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Priebke, la giustizia e il suo contrappasso
Se Erich Priebke può salire liberamente su uno scooter ed attraversare il centro di Roma contromano alle sette del mattino, è probabile che sia anche in grado di affrontare le pene e gli stenti del durissimo carcere italiano. L’autorità giudiziaria, invece, impietosita dal suo stato indigente, gli aveva concesso illo tempore il benefit degli arresti domiciliari. Non doma, ed in balia di un impetuoso turbine di pietà, gli aveva concordato anche il permesso di lavoro in uno studio legale. Mi pare coerente: ammazzi centinaia di italiani? Bene, allora puoi restare in Italia ed occuparti di giustizia. In pratica come se un pedofilo scontasse gli arresti domiciliari facendo l’insegnante d’asilo.
Il furor di popolo ha gridato allo scandalo, vergognosamente indignato di fronte alla compiacenza mostrata al vecchio gerarca. Ancora una volta il marcio buonismo della giustizia italiana si è ritrovato indecentemente imbarazzato e smascherato alla prima occasione. Consentire a Priebke la libera professione equivale a riconoscerlo meritevole di una ricompensa e soprattutto ritenerlo in grado di ricoprire una pubblica utilità. Anziché condannarlo ad espiare le sue colpe ed a pagare per quanto ha combinato, gli chiediamo di contribuire alla crescita della nostra società.
Una giustizia che ha fallito due volte: la prima quando non ha saputo imporre una pena adeguata all’autore di simili crimini contro l’umanità, la seconda quando ha beffato la società italiana “riqualificando” l’uomo-Priebke.
La contraddizione del sistema si rende ancor più evidente quando il provvedimento di permesso al lavoro viene rettificato solo in seguito alle proteste popolari. Chissà… se l’opinione pubblica non fosse insorta, forse avremmo potuto trovarci un cittadino italiano costretto a rispondere in giudizio alle accuse di un legale-gerarca tedesco. A volte la legge del contrappasso può essere spietata.
La battaglia perenne tra i titani sordi
L’ennesima polemica inscenata da Rivera e dall’Osservatore Romano, con oggetto le ingerenze e le evoluzioni della Chiesa, ha il sapore vecchio della ruggine e della polvere. L’eterno conflitto tra il laicismo estremista ed il clericalismo etico ricorda quelle battaglie epiche all’arma bianca, combattute con pesanti spade e durlindane magiche, tra eroi e mostri sacri senza fine e senza tempo. È insomma un conflitto vecchio e logoro tra posizioni estreme. Statico, eterno. Un conflitto mai trasformato nella farfalla di un vero dibattito e rimasto anzi nel ristagno perenne di una crisalide sempre fine a se stessa.
Da una parte non si arriva ad accettare il fatto che la Chiesa, rappresentando il pensiero di milioni di persone, possa lecitamente arrogarsi il diritto di esprimere un parere. È malandrino il tentativo ecclesiastico di fare le leggi a proprio piacimento, influenzando biecamente l’opinione pubblica ed ingerendo nella sfera legislativa che per definizione è sinonimo di laicità. Ma non si può impedire all’istituzione-Chiesa di esprimersi e financo di sferrare attacchi od apostrofi.
Dall’altro lato della barricata si cerca di strumentalizzare ogni polemica, mandando all’indice gli “eretici” piuttosto che modernizzare il proprio pensiero. Molto più facile rivestire i panni della vittima che accogliere le critiche mosse e sollevate ormai da ogni parte della società civile.
E nel marasma di questo scontro campale ed infinito tra titani sordi, arriva l’appello di Prodi “ad abbassare i toni”. Davvero originale.
I° Maggio, quale festa dei lavoratori?
“È fatto divieto al datore di lavoro di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore“.
(Art. 8 Statuto dei lavoratori)
Ho pensato di esprimere il mio parere sull’argomento che segue perché buona parte dei frequentatori di questo blog coincide con l’orda ringhiosa dei miei colleghi.
Ho trovato sconcertante quanto accaduto lo scorso venerdì pomeriggio. Mi riferisco alla circostanza che ha visto una segretaria di direzione battere gli uffici alle 17.25 alla ricerca di firme per sostenere una lista delle elezioni comunali. Non sta né in cielo, né in terra. Che introduca la sua raccolta premettendo addirittura che il mandato arriva direttamente dalla direzione è un’aggravante piuttosto pesante. La stessa non ha saputo rispondere a chi domandava quale fosse il legame tra la lista in oggetto e la direzione, limitandosi ad addurre una fantomatica libertà di firmare o di non firmare (e ci mancherebbe!). A prescindere dalla lista e dal suo colore, che poco importano, essendo il ragionamento di principio, non si può neppure limitarsi a parlare di una debacle di stile da parte dell’azienda. Si tratta di un’ingerenza bella e buona! Un’ingerenza che mina la libertà di pensiero e che non può non condizionare il lavoratore. Vi pare normale che un datore di lavoro giri per gli uffici chiedendo ai suoi dipendenti di firmare per un candidato sindaco? Poi cosa faremo? La lista di chi ha firmato e quella di chi non ha firmato da esporre in bacheca?
Non toccate la pelle del drago
A corollario delle ultime vicende legate alla Chinatown milanese, ho cercato un passo di uno dei miei libri preferiti.
È da qualche anno che ho davvero paura dei Cinesi. Una paura seria. Una paura, la mia, che si è tramutata in ostilità ed in intolleranza.
“Sto ancora seguendo il processo di trentatré cinesi accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso. Fanno capo a Lin Jian Hua, un capomafia della fazione di Wenzhou. Quelli di Wenzhou si contendono il controllo di Milano con quelli di Wencheng. Nessuno ne sa niente, alla stampa non interessa, alle televisioni men che meno. Sono anni che lavoro sulle Società Nere, non gliene frega niente a nessuno. Nessuno sta capendo cosa succede, cosa succederà qui tra poco…”
“Che succederà?”
“Che si comprano Milano. Pagano in contanti. Le Società Nere sono direttamente connesse a settori controllati dall’Esercito del Popolo, dai militari di Pechino. Là è un boom. La Cina emerge.Soltanto quest’anno, i cinesi hanno superato gli Stati Uniti per volume di investimenti all’estero. Tra sette anni, la Cina sarà lo stato più ricco al mondo, stanno per superare il prodotto interno lordo dell’America. Dispongono di una liquidità enorme. E non la investono all’interno. Sono abituati alla povertà. Per loro non è un fattore di destabilizzazione sociale: il contrario, usano la povertà di massa come strumento di controllo. E investono fuori.”
“Cioè comprano…”
“Sì. In contanti. C’è un traffico clandestino di dollari che esorbita ogni aspettativa. Trasportano contanti insieme ai clandestini. E comprano in contanti: appartamenti, stabili interi, esercizi commerciali. Da dieci anni va vanti così, non gliene frega niente a nessuno. Chi vende è contento: i cinesi arrivano ad offrire un terzo in più del valore reale dell’immobile. Arrivano in tre: il compratore, che solitamente è un prestanome; un avvocato; un terzo che non si capisce bene chi sia. Arrivano con le valigette piene di dollari o euro. Non sono soldi falsi – è che non sono dichiarati. L’effetto è duplice. Stano reinserendo clandestinamente enormi quantità di denaro svincolato dalle tassazioni. Letteralmente: gonfiano la deflazione. Non è che a Bruxelles non lo sappiano: ma lasciano fare, non capisco perché…”
“Il core business delle Società Nere che oprano a Milano, fino a qualche anno fa, era l’emigrazione clandestina dallo Zhejiang verso l’Italia. Poi l’interesse maggiore è scivolato su un diverso focus: l’usura. È pazzesco, questi hanno un sistema creditizio abusivo, parallelo alla diaspora. Si prestano i soldi tra loro – soldi non dichiarati, senza possibilità di rivalersi sugli insolventi rivolgendosi alle autorità, perché è un sistema totalmente clandestino. Girano cifre vertiginose.”
“Lo dicevo, te lo dicevo, Guido: questi sono un tumore…”
(G. Genna – Non toccare la pelle del drago)
Difficoltà interna e rilancio dell’europeismo
Fanno sorridere le denunce di secolarizzazione del continente europeo, tacciato sempre più spesso di spiaggiarsi alla deriva di un’arida laicità senza ritorno. Prima l’appello alla riscoperta delle radici cristiane, poi il monito di Razinger a contrastare il laicismo dilagante ed imperante. Argomenti d’ampio raggio e respiro, sensati, interessanti e certamente stimolanti.
Gli stessi partiti nazionali si fanno carico di questi appelli, trasportando nel dibattito europeo questioni che in casa propria non riescono neppure ad affrontare.
A cinquant’anni dai trattati di Roma, è stato fatto molto per delineare una Nuova Europa, ma ancora troppo poco. Ce lo siamo detti più volte. Manca un’unità politica, una vera Costituzione, un autentico spirito europeista che le istituzioni, nazionali prima e transnazionali poi, dovrebbero infondere ed alimentare nelle coscienze dei cittadini. Nonostante questa zoppia, la crociata anti-secolarizzazione sembra raccogliere ampi ed accesi consensi. Come se il palcoscenico europeo servisse da secondo teatro: una platea a cui rivolgersi in seconda istanza, solo dopo aver fatto fiasco in casa propria. Il Vaticano e i partiti italiani si dimenticano costantemente dell’Europa, salvo ricorrervi al momento del bisogno. Quando non si trova il bandolo delle matasse interne, quando non si riescono a dare le risposte perché non si capiscono le domande, allora si cambia scena. Una scelta zoppa, una scelta di comodo.
L’etica del riscatto, il riscatto dell’etica
Tra gli assordanti frastuoni che la gioia immensa per un ostaggio liberato trascina inevitabilmente con sé, ed in mezzo ai dibattiti politici sulla condizione e conduzione delle guerre in medioriente, in pochi hanno sottolineato un aspetto tutt’altro che secondario della vicenda di Mastrogiacomo. Le parole di stima e riconoscenza per l’intelligence italiana e per l’attività di mediazione di Emergency hanno commosso l’opinione pubblica, mitigando un altro amaro nocciolo contenuto nella questione. È passata in sordina la notizia che per riavere il giornalista, è stato necessario liberare cinque terroristi talebani. Un do ut des, che altro non è che il pagamento di un riscatto. Mastrogiacomo è stato rapito al fine di ottenere dei prigionieri in cambio. E solo scarcerando dei prigionieri si è arrivati alla sua liberazione. Né più né meno dell’accoglimento di una richiesta, di un pagamento.
Questa “scesa a patti” con i rapitori non può non riaprire l’annoso dibattito sull’etica dei rapimenti. Lo stesso dibattito che raggiunse l’apice con il sequestro Moro negli anni di piombo. Allora tutte le forze politiche fecero fronte comune, sostenendo la necessità di non venire a patti con i rapitori, perchè l’istituzione, lo Stato, non può mai negoziare con l’anti-stato. Allora si disse che accettare ricatto e riscatto avrebbe significato autorizzare altre azioni dello stesso stampo. Moro, suo malgrado, avrebbe dovuto pagare da solo il prezzo di una scelta d’intransigenza che avrebbe giovato al futuro di tutti gli italiani. Sacrificare una vita per non doverne sacrificare molte altre. E così fu.
Di fronte alla possibilità di perdere una vita umana oppure di salvarla con un semplice atto di disposizione istituzionale, il dibattito è tutt’altro che banale e unidirezionale. Al suo interno, ogni posizione è lecita e sostenibile, proprio perché fondata su saldi principi etici, benché diversi.
Tuttavia resta da chiarire perché queste domande non vengano discusse e scorporate di fronte all’opinione pubblica. Perché trent’anni fa furono tutti concordi nel negare a Moro la possibilità di vivere, mentre oggi il dubbio sulla moralità dello scambio non è neppure paventato? Le due Simone, Torsello e Mastrogiacomo sono stati liberati solo perché si è deciso di patteggiare con i rapitori. Ma nessuno si è posto il dubbio ed anzi si è cercato di celare la verità dello scambio, puntando piuttosto i riflettori sull’esultanza per le liberazioni.
Dunque gli ostaggi, o la merce di scambio, hanno pesi e valori diversi oggi rispetto ad allora? Credo piuttosto che sia cambiata l’indole della classe politica. È molto più semplice e populista pagare per risolvere la questione, che impantanarsi in vicoli ciechi senza ritorno: almeno a livello di immagine e popolarità il tornaconto è assicurato.
D&G, tra censure e pubblicità
L’emancipatissima Spagna vieta l’ultima pubblicità di Dolce & Gabbana e anche in Italia infuria avida la polemica. I movimenti per le pari opportunità, e quelli per la difesa dei diritti della donna in generale, incalzano in una serrata denuncia.
Conveniamo tutti sul fatto che ogni forma di comunicazione pubblica, reclame in primis, debba esser regolata dal rispetto di principi diffusi. Buon costume o comune senso del pudore, per intenderci. Però censure di questo genere hanno poco senso.
Nel frattempo l’immagine del branco di modelli (si badi bene: modelli, non balordi di periferia) che attornia l’aitante top model ha fatto il giro dei telegiornali, con l’evidente plauso made D&G. Ma allora, a che gioco giochiamo?
"Dico", quel che penso
Che le coppie di fatto siano un fenomeno reale, esempio tangibile del mutamento progressivo della società, è incontrovertibile. Mutamenti sociali, nelle abitudini, nelle aggregazioni, che devono essere viste come domande che il cittadino pone a tutti coloro che regolano la vita di una comunità. È per questo che uno stato laico non può non considerare simili questioni e attivarsi per fornire delle risposte. Uno stato laico deve innanzitutto riconoscere queste tendenze crescenti e deve esprimere i suoi giudizi in base alla legislazione vigente, non ai precetti morali che vivono fuori dalla sua laicità. Altrimenti è un’atra cosa. In secondo luogo, riconosciute e giudicate queste tendenze, deve saperle fronteggiare.
Al Governo Prodi va dunque il merito di aver preso in considerazione una necessità diffusa, di essersi mosso per dare ai cittadini delle risposte di fronte ad un crescente bisogno collettivo.
Confuto tuttavia il merito di questa risposta, sempre in virtù della mia vecchia convinzione che Prodi e i suoi prodi siano obbligati a dare un colpo al cerchio ed uno alla botte: si trovino cioè costretti ad accontentare pochi, nel tentativo di non scontentare nessuno.
Non si capisce innanzitutto come si possano equiparare le coppie di fidanzati a quelle di parenti (fratelli e affini). Due fratelli che convivono hanno forse il bisogno di vedere sancito il diritto reciproco di visita all’ospedale? Non esistono già norme che tutelano la parentela in materia di successione? Occorre stabilire con nuove leggi che due fratelli conviventi hanno il diritto di subentrare vicendevolmente nei contratti d’affitto?
Tutti questi diritti, a cui si sommano svariati doveri (es. mantenimento) sono attribuiti anche alle coppie di fatto, generalmente intese (fidanzati conviventi). Ma allora cosa distingue tutto questo da un tradizionale matrimonio civile? Non stiamo parlando alla fin fine degli stessi diritti e doveri sanciti in un atto pubblico, stipulato di fronte al sindaco?
Il dubbio è che tutto il palco serva a sostenere l’introduzione sulla scena dell’istituzionalizzazione delle coppie omosessuali. Ma allora non sarebbe stato più razionale e corretto legiferare specificatamente per queste realtà? Certamente sì. Tuttavia lo scalpore e i voti contrari sarebbero stati di ben più ampie dimensioni.
Un colpo al cerchio, uno alla botte…
Ostracismo di sinistra
Se il ministro Melandri può intercedere con successo sulla redazione di Porta a Porta al fine di impedire la presenza nella trasmissione di un ospite scomodo, è chiaro che viene meno il dogma assoluto secondo il quale la pratica dell’ostracismo mediatico appartiene solo alla destra. L’azione di pilotare l’informazione o, peggio, di imbavagliare le opinioni contrarie non è catalogabile staticamente nella categoria dello spazio (politico). L’ostracismo di Zamparini, reo di aver tacciato di incompetenza il Ministro dello Sport, dimostra che l’imposizione del silenzio ed il soffocamento del dissenso seguono prima di tutto il potere e chi lo detiene.
Vespa giustifica il grave veto con il “diritto di chiunque di scegliere di non essere offeso”. Al di là del fatto che si possa confutare facilmente questa posizione di difesa preventiva, non è più importante tutelare il diritto di tutti di ascoltare tesi e antitesi in piena libertà?
Equo-solidale o coscienza da lavare sotto la doccia?
Ieri sera, dopo la solita e ripugnante partita a calcetto, ascoltavo sotto la doccia il commento di un collega a proposito del boicottaggio di industrie “sfruttatrici” da parte dei consumatori, atteggiamento molto in voga in questo periodo di battaglie ecologiche e sostenimenti solidali. Nessun biasimo al collega, che si è limitato ad osservare la sua attenzione nel discriminare alcuni e precisi prodotti di profumeria e cura del corpo. Ma una domanda mi è apparsa più che lecita: in queste battaglie che in varia misura tutti conduciamo, quanto è davvero motivato da vere scelte di principio e motivazione equo-solidale e quanto invece è dettato dal rabbonimento delle nostre coscienze? Lo facciamo perché siamo fervidamente convinti, o solo perché non ci costa nulla e ci permette di stare in pace con noi stessi.
Personalmente non ho mai condotto battaglie epocali in questo senso, limitandomi solo a non comprare dalle industrie più manifestamente coinvolte, Nike in primis. Però mi sono chiesto se questa mia propensione al consumo discriminato non sia in realtà lo stupido e palese tentativo di sentirmi in pace con la mia coscienza.