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Dall’Ombra-longa al buio totale
Per la prima volta negli ultimi sette anni, non parteciperemo all’Ombralonga di Treviso. La morte di un ragazzo lo scorso anno, caduto ubriaco sui binari della stazione, ha spinto l’opinione pubblica a rifiutare la manifestazione e l’organizzazione a cancellare l’evento. L’Ombralonga non ci sarà più. Una volta si soleva scrivere nei negozi: “per colpa di qualcuno, non si fa più credito a nessuno”. Qua è un po’ la stessa cosa. Per la disgrazia consumata si è deciso di tagliare la testa al toro, depennando drasticamente la manifestazione.
Il buonsenso ci ha sempre fatto ballare, mai sballare. Siamo sempre stati responsabili di noi stessi. Ad ogni azione, lo sapevamo bene, corrispondeva una reazione. Per questo non siamo mai finiti sui binari, né ci siamo messi ubriachi al volante. Semplice razionalità, nulla di eroico. Disgrazie di questo tipo dipendono più dal comportamento delle singole vittime, che dall’uso e costume collettivo.
La manifestazione andava regolata e rivisitata, per garantire il turismo virtuoso ed innocuo (alias divertimento), non lo sballo insalubre. Andava moderata ed innovata nella qualità, non soppressa tassativamente. L’Oktober Fest insiste e persiste, senza qualità e senza particolari obiettivi di promozione di territorio e cultura. Ma i tedeschi, si sa, sono meno severi di noi (!??!).
L’etica della dissimulazione
Dopo l’Avvenire e Libero, anche l’Osservatore Romano prende posizione sull’interessante dibattito dei moralisti-scrittori. Ci mancava.
Tutti a dire che usi e costumi dei politici non inficiano la loro azione, ma tutti appassionatamente attratti dall’ultimo gossip o dalla piccante polemica di fine estate.
Nulla di male, per carità. Però diradiamo un po’ la nube dell’ipocrisia. Nell’occidente dove i capi di Stato saltano per aria più per gli scandali sessuali (vedi Clinton) che per i reati tradizionalmente intesi (furto, corruzione, concussione), l’opinione pubblica gioca un ruolo fondamentale nel decretare la salvezza o la condanna dell’uomo politico. Il giudizio morale del cittadino comune vale più del suo stesso voto. In quest’ottica è sacrosanto esprimere un parere ed anche azzardare un giudizio: libera opinione in libero stato.
Questa però non è una lotta tra Chiesa e Stato, tra laici e cattolici, tra neoguefli e neoghibellini. È una gara a chi fa più rumore, a chi urla di più, a chi sposta maggiormente l’attenzione da altri problemi.
Sfogliando il giornale di oggi leggo di UE che chiede spiegazioni sulla politica all’immigrazione, di amianto alla Scala, di elezioni politiche in Germania ed in Giappone, di inflazione che sale… Roba un po’ più seria di Boffo e Feltri. Roba su cui potrebbero pronunciarsi gli stessi interlocutori (vescovi in primis) che oggi blaterano insistentemente di filosofia morale.
Fortissimamente Volare, oltre i principi
“E volavo, volavo felice
più in alto del sole ed ancora più su,
mentre il mondo pian piano spariva lontano laggiù”
(D- Modugno – Nel blu dipinto di blu)
L’omaggio delle Frecce Tricolori, per celebrare il quarantesimo anniversario del regime di Gheddafi, è semplicemente un’idiozia. Soldi spesi per regalare uno spettacolo al generale africano, per sancire ancora di più la collaborazione tra Italia e Libia.
Invece di voltare le spalle all’antidemocrazia, di boicottare il vicino despota, noi corriamo al suo cospetto, portando alla festa di compleanno oro, incenso e mirra.
Almeno Italo Balbo, quasi un secolo fa, volava i cieli libici con mandati di conquista e di difesa del territorio.
Oggi sorridiamo e festeggiamo un dittatore, facendo finta che si tratti di un atto politically correct. Anche di fronte alle questioni di principio… voliamo oltre.
Il giorno della Civetta
Ieri la contrada della Civetta ha vinto il Palio dell’Assunta. Poca cosa per noi altri. Io però sono contento, perché alla Civetta ci sono in qualche modo affezionato.
Era il 1979, anno dell’ultima vittoria, quando i miei genitori mi portarono in gita a Siena. Da bambino capriccioso quale ero, e quale sono, mi impuntai perché mi comprassero un cappello del palio. Decisi subito che dovevo avere quello rosso e nero, con la civetta sopra. Provarono a farmi vedere altri caschetti, più colorati ed appariscenti, ma non ci fu proprio verso. La commessa del negozio si stupì. Disse a mio padre e mia madre che avevo scelto la contrada neo vincitrice e non si spiegava come avessi fatto. Casualità, è ovvio.
La Civetta da allora non vinse più e questo aneddoto del cappello gira in famiglia ogni volta che Rai 1 propone le immagini di Piazza del Campo e dei suoi cavalli.
Ieri, dopo trent’anni esatti, la contrada rosso-nera è tornata al trionfo. Gulp!
Condanna alla libertà
La vicenda di questi giorni che coinvolge i terroristi come Fioravanti, pone l’accento su uno dei più grossi dubbi relativi alla carcerazione italiana. Ha senso rimettere in libertà i condannati all’ergastolo? Ha senso emettere pene “ a vita”, quando i codici del diritto prevedono già la scappatoia dell’eventuale liberazione?
Certamente, adottando un criterio “cristiano” di giustizia, ha senso emettere una pena ed ammettere una revisione della stessa, cioè una rettifica che ribalti la sanzione disposta illo tempore. Questo però significa indebolire il potere deterrente della pena stessa: se so che esiste la possibilità di derogare anche la condanna più aspra, sarò meno incline ad evitare il crimine.
È vero che la prigione dovrebbe prevedere sempre una possibilità di rieducazione e di reinserimento. Ma allora perché ammettere il concetto di ergastolo, pietra tombale per la vita sociale del criminale? Non sarebbe più coerente condannare a cinquanta o sessant’anni di carcere?
Il dubbio rimane e si ripropone sempre più spesso.
Chilometri di strada
“…e così la mattina del giorno dopo Natale, si ritrovò seduto sul treno che portava al nord. Michael aveva la patente ma non aveva mai pensato di procurarsi un’automobile”.
(S. Larsson – Uomini che odiano le donne)
Fa effetto sapere di culture perfettamente civilizzate, dove l’auto è uno dei tanti accessori. Il libro di Larsson descrive con disarmante naturalezza gli spaccati di una Svezia evoluta, emancipata, invidiabilmente matura. Ho testato con i miei occhi la perfezione di servizi che funzionano davvero, l’incanto di un traffico inesistente, la realtà di un’ottima qualità della vita.
In Italia viviamo ancora nel mito dell’automobile da possedere: più è grossa o più è costosa, e più uno è figo. Non importa se servono i debiti per averla o se il suv nel centro storico distrugge il paese… L’importante è il macchinone.
La cultura nordica dell’efficienza, proprio non ci appartiene. Ci mancano ancora tanti chilometri da percorrere.
G8 all’Aquila, idea da rapaci
Ottima idea quella di spostare il G8 all’Aquila! L’ipotesi avanzata da Berlusconi di organizzare il meeting nella città devastata dal terremoto ha già incontrato il plauso dei vertici della provincia abruzzese e del sindaco. I riflettori puntati e la presenza dei grandi leader mondiali sarebbero indispensabili per una rapida rinascita.
Ma quanta gente può ospitare l’Aquila? Per una settimana i vigili del fuoco andranno in ferie, sostituiti da centinaia di guardie del corpo e scorte varie? Sgomberate temporaneamente le tendopoli, per metterci grandi fioriere colorate che abbelliscano l’ambiente? A spasso anche la Protezione Civile, perché per i grandi del mondo serviranno imponenti servizi di catering?
Che prezzo pagheremo per stravolgere e ripianificare di continuo l’organizzazione di questa città?
O forse un buon numero di manifestanti potrebbe distruggere quel poco che rimane dell’Aquila, favorendo di fatto la ricostruzione totale.
Libertà di disegno
La vignetta di giovedì scorso ad Annozero, relativa all’aumento delle cubature dei cimiteri per accogliere le vittime del terremoto, è costata la sospensione dalla trasmissione al disegnatore Vauro. Già in diretta, durante la carrellata delle bozze firmate dal vignettista toscano, ebbi la sensazione che fossimo di fronte al trionfo del cattivo gusto. Troppo cinismo, per un popolo di bacchettoni come il nostro. Ironia flebile, celata dietro un imbarazzante scivolone. Detto questo, e terminata la puntata, spensi il televisore guadagnandomi le agognate coperte: “questa sera ho riso poco”, mi dissi poco prima di prendere sonno.
Possiamo giudicare, entrare nel merito, criticare, rifiutare e bocciare la scelta di Vauro. Ma la cosa deve finire lì. Se partiamo dal presupposto della sacralità della libertà di espressione e dal rifiuto della censura, il gesto della sospensione appare inspiegabile, prima ancora che smisurato.
Sia il pubblico, insomma, a giudicare la qualità nella comicità di Vauro… non la censura arbitraria.
Terremoto inter nos
“Qui si chiama fatalità.
Combatti il terrore, prova a dargli faccia e nome”
(Litfiba – Terremoto)
Alle 2.50 di mercoledì scorso, l’ennesima scossa tellurica a Roma. “Richter 5.2” diranno i siti internet già nella prima mattinata. Sufficiente per abbattere la punta dell’obelisco sulla Cristoforo Colombo, quello che riuscivo a vedere dalle finestre dell’ufficio.
Alle 2.50 mi trovavo nel mio letto, a rigirarmi tra i precoci caldi dell’estate romana ed i fumi lievi di una falanghina campana, scorsa troppo abbondantemente durante l’ultima cena “da Franco ar vicoletto”. Pochi istanti per sentire il letto oscillare, muoversi, tremare. Qualche secondo per focalizzare la situazione e rendermi conto che questa volta si trattava del terremoto, non dell’ingombrante esuberanza della stanza a fianco. Nel dormiveglia, un lampo di lucidità. Mi sono detto: “se non termina entro il 3 (1, 2 e…3!), devo alzarmi e fare qualcosa”. Pochi secondi, che mi sono parsi minuti lunghissimi, e tutto si ferma. “Bene”, mi rassicuro. Giro il fianco e riprendo impassibilmente il sonno.
Pochissime volte in vita mia mi sono accorto dei terremoti, quasi mai ho avvertito pericoli di questo genere. Non so perché, ma in questi frangenti non ho nemmeno la sensazione del rischio. Ieri ho ripreso tranquillamente a dormire, ma accade anche in montagna, dove ho poca paura degli azzardi e dei pericoli incombenti e sono sempre gli altri a tirarmi indietro. Oppure col fuoco e i botti, che anzi mi attraggono. Superomismo? Non direi. Ho il terrore dei topi e degli uccelli, delle grotte e dell’acqua buia.
Paura e coraggio, panico e fermezza… poi mi chiedo quanto siamo grandi noi nel dominare queste situazioni con il nostro comportamento e quanto invece lo siano il destino, il fato, il caso, Dio, nel sormontarci, qualunque siano le nostre reazioni. Le solite domande, insomma, alle quali mai saprò dare risposta.
Dieci motivi per non lavorare a Roma
Come promesso, dopo i dieci motivi per lavorare a Roma, ecco i dieci motivi per non farlo.
1. Totti. Intellettuale di rango.
2. Totti e il culto dell’imperatore. Dovreste vederli… quando parlano del Pupone come fosse il Dio fatto uomo, sceso dal cielo nella più forte squadra dell’universo. Da “io sono la via, la verità e la vita” a “life is now”. Ecumenicamente insopportabili.
3. Può capitare che l’aeroporto da luogo di transito diventi luogo di stanziamento rurale. Ho visto accampamenti al ritiro bagagli che si confondevano con i villaggi rom della periferia. Materiali e persone d’ogni genere accatastati in un irresistibile crogiuolo di colori ed odori. Che fa? Domicilia?
4. Quelli che imbarcano sull’aereo bagagli enormi (“imbarcare sull’aereo” è già di per sé un ossimoro che esprime un disagio intrinseco). Stipano le cappelliere con valigie da profugo e borse da venditore ambulante. Poi arrivi tu con un misero portatile e lo steward, spaventosamente effeminato, sorridendo ti fa: “non c’è posto, lo tenga sotto il sedile”.
5. La metropolitana della mattina rievoca grottescamente i carri bestiame sulla via del mattatoio. Non mancano neppure i muggiti e i grugniti.
6. Le giapponesi. A mucchi di due-tremila si muovono ordinatamente in processioni senza metà. Se devi scendere dall’ascensore o dalla metro e loro devono salire, è matematico che ti farai 5-6 piani di salita o altrettante fermate di treno prima di rivedere la luce. Mata aimashou!
7. Il coatto medio ha la voce di Aldo Fabrizi, ma la profondità d’intelletto di Alvaro Vitali. Ne conseguono dialoghi che infastidiscono l’umore. Lo spirito, affranto, vorrebbe tanto poter dire: “me rimbalza”, ma proprio non ci riesce.
8. Il traffico è caotico, ma caotico al quadrato. L’abitudine ai serpentoni ininterrotti di auto ti fa entrare nella tranquillità della tua camera d’albergo, guardando attentamente a destra e sinistra: per dare la precedenza.
9. Quelli che suonano la fisarmonica nei vagoni della metropolitana. Quando sei stanco morto, entrano con un’improbabile “buonasera”, strimpellano ignobilmente venti secondi di Besame mucho e vorrebbero dei soldi?
10. Non esiste l’acqua gasata. Se chiedi una supergasatissimafrizzantissimabozzadacquatipoperier ti portano la Ferrarelle. Ma dai! (…segue rutto, inevitabilmente sommesso).