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Il punto Cardinale
Il Cardinale Ruini, durante il consiglio della Conferenza Episcopale Italiana, ha recentemente definito le priorità della Chiesa cattolica per lâagenda politica del quinquennio entrante. Non ha espresso chiare preferenze di schieramento e neppure di partito, ha âsoloâ indicato quali temi stanno a cuore alla Chiesa, manifestando unâopinione sulle issues da inserire nei programmi di governo. Di fatto, però, è intervenuto nella campagna elettorale.
Lâintervento è più che lecito. Mi meraviglia che la tradizione liberale dei radicali e il garantismo della sinistra più estrema non accettino lâingerenza clericale, tacciando lâennesimo intervento di Ruini come il tentativo di condizionare il voto. Se si accetta il principio che chiunque possa e debba manifestare unâopinione, perché mai unâistituzione come la Chiesa cattolica non dovrebbe farlo?
Il punto è un altro. O meglio altri due. Il primo riguarda lâevidente contraddizione di Ruini. Premettendo di non voler intervenire nel dibattito politico, e anzi appellandosi ad ogni platea e ad ogni attore (come chiunque ormai) per placare i toni del dibattito e della campagna elettorale, ci si aspettava da lui un coerente e logico silenzio. Se una persona non intende partecipare né essere trascinata in una disputa, cercherà innanzitutto di non entrarci.
Il secondo punto concerne il merito del pensiero espresso. Tra le altre cose, Ruini si è apertamente schierato contro le unioni di fatto, manifestando lâauspicio di un sostegno solido alla famiglia tradizionale. Si è spinto anche oltre, esprimendo la sua preoccupazione di fronte alle scelte a tutela dei pacs, promosse da alcuni consigli regionali. Se si pensa che Prodi è stato il primo candidato premier a sbilanciarsi in favore dei pacs, col beneplacito di tutto il centrosinistra (escluso lo zoccolo duro catto-ipocrita), che Lega ed An combattono da tempo battaglie in direzione opposta e che i consigli regionali citati sono tutti di amministrazioni ârosseâ, è abbastanza comprensibile a chiunque che il pensiero cardinalizio ha un invito piuttosto esplicito. A ciò va aggiunto che la citazione di questi argomenti è avvenuta a discapito di altri: non si è fatta menzione ad esempio della pace nel mondo, o della tutela dei meno abbienti.
La riflessione da fare è se davvero sono quelli indicati da Ruini gli argomenti più importanti che al giorno dâoggi la Chiesa deve affrontare.
Se anche i piccioni fanno ohh…
Di tutta la querelle di Sanremo, ho seguito poco più di dieci minuti. Per partito preso non lo guardo più da anni ormai. Così come non mi azzardo neppure a fare zapping, se so che câè nellâaria il Grande Fratello, Buona Domenica o roba simile. Proprio per una semplice e antipatica presa di posizione, per un non so che di snob, per lâimpressione di una presunta superiorità . Mi pare di abbassarmi troppo, di prendere a pugni lâetica. Non ho problemi ad ammetterlo: è un atteggiamento arrogante e altezzoso, forse anche stupido, ma è così.
Mi è capitato tuttavia di imbattermi in uno dei momenti più bassi che la televisione italiana abbia raggiunto, lâintervista a Totti. Non spenderò altre parole al proposito. Nellâarticolo che precede temporalmente questo, si evince chiaramente la mia opinione riguardo al Pupone. Che lo si paghi profumatamente per farfugliare anche a Sanremo mi sembra offensivo per chicchessia, che guardi o meno la televisione. Superospiti col supercachet, che sembrano deridere i tagli alle trasmissioni culturali. Il wrestler John Cena che parla ai bambini?
Alla radio ho poi ascoltato la canzone vincente di Povia. La somiglianza con quella dellâanno precedente è fin troppo percepibile anche allâorecchio meno allenato, anche al fan più ottuso. La stessa cantilena, inno alla banalità e allâovvietà , un insulto alla riconosciuta tradizione dei cantautori italiani.
Se dunque anche i piccioni âfanno ohhâ, cioè se è sufficiente cambiare due parole ad una canzone che ha fatto successo per vincere Sanremo, mi sembra anche inutile intavolare dibattiti sulla (presunta) bellezza di Sanremo, sullâimmutato fascino del Festival, sulla âmissioneâ della canzone italiana nel mondo. Vince una canzone definita âda Zecchino dâoroâ e perdiamo ancora tempo a disquisire nel merito del Festival. La verità è che siamo davvero alla frutta. Ma purtroppo in fondo non sembra esserci neppure il dolce.
La contraddizione dei no-global
Alle volte mi chiedo dove sia finito il popolo di Seattle. Più “in piccolo”, mi chiedo dove sia finita la sua falange italiana. Dove sono finiti i no global che manifestavano al G8 di Genova, quelli che confondevano Green Peace con la lotta alla Nike, la pace in Iraq con l’attacco alla Coca Cola. Quelli che osteggiavano, a ragione, la globalizzazione straripante delle multinazionali, ma dimenticavano lo straripamento globale dell’economia cinese.
L’impressione è che sotto l’egida di valori autentici e condivisibili (la lotta ai crimini delle multinazionali, appunto) si celi una strumentalizzazione politica. L’utilizzo di uno scudo che rimanda a valori nobili, per combattere qualsiasi battaglia. Anche la più assurda. L’esempio del movimento pacifista è paradigmatico ed emblematico. Merita una trattazione a parte, ma la sola sua citazione rende l’idea di quanto intendo sostenere.
Sergio Romano dalle pagine del Corriere asserisce che la battaglia di questo movimento no-global sui veri temi della globalizzazione sia venuta smorzandosi per l’attenuazione del sostegno ideale dei paesi in via di sviluppo. In sostanza, poiché anche a Cina, India e Brasile farebbe comodo la globalizzazione dei sistemi economici, allora anche i paladini dell’antiglobalizzazione avrebbero abbassato le loro spade. Ma io non concordo. Credo che l’affievolirsi di questa protesta risieda in ragioni più sostanziali. Credo, e mi ripeto, che il cavallo chiamato no-global fosse prima, e sia ora, solo un mezzo per percorrere le più disparate contestazioni.
Inghiottiti da una balena
“Ora bisogna sapere che il pesce cane, essendo molto vecchio
e sofferente d’asma e di palpitazioni di cuore,
era costretto a dormire a bocca aperta:
per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando in su,
poté vedere al di fuori di quell’enorme bocca spalancata
un bel pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.”
(Carlo Collodi, Le Avventure di Pinocchio)
Qualche giorno fa una balena sventurata si è ritrovata nella foce del Tamigi ed ha risalito disgraziatamente il fiume, sino a raggiungere il centro di Londra. Un imprevisto, certo.
Anche perché da Harrod’s non c’erano i saldi ed il Chelsea giocava in trasferta… Il caso dunque, e non la volontà di alcuno, ha fatto sì che il cetaceo si arenasse a pochi passi (pardon: a poche bracciate) da London Bridge.
La notizia ha fatto il giro del mondo, commovendo l’opinione pubblica di mezzo globo. Il povero animale, imprigionato nelle acque basse e sporche, ha suscitato partecipazione ed intenerimento quasi ovunque. Centinaia di persone, le abbiamo viste tutti, facevano la spola da una parte all’altra dei ponti, per “partecipare” in diretta al dramma del povero pesce. Immagini alla tv, servizi sui giornali. Nelle copertine dei tiggì sembrava la notizia più interessante, ovviamente dopo quella del ritorno al grande freddo. Non sia mai…!
Una moltitudine di mezzi e uomini ha tentato il disperato salvataggio. Barche di ogni tipo, mezzi anfibi, gru enormi. E poi sommozzatori, personale portuale e agenti di pronto intervento, polizia inclusa. Schiere di ambientalisti affiancate da gente comune raccolta in scaramantica preghiera. Un dramma collettivo, una speranza comune.
Perché tutto questo? Perché la sfortunata balena ha fatto tanto scalpore? Come mai ansia e preoccupazione ci hanno attanagliato di fronte ad un animale in difficoltà ?
Io non so spiegarmelo.
Avete idea di quanti homeless (occorre essere english fino in fondo) ci siano nella sola Londra? Avete idea di quanti siano ogni giorno quelli che si ammalano e quelli che muoiono? Quanti sono i mezzi e le persone che la società , e l’opinione pubblica, mettono a disposizione per questi “sfortunati”? à possibile, e comprensibile, che mezzo mondo trattenga il fiato per la sorte di una bestia e giri lo sguardo davanti alle innumerevoli, vere, tragedie quotidiane.
Forse si tratta solo di abitudine. Aristotele sosteneva che l’abitudine diventa nell’uomo un qualcosa di innato. Migliaia di cetacei vengono cacciati e uccisi crudelmente ogni anno, alla stregua di visoni, montoni, etc… ma lo sappiamo da sempre. E siamo abituati a vedere gente che soffre e che muore ogni giorno. Che ci si interessi o meno, altri continueranno a soffrire e morire ugualmente. Ma una balena che si arena in un fiume ci fa molta tenerezza e approviamo qualsiasi spreco per salvarla. Incrociando le dita, ovvio, affinché le cose vadano bene.
Per la cronaca, la balena è morta. Poverina.
La zucca al posto del crocifisso
Qualche settimana fa lâepisodio di Adel Smith, rappresentante di una comunità islamica in Italia, che è ricorso al tribunale de LâAquila per far togliere il crocifisso dalla scuola in cui studiano i figli, sostenendo lâipotesi di una discriminazione âistituzionalizzataâ verso le religioni diverse da quella cristiana. Dopo lâevento, arriva la sentenza del tribunale che dà ragione al signor Smith. Il preside, la scuola, il paese e lâItalia intera si svegliano, polemizzano e ognuno dice la sua… Tutto si blocca, ordinanza sospesa.
Nellâopinione pubblica arroventata per il dibattito scaturito dalle accuse di Smith, e per la pronuncia del tribunale, si individuano immediatamente due distinte linee di pensiero. Due correnti opposte, antitetiche.
La prima fa riferimento ai valori della laicità dello Stato, dellâuguaglianza religiosa e della libertà di credo. Libera Chiesa, certo. Ma in libero Stato. Forte del sostegno dei principi costituzionali (gli art.3, 7, 8 e 19 ad esempio) ritiene che il crocifisso nelle scuole âsostengaâ in qualche modo la religione cristiano cattolica, a discapito ovviamente delle altre confessioni. Se lo stato è laico, dunque separato dalla Chiesa, perché ne mostra i simboli e ne sostiene la diffusione? Perché âlegalizzaâ lâora di religione allâinterno dellâordinamento scolastico? Se si premette la pari uguaglianza delle religioni, perché mai avvantaggiarne una soltanto? Sempre secondo questa corrente di opinione pubblica, rimuovere il crocifisso equivale semplicemente ad un principio di mera giustizia: poiché la sua esposizione diventa una sorta di discriminante nei confronti delle altre religioni, di cui evidentemente non si espongono i simboli, per evitare discriminazioni è giusto non esporre neppure il crocifisso. Ed è proprio questa ratio che deve aver spinto il giudice ad agire come nei fatti sopra citati. Credo non ci siano dubbi.
La seconda parte di opinione pubblica lamenta lâattacco frontale e sfrontato del signor Adel alla religione Cattolica. Lamenta lâattacco legalizzato dellâIslam nei confronti del Cristianesimo. Lâinizio della guerra di religione. Lâassalto, con lâespediente dellâimboscata, alla Sacra (s-a-c-r-a) Romana Chiesa da parte degli infedeli: insomma, una crociata al contrario. LâIslam oggi ci toglie i simboli del nostro credo, domani ci imporrà i suoi.
Dunque la storia si ripete: dopo quasi mille anni ritornano i Guelfi e ritornano i Ghibellini.
Personalmente credo che entrambe le correnti siano in fallo. Cercherò di argomentare arricchendo il materiale della contesa con altri accadimenti. Per condurre un dibattito più completo, o almeno per farsi unâopinione più integra, è opportuno prendere atto di altri fatti, quelli magari meno roboanti e meno superficiali.
E allora si scopre che una legge del 1924, ma ancora in vigore, sancisce che âOgni istituto ha la bandiera nazionale; ogni aula l’ immagine del crocifissoâ. Che I Patti Lateranensi del 1929, che regolano i rapporti fra Chiesa e Italia, non toccano la questione. Nemmeno la revisione del Concordato del 1985 entra nel merito. Consiglio di Stato e Cassazione nel â98 aggiungono che il crocifisso â …a parte il significato per i credenti, rappresenta un simbolo della cultura cristiana come essenza universale, indipendente da una specifica confessione. Per questo la sua esposizione non contrasta con la libertà religiosa… nella sua esposizione non è ravvisabile una violazione della libertà religiosaâ. La legge può certamente essere discussa, anche cambiata. Ma serve un intervento del Parlamento. Tuttavia fin quando questo non avviene, credo debba essere rispettata.
Si scopre che il povero Mr. Smith, come dire lâequivalente anglo del âsignor Rossiâ, in realtà non è affatto il signor nessuno e nemmeno il signor qualunque. Eâ il fondatore del Partito dei Musulmani d’ Italia, che prepara lâesordio elettorale per la primavera 2004, alle amministrative di Pordenone, ovvero nella âterra occupata dalle truppe americaneâ, come dicono i suoi iscritti. Gli esperti parlano di un potenziale 5% di voti (basta molto meno per arrivare in Parlamento).
Si copre anche che mentre Forza Nuova lo insegue col manganello, inseguendo al contempo un passato italiano da dimenticare, lui va sulla prima pagina di Le Monde, scrive libri (ben 19!) e si fa intervistare. Chiama il Papa âextracomunitarioâ (definizione corretta, ma quantomeno ambigua), lo invita pubblicamente a convertirsi allâIslam e definisce il crocifisso come âil cadavere di un uomo nudo affisso su un pezzo di legno usato dai Romani per punire i peggiori criminali dell’epocaâ, aggiungendo che: ânon è sempre così piacevole vedere un cadavere in miniaturaâ.
Si scopre che tra i precetti dellâIslam câè quello di sottomettere il diritto decretato dal potere politico alla volontà di Dio. âNella cultura musulmana diffusa il diritto appare legittimato sempre e solo da Dio. Per il musulmano il diritto non sarà mai una costruzione autonomaâ. Dunque: prima Dio, poi la legge degli uomini. E câè anche il precetto di tendere a totalizzare culturalmente ogni realtà civile. Lâislamico deve tendere a âislamizzareâ la società in cui vive. Insomma per gli altri, per i non- musulmani: tolleranza zero.
Credo dunque che la prima sentenza del tribunale de LâAquila sia tuttâaltro che âgiustaâ.
– Giuridicamente non giusta: perché non garantisce i diritti costituzionali contro il sopruso della consuetudine di mettere i crocifissi nelle scuole, ma estende ad arbitrio lâinterpretazione dei diritti costituzionali, dimenticando quanto previsto in materia dalle altre fonti giuridiche già citate. In nome del vago (appositamente vago) principio costituzionale, non si possono derogare e contrastare a proprio piacimento le altre norme giuridiche.
– Moralmente non giusta: perché non aiuta una minoranza soggiogata a far valere i propri diritti, ma serve ad una minoranza organizzata e con progetti precisi a strumentalizzare lo status di vittima, al fine di perpetrare obiettivi più importanti e a più lungo termine.
– Culturalmente non giusta: perché il crocifisso non è più solo un simbolo religioso, ma anche, se non soprattutto, il simbolo della civiltà giudaico-cristiana. Eâ sbagliato, poiché impossibile, confrontare due culture e decretarne âla miglioreâ, ma è possibile farlo tra civiltà . Quella giudaico-cristiana che piaccia o no, ha prodotto più libertà , più giustizia, più benessere di ogni altra. E allora, se in omaggio ad una malintesa apertura culturale ed etica, rinunciamo ad affermare i nostri valori, anche attraverso i simboli che li rappresentano, l’ integrazione degli immigrati di altra civiltà diventa più difficile e la frammentazione della nostra società democratico-liberale rischia di trasformarsi in un fattore di conflitto e quindi di instabilità . Rinunciare ai simboli della nostra cultura (non della nostra religione) non significa integrare, ma dimenticare ciò che siamo stati e siamo.
Scrive il moderato politologo Panebianco (ancora lui, nooooooooooooo!), non la Fallaci: âA differenza della Francia (ma anche della cattolicissima Spagna), lâItalia non disporrà di alcuna arma, nei prossimi anni, per impedire la trasformazione della scuola pubblica in un bazar multireligioso, in cui lâIslam organizzato, soprattutto, entrerà in forze pretendendo visibilità , spazi, la sua parte di âbottinoâ. Allora sì che ci saranno seri problemi per la laicità dello Stato. Proprio perché forti e rappresentative, queste organizzazioni islamiste rifuggono dallâavventurismo, praticano lâentrismo, vogliono continuare a conquistare posizioni dentro la società italiana. Per diventare, entro non molti anni, anche in virtù del differenziale demografico, potenti e intoccabili lobbies.
Non è certo quello lâIslam liberale, amico dellâOccidente, che noi dovremmo incoraggiare. La pessima gestione della vicenda della scuola di Ofena da parte di una classe dirigente superficiale e malata di demagogia contribuisce a preparare un futuro di guai per questo nostro Paeseâ.
Insomma, rinunciamo ai simboli della nostra cultura e civiltà e rinunciamo a noi stessi… Contemporaneamente accettiamo (o meglio facciamo nostri, è ben diverso!) aspetti culturali a noi sconosciuti fino allâaltro ieri, in nome di una âaperturaâ al nuovo e al diverso, in nome di una globalization che stavolta ci piace. La festa di Halloween ne è lâesempio più macroscopico e catastrofico. Non lâabbiamo accettata, lâabbiamo adottata e reinventata. Ascoltiamo con attenzione i media che ci bombardano, cerchiamo con spirito curioso i negozi che impongono gli acquisti a tema mentre la mondanità ci intorta con feste ed eventi diffusi e irrinunciabili, per non perdere la magica notte. I nostri figli che proprio a scuola (alle volte il caso, eh?) disegnano le zucche, si vestono da streghe e vampiri, festeggiano quello che abbiamo detto loro di festeggiare. E contemporaneamente non sanno nemmeno cosa ricorda il 2 novembre.
Avanti così! Con la zucca al posto del crocifisso.