lisbona o a Scilipoti candidato in Calabria. Il primo che cerca di far parlare di se il più possibile prima di andare in carcere, il secondo che si augura di rientrare in Parlamento dalla porta di servizio. Si chiamano “viaggi della speranza”.
Le vicende di Corona e Scilipoti sono ormai note e disgustose, non vale certo la pena ricordarle. Nell’immaginario comune sono diventati il paradigma classico della nefandezza italica. Presunti vip dalla facile commozione (celebrale), protagonisti tv che giocano a fare le vittime del sistema, falsi personaggi in cerca d’untore.
Oltre che dalla passione per i viaggi, i due sono accomunati anche da una discreta cultura. Tra le svariate finezze e sobrietà, dicono che Corona si sia tatuato sull’addome Leonardo di Noblac, perché è il protettore dei carcerati (forse sperando di essere invulnerabile alla gabbia?). Leonardo di Noblac però è anche il protettore dei minatori, professione che molti di noi auspicherebbero con gioia per il buon Fabrizio.
Scilipoti invece “stà con gli italiani”, come scrisse a suo tempo sul suo sito, forse pensando che l’accento sulla parola “sto” potesse rafforzare l’enfasi con cui condivide le sorti del popolino e non l’ignoranza che alberga nella sua mente parlamentare.
Super Size Me
(C. Lamb, Saggi di Elia, 1823)
L’ultima volta che ho mangiato al McDonald’s è stato nel 1999. Quella volta avevo vomitato la cena e da allora: mai più cibo Mc. È una mia regola.
Ieri sera ho visto il film documentario Super Size Me, che racconta l’esperimento di un regista americano, nutritosi per un intero mese solo da McDonald’s.
Nel 2002 due ragazze citano in giudizio la catena di fast food, per aver provocato la loro obesità. Mancano però le prove di questa relazione tra cibo servito e obesità acquisita, e la causa penale si dissolve.
Il regista Spurlock decide allora di testare la questione. Ha 33 anni e prima di iniziare gli viene certificata una piena salute ed una perfetta forma fisica. Pesa 88 kg ed il suo colesterolo è di 165 mg/dl, quando generalmente la soglia critica è attorno ai 200 mg/dl.
Durante il mese dell’esperimento, Spurlock impone alcune precise regole:
- mangiare esclusivamente tre pasti al giorno da McDonald’s (colazione, pranzo e cena) per trenta giorni consecutivi;
- assaggiare almeno una volta ogni opzione dei menu;
- non acquistare nulla che non sia sul menu;
- accettare di prendere il menu Super Size (quello più grande) solo se invitato a farlo;
- effettuare solo 2500 passi al giorno, che corrispondono alla percorrenza quotidiana di un americano medio.
Vomita il secondo giorno. Ingrassa di cinque chili nella prima settimana. Attorno al ventesimo giorno avverte la tachicardia. Si sveglia di notte con l’affanno respiratorio. Secondo il medico che lo visita, “il fegato si sta trasformando in paté”, e gli viene consigliato di interrompere l’esperimento per evitare irreversibili problemi cardiaci.
Spurlock termina vivo la prova. Dopo trenta giorni è ingrassato di 11 chili, il suo colesterolo supera i 250 mg/dl. Durante l’esperimento ha anche provato improvvisi e repentini cambi di umore, oltre a disfunzioni sessuali certificate dalla sua compagna. Ha manifestato forte stanchezza, che gli rendeva difficile persino salire le scale all’interno della sua abitazione.
Spurlock, con una dieta ferrea disintossicante, impiega oltre un anno per recuperare il suo peso e per riacquistare i valori del sangue precedenti all’esperimento.
Adesso andate a festeggiare con i vostri figli da McDonald’s. Oddio, esiste anche gente che ci va quotidianamente e che non è ancora morta. È il caso di Don Gorske, un americano che dal 1972 ad oggi ha consumato oltre 23.000 Big Mac (una media fantastica, di oltre due panini al giorno). Lui è ancora vivo, ma non ha una bella cera.
Personaggi reali
(L. Ligabue – Dove fermano i treni)
La notizia che arriva da Pechino riguarda la condanna a morte di un serial killer, accusato di aver fatto a pezzi le sue vittime e di averle vendute al mercato locale come “carne di struzzo”.
Come sempre, la tragicità della vicenda è mitigata dalla lontananza siderale del suo svolgimento. Rimane infatti vero l’assurdo assunto secondo cui: più una tragedia è distante da noi, meno grave è il suo impatto. Riflessione banale e dunque mediocre, me ne rendo conto.
La notizia dell’omicida e dell’arte culinaria dei resti però, mi ha riportato alla mente due vicende italiane, molto simili e molto vicine ai nostri luoghi.
Leonarda Cianciulli, meglio nota come la saponificatrice di Correggio, bolliva i cadaveri delle proprie vittime per ricavarne sapone e con il sangue preparava gustosi pasticcini da offrire alle amiche. La famiglia Da Tos, invece, rivendeva i tranci delle vittime nella macelleria di Alleghe. Ottimizzazione nei costi di smaltimento.
Vicende angoscianti, che però suscitano morboso interesse. Questi personaggi sono perfetti per scriverci libri o costruirci narrazioni thriller. E questo infatti è ciò che è stato abbondantemente fatto.
Evidentemente non c’è nessuna morale finale, nessuna chiusura. Continueremo a leggere di notizie simili e a romanzarne gli accadimenti, compiacendoci dell’inquietudine che suscitano.
Chirurgia estesticola
In Italia siamo abituati ai lifting dei personaggi famosi. Ho visto le ultime foto di Naomi Letizia: a 22 anni sembra Patty Pravo. Ogni vip dello spettacolo, o della politica, che si rispetti deve giocoforza ricorrere al restauro coatto. È normale, è tutto l’ambiente che li spinge a farlo: si chiamano “incentivi alla ristrutturazione”.
Ma in America fanno di più, molto di più. George Clooney ha dichiarato di essersi sottoposto al lifting dei testicoli. A Hollywood, dice, lo fanno tutti. Un bell’uomo, aitante e famoso, che ricorre alla chirurgia “estesticola” per mostrare più vigoria, o per far bella figura con se stesso al bidet. Gli Americani intendono quello, quando parlano di “diritto penale”?
Facebluff
Come ogni capodanno, cerco di trattenere i conati di vomito. Non tanto per i bagordi e le gozzoviglie (ormai sempre più rari) del cenone e dei suoi strascichi, ma per gli auguri impersonali, retorici e angoscianti che inevitabilmente giungono un po’ da tutti. In questo panorama, Facebook spadroneggia alla grande, con immagini e frasucole che meriterebbero di entrare nel collezionismo più morboso. Inutile dire che scagliarsi contro il mezzo, o contro chi lo frequenta, è sbagliato in partenza. Facebook è innanzitutto quantità, immondizia, carriolate di materiale inerte e inutile. Chi ci entra lo sa bene. Mi ricorda quando da piccolo andavo con mio padre al Trovatutto di San Biagio: lui cercava materiale per la pesca, ma io sapevo che c’erano anche i giocattoli. Si chiamava Trovatutto anche per quello, perché entravi per cercare qualcosa e uscivi con tutt’altro. Facebook è così.
Non potendomi dunque lamentare per gli auguri sbrodolanti e seriali, nei giorni scorsi mi sono limitato a scovare una bufala. Da uno dei contatti mi arriva l’ennesima lamentela demagogica sui politici mangioni. Eccola.
Mi salta subito all’occhio una cacofonia di numeri. 257 voti favorevoli più 165 voti astenuti farebbero un totale di 422 senatori. Ma i senatori sono 315. Vado sul sito del Senato e nell’elenco dei Senatori, non c’è alcun Cirenga. La bufala è servita.
È sufficiente cercare su google il fantomatico disegno di legge Cirenga per capire che il bluff è già stato scovato da gente più veloce e più sveglia di me.
Queste robe non le sopporto, dunque il mio è un augurio di moralità: evitate di inoltrare appelli falsi, belli da leggere, appetibili da condividere, ma pur sempre infondati. Al giorno d’oggi basta pochissimo per verificare la fondatezza di una notizia, ma ancora meno per propagare idiozie. Un po’ più di buonsenso. E Buon 2013!
Pronto soccorso grammaticale
Quel giornalaccio della Gazzetta di Mantova, e lo dico in tono affettuoso perché seppur la reputi un quotidiano mediocre spesso la leggo, ieri ha messo in prima pagina un titolo esplosivo:
Sì: “due pronti soccorsi”. Ma è giusto scritto così? O si dice “due pronto soccorso”? Oppure “due pronto soccorsi”?
La regola professa che nomi composti da un aggettivo (es. pronto) e da un sostantivo (es. soccorso) il più delle volte formano il plurale come fossero nomi semplici, cambiando cioè solo la desinenza del secondo elemento: biancospino/biancospini; francobollo/francobolli. Ovviamente esistono molte eccezioni a questa regola: ad esempio bassifondi, mezzelune, mezzibusti… e tanti altri. Secondo questa regola dunque, dovremmo dire “i pronto soccorsi”.
I dizionari Treccani, Zingarelli e Devoto-Oli, lasciando intendere che derivi dall’accorciamento di “posto di pronto soccorso”, preferiscono dire “i pronto soccorso” perché si tratterebbe di un sintagma, cioè di una combinazione di due o più elementi linguistici dotata di un valore sintattico indipendente, e non di un’entrata lessicale autonoma.
Altri dizionari (es. Sabatini – Coletti) considerano “pronto soccorso” come entrata a sé stante, ma lo considerano esplicitamente come invariabile al plurale.
Uno studio dell’Accademia della Crusca sostiene che “l’orientamento della rete in generale, della stampa, e delle istituzioni in particolare, è la considerazione della forma come invariabile al plurale: i pronto soccorso o, come sempre appare nel sito ufficiale delMinistero della Salute, i Pronto Soccorso”.
In definitiva, pur nel mare magno delle mille opinioni e spiegazioni, mi sembrerebbe più corretta l’invariabilità e dunque al plurale “i pronto soccorso”.
Si può ammettere, perché grammaticalmente corretto, “i pronto soccorsi”. Ma certo è che “i pronti soccorsi” della nostra Gazzetta è sbagliato. Conferma ci arriva anche da Giorgio De Rienzo, linguista del Corriere della Sera, il quale dice che esistono dei “pronti soccorsi” cioè dei soccorsi tempestivi e dei “pronto soccorsi”, cioè dei reparti ospedalieri di rapido intervento.
Fantastico.