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E sulla fede, un velo di cera
In ottocentomila hanno prenotato la visita al museo delle cere di San Giovanni Rotondo. Lunghe file per vedere la maschera e le spoglie di Padre Pio, per scattare le foto, per girare un video da mostrare ai parenti, per idolatrarne la mummia. Psicosi generale che confonde superstizione a cristianità, magia a fede, miopia a buonsenso. Fondamentalismo dissennato, che in luogo delle ragioni di Cristo sembra scivolare tra i meandri della magia, del ritualismo estremo, dell’occultismo. Come se la salma di un santo valesse più del suo esempio e del suo messaggio. Medioevo, nient’altro che medioevo.
Par condicio, par Confucio
La Cina ci invade di oggetti contraffatti, di giocattoli non conformi alle norme di sicurezza, di abbigliamento scadente e alimenti dozzinali. Pomodori chimici, verdure di plastica e falsificazioni d’ogni specie. Li lasciamo invadere il nostro sistema produttivo con bancarelle improvvisate, magazzini illegali, supermercati che nascono come funghi nel bosco. Nessun problema.
Ma appena si solleva il dubbio della diossina, loro, i cinesi, bloccano le importazioni della nostra mozzarella.
Pensiamoci.
Quei signori degli anelli
Tibet, argomento molto delicato e difficile. Non tanto perché risulti malagevole ed arduo muoversi tra i complessi equilibri etici e i principi che il tema inevitabilmente tocca, quanto perché è necessaria una conoscenza di base sulla situazione storico-politico-culturale dei rapporti tra Cina e Tibet.
Semplifichiamo. L’origine della quaestio sgorga dall’invasione del Tibet da parte della Repubblica Popolare Cinese nel 1950, in barba a tutte le leggi internazionali. Dopo anni di tentativi da parte del Dalai Lama di instaurare una pacifica convivenza tra i due popoli, la pressione espansionistica della Cina determinò le prime accese ribellioni della cittadinanza tibetana, prontamente sedate nel sangue. Seguì il confino forzato del Dalai Lama in India con centomila fedelissimi al seguito, quasi tanti quanti quelli sterminati solo nell’ultimo anno di occupazione. Istituito un governo in esilio, tecnicismo del diritto internazionale che meriterebbe un approfondimento a parte, iniziò un continuo esodo dal Tibet all’India che dura fino ai giorni nostri.
I morti a causa delle persecuzioni cinesi iniziate nella metà del secolo scorso sono più di un milione. La Cina ha distrutto quasi tutto il patrimonio artistico del territorio, ha deforestato la regione e parcheggiato le sue scorie nucleari. I tibetani che non hanno lasciato il territorio sono continuamente oppressi ed emarginati, imprigionati, torturati, le donne forzatamente sterilizzate.
Tutto questo è avvenuto davanti all’impotenza di fatto delle Nazioni Unite: risoluzioni a raffica, appelli alla tutela dei diritti umani e premio Nobel al Dalai Lama non hanno minimamente scosso il governo cinese. Se la Cina siede tra i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, il controllante e il controllato finiscono per essere la stessa persona: difficile ottenere risultati.
I Giochi Olimpici dovevano essere il do ut des per ottenere il rispetto delle più elementari norme democratiche, che in Cina sono durevolmente infangate. Ora anche l’ipotesi di boicottare la sola cerimonia d’apertura sembra fantascientifica e suscita un’inspiegabile stupore. La Cina otterrà tutti i vantaggi delle Olimpiadi e non cambierà una virgola dei suoi rapporti con il Tibet. La colpa è della comunità internazionale e delle singole nazioni, che firmano risoluzioni e petizioni a mucchi, ma sottobanco strizzano l’occhio agli occhi a mandorla.
E l’operaio cinese Yang Chunlin è stato condannato a cinque anni di prigione per aver scritto una lettera pubblica intitolata “Vogliamo diritti umani, non i Giochi olimpici”.
La perfida Gravina
La vicenda dei due fratellini di Gravina sta seminando ovunque ansia e dolore.
In genere mi interesso poco di cronaca, ma è impossibile rimanere impermeabili a quanto accaduto in questi giorni. Brivido e stordimento che lasciano inebetiti tutti quanti. Immaginare due bambini che muoiono di fame, freddo e paura fa realmente gelare in sangue. In natura non ci può essere circostanza più perfida.
In un vortice d’insensata speranza, ora tutti ci auguriamo che il loro padre non c’entri nulla. Quasi questo potesse affievolire il male, attenuare l’abnorme dramma, sollevarci dall’immisurabile terrore. Ma se venisse accertato il contrario, cioè se la tragica morte fosse opera del genitore, andremmo davvero oltre la più malvagia delle fantasie.
Se cresce l’Erba
“Meglio l’erba del vicino, che il vicino di Erba”, canzonava un adagio, neanche troppo vecchio. La dice lunga su quanto sia entrata nella vita degli italiani quella drammatica vicenda d’assassinio. Media che cavalcano l’onda emotiva e propinano, per questa e per altri terribili omicidi, supposte seriali ad ogni ora del giorno. Non se ne può più, e la fila è lunga: va dal plastico di Cogne ai video su YouTube di Sollecito. Anche oggi, code di astanti assetati al Palazzo di Giustizia di Como, per la prima udienza di Olindo & Rosa (sembra il titolo di una fiction comica). Tutto uno show, in cui l’importante è partecipare e poter rivendicare a buon diritto: “Io c’ero”. Presenziare al Grande Fratello, oppure davanti alle mille telecamere di un processo per omicidio… cosa cambia?
Troppo facile e retorico scagliare il dardo contro il solito italiano medio, povero d’intelletto e avido d’inerzia, sempre più simile ad uno scarrafone lobotomizzato, che ad un essere pensante.
Partecipi pure il nostro curioso spettatore, segua le gesta degli attoruccoli di quartiere alla tv (pubblica e privata, ovviamente), sulle riviste patinate dedicate, oppure sui quotidiani-monnezza. Faccia quel che vuole, insomma. Affaracci suoi.
L’unica paura è che tutto questo caos e carosello ci distolga inavvertitamente dai veri problemi. Come italiani ne abbiamo tanti, occhio a non dimenticarcene.
Il «call center spazzatura». E la Corte dei conti condannò il governatore
Sapete quanta diossina hanno liberato ieri, nel cielo (ex) azzurro di Napoli, i 65 cassonetti di pattume bruciati nelle rivolte di piazza? Poco meno di 9 mila microgrammi. Pari a quanta ne butta fuori l’inceneritore di Marghera in 546 giorni a pieno ritmo. E quante polveri nocive si sono levate, da quei cassonetti? Quante ne espelle il termovalorizzatore di Brescia in 441 giorni. Lo dicono i dati dell’Istituto superiore di sanità basati su numeri del governo svedese. Dati ripresi anche da un ambientalista al di sopra d’ogni sospetto quale il presidente onorario di Legambiente Ermete Realacci.
Certo, lo sa benissimo anche lui che l’ideale sarebbe fare a meno degli inceneritori grazie a una virtuosa riduzione dei consumi, a una raccolta differenziata capillare, al recupero di tutto ciò che è riciclabile, all’uso di nuove tecnologie come quel «dissociatore molecolare» che Alfonso Pecoraro Scanio descrive con l’entusiasmo che Giovanni da Pian del Carpine metteva nel descrivere la residenza del Gran Khan Guyuk. Quello è il punto di arrivo. Ma intanto? Cosa fare, della esondazione di «munnezza» che sta allagando Napoli e le sue disperate periferie? Come rimuovere il bubbone di oggi così da poter approntare le cure di domani? Cosa fare di quelle 95 mila tonnellate di spazzatura che traboccano sulle strade e delle 7 milioni di fetide «ecoballe» («testate» all’inceneritore di Terni, lo hanno bloccato per mesi rivelandosi gonfie di sostanze radioattive) oggi accatastate in oscene piramidi così ingombranti da avere paralizzato l’attività perfino dell’impianto Cdr di Caivano? Il piano Bertolaso Sempre lì si torna: al piano di Guido Bertolaso. Che aveva proposto di guadagnare un anno di tempo scaricando tutto ciò che si poteva nella grande cava dismessa di argilla di Serre, in provincia di Salerno, e usare quel tempo per concludere i lavori al termovalorizzatore di Acerra e insieme avviare sul serio la raccolta differenziata così da permettere ai nuovi impianti di bruciare «ecoballe» vere.
Progetto saltato per l’ennesima ribellione di piazza e sostituito, con la benedizione dello stesso Pecoraro, con la sventurata creazione a pochi chilometri di una discarica nuova, ottenuta a costi esorbitanti abbattendo centinaia di querce secolari. Misteri ambientalisti. E adesso? C’è chi dice che non c’è scampo, piaccia o non piaccia, alla riapertura della orrenda cloaca di Pianura. Chi non vede alternative a caricare decine di treni per la Germania o la Romania. Chi suggerisce, come Walter Ganapini, già protagonista di quel «miracolo» che vide Milano risolvere l’annoso problema delle discariche e passare in quattro settimane dal 3 al 33% di raccolta differenziata, di tamponare l’emergenza usando siti dello stato soggetti a servitù militari. Ciò che è certo, è che quelle cataste di spazzatura stanno causando non solo a Napoli ma a tutto il Paese un danno di immagine inaccettabile. Che si aggiunge al danno fatale: l’inquinamento della terra, delle falde, dei pascoli che non solo, come ha ricordato Roberto Saviano, ha fatto impennare del 24% i malati di tumore nelle aree a rischio. Ma ha fatto abbattere migliaia di pecore, mucche, bufale perché il loro latte, come denuncia Realacci, «doveva essere trattato come un liquido tossico da smaltire».
Lo scaricabarile
Cosa sarà deciso? Soprattutto: chi prenderà queste decisioni? E sarà disposto a raccogliere davvero la sfida dichiarando guerra frontale alla camorra? Boh… Lo scaricabarile di questi giorni tra Antonio Bassolino e il governo, Rosa Russo Iervolino e Alfonso Pecoraro Scanio, assolutamente convinti che la colpa non sia affatto loro (o perlomeno vada spartita con tutti) e che dunque ogni richiesta di dimissioni sia pretestuosa, la dice lunga. Tutti colpevoli? Nessun colpevole. La Corte dei conti però, almeno in un caso, è convinta che un colpevole ci sia. E lo ha individuato nel governatore campano. Fu lui, infatti, nel ruolo di Commissario, a dare vita alla Pan (Protezione, ambiente e natura: sic) creata nel 2002, con un capitale di 255 mila euro poi trasferito gratuitamente alla Provincia di Napoli e all’Arpac (l’agenzia regionale di protezione ambientale), per dare un servizio informativo sull’emergenza ambientale ma rivelatasi un carrozzone clientelare. Venti mila dipendenti Non l’unico carrozzone, sia chiaro. Come ha scritto sul Corriere del Mezzogiorno Simona Brandolini, con la scusa dell’emergenza i dipendenti dei 18 consorzi di bacino sono via via aumentati fino a diventare ventimila: «Uno ogni 300 abitanti. La Lombardia produce più immondizia della Campania ma per ogni netturbino lombardo risultano esserci 25 netturbini campani ».
Di più: «Quelli che devono raccogliere la “sfraucimma” (cioè il materiale di risulta dei cantieri) sono allergici alla polvere, quelli che devono selezionare il cartone non possono sollevare più di due chili causa un mal di schiena ben certificato». Per non dire di quanti hanno denunciato il Commissariato perché «non lavorando, si sono giocati lo stipendio a tressette». Tornando al Pan, la sentenza della Corte dei conti dice che assunse senza motivo 100 lavoratori socialmente utili. In realtà, stando al bilancio della società, al 31 dicembre 2006 gli Lsu erano 180. Su un totale di 208 lavoratori. Che facevano? In 34, come abbiamo raccontato, «lavoravano » a un call center dove ricevevano mediamente una telefonata a testa alla settimana. Gli altri seguivano non meglio precisati progetti degli enti locali, in particolare della Provincia di Napoli, il cui presidente è quel Riccardo Di Palma che del commissariato per l’emergenza (dettaglio stigmatizzato della commissione parlamentare presieduta da Paolo Russo, anche per i 400 mila euro di compensi) era consulente.Risultati? L’anno scorso ha incassato 4,3 milioni di euro di fondi pubblici (insufficienti perfino a pagare gli stipendi: 5,6 milioni) chiudendo con un buco di 1,2. L’anno prima, nel 2005, ne aveva persi il doppio: 2,3. Un disastro tale che due mesi fa, quando stava per arrivare la sentenza di primo grado (in appello si vedrà: auguri) la società è stata cancellata. Meglio, è stata fusa in un’altra, l’Arpac multiservizi, controllata dall’Arpac, l’Agenzia regionale di protezione ambientale. Troppo tardi, però, per evitare la stangata dei giudici contabili. Che chiedono a Bassolino di risarcire 3,2 milioni di euro.
(Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella – Corriere della Sera, 6 gennaio 2008)
Aborti guelfi e aborti ghibellini
Non ci avevo mai pensato. L’estensione delle riflessioni valide per la pena di morte all’ambito dell’aborto apre un grossa voragine di dibattito. È riduttivo, per quanto mi riguarda, limitare le posizioni all’ennesimo scontro tra laici e cattolici.
Famiglia Cristiana perora ciecamente l’appello di Ferrara (“L’impegno contro la pena di morte non è diverso da quello contro l’aborto e l’eutanasia, perché è impegno a favore della vita. Per i cattolici non è una novità”), mentre la sinistra massimalista mette in guardia dal pericolo del totalitarismo ecclesiastico. Per una volta mi piacerebbe superare questi schemi condizionanti e arrivare a discuterne costruttivamente. Sull’aborto ho sempre faticato a prendere posizioni nette e radicali. Oggi più di prima.
Moratoria contro la pena di morte: bene, però…
L’approvazione della moratoria internazionale sulla pena di morte non è la panacea di tutti i mali. È senz’altro un grosso passo di civiltà, ma la strada è ancora lunga.
La votazione in sede Onu di ieri sancisce un invito, non vincolante, a sospendere le esecuzioni programmate ed a non intraprenderne di nuove, in attesa di ulteriori provvedimenti. Dopo decenni, l’assemblea delle Nazioni Unite è riuscita a far convergere molte opinioni ostative. Continua a sgomentare il fatto che in materia di riconoscimento dei diritti umani, gli Stati Uniti risultino assimilabili a paesi come Barbados, Singapore, Nigeria e Antigua e Barbuda. Gulp!
In ogni caso il voto positivo spiana il percorso ad un dibattito più invasivo e mirato, ma lascia aperto il vulnus di un ente sovrannazionale che “consiglia, ma non obbliga”. Meglio di niente, ovvio.
L’auspicio è che alla moratoria e a tutto l’ottimismo manifestato, faccia seguito un impianto risolutivo di eliminazione della pena di morte e che il diffuso consenso delle nazioni porti alla “conversione” dei paesi più scettici. Ci vorranno anni.
Diceva Rocco Barnabei che si sarebbe opposto alla pena di morte fin tanto che non sarebbe stata dimostrata l’infallibilità della giustizia umana. Occorrerebbe partire proprio da questo assunto. Buon Natale.
Consigli per gli acquisti: La Casta
È sempre fastidioso consigliare libri. Ma se dovessi dare un suggerimento su un saggio da regalare per Natale, dovrei giocoforza cadere nello scontato e nel prevedibile. Consiglierei quello che di cui hanno parlato tutti, quello che molti hanno comprato e che tanti hanno già letto. La Casta mi è piaciuto tantissimo. Il libro di denuncia degli sprechi e dei costi della classe politica italiana ha ormai fatto moda. Non per questo deve perdere il suo valore intrinseco. Preciso, puntuale, ben scritto. Per chi è predisposto al tema della “cosa pubblica”, è un’occasione da non perdere. La piena di denuncia che scorre tra le pagine è disarmante; la dovizia di particolari, i nomi e i cognomi rendono ogni sentenza inappellabile. L’accusa squarta la destra e la sinistra insieme, senza preconcetti o ideologie di sorta: solo il mero resoconto dei fatti. Alla fine ci esce con le ossa rotte, angosciati e sdegnati da un sistema dalle mille falle. Però cresce la consapevolezza verso un apparato cariatide, che andrebbe rinnovato ad ogni livello.
Blocco del carretto
Mi ero biecamente illuso che la protesta degli autotrasportatori potesse portare vantaggi anche al popolino inerte. O meglio, speravo che i coraggiosi camionisti che hanno bloccato l’Italia combattessero una guerra anche per noi furbetti, comodamente in pantofole al calduccio di casa, davanti alla tv e di fianco al caminetto. Utopicamente attendevo che il Governo, messo alle corde, limasse i prezzi del carburante, intervenendo come dovrebbe, sulle varie accise truffaldine che gravano sui nostri serbatoi.
Invece il regalo del taglio sulla tassa per la guerra in Abissinia, o su quella per la ricostruzione del Vajont e similia non è arrivato. Santa Lucia quest’anno è rimasta bloccata nel traffico.