La calce del muratore


Un paio di giorni fa è apparso su La Repubblica un articolo-indagine molto interessante. Descrive personaggi molto comuni nella realtà vicina a noi. O almeno, a me è parso naturale pormi delle domande in riferimento a persone che conosco e che saluto abitualmente.
Lo so è lungo, ma non l’ho scritto io quindi… è di facile lettura.

Si drogano per abbattere la fatica. E aumentare la produttività. Tirano cocaina e ingrossano lo stipendio. Si sentono indistruttibili. Sgobbano anche quindici ore di fila in cantiere. Dall’alba fino a sera. Da lunedì a venerdì. Poi, il fine settimana, si devastano nei locali. Ancora polvere bianca, e alcool. Stavolta per sballare. E così l’orologio gira alla rovescia: in giro la notte, a letto, sfatti, di giorno. È il doping dei nuovi muratori. Una generazione avvelenata cresciuta nel Nord onnivoro e opulento, dove il cemento non dà solo da vivere.

È anche un’occasione di riscatto sociale. Cotto e mangiato il sabato sera nei privé delle discoteche del Garda. Uno su cinque, dicono fonti attendibili di medicina del lavoro, ne fa uso. Almeno tra i giovani. Sono manovali dipendenti, ma soprattutto cottimisti: più lavorano, più guadagnano. Tremila, quattromila euro il mese. Abbastanza per pagare le rate della Mercedes. Comprano la “neve” a 30 euro a dose dai marocchini del Carmine, 20 se sei cliente fisso. La scorta la fanno il sabato notte. Nella casbah del centro storico, o alla stazione. Così sono a posto per tutta la settimana. Si alzano dal letto e se la sparano dopo il caffè. Prima di andare in uno dei 15 mila cantieri che si aprono ogni anno nel Bresciano. «Questi nuovi drogati sono il frutto avvelenato della deregulation dell’edilizia – dice Ettore Brunelli, medico del lavoro, assessore verde alla Mobilità di Brescia – . La nostra è un’economia dopata che genera doping. Basta farsi un giro nei paesotti della bassa bresciana. Guardare i macchinoni. E sopra questi ragazzi muscolosi con gli occhi schizzati di fuori. Le stesse facce le vedi all’alba sui furgoncini. Sembrano indemoniati, sembra che vadano in guerra. E invece vanno a costruire case».

Cose che succedono nel quadrilatero del mattone e della coca. Bergamo, Brescia, Verona, Milano. Duecentomila muratori tra regolari e “in nero”. Centoventimila imprese censite. Più le altre, quelle fantasma che servono a riciclare il denaro della malavita siciliana e calabrese. A spremere come limoni gli schiavi apprendisti venuti dal Sud e dall’Est del mondo. Sono sempre sopra le righe questi operai dopati. È come se le loro braccia andassero a batteria. Invece vanno a coca. Movimenti in automatico, accelerati. Energia a getto continuo. Incomprensibile agli occhi dei padri delle costruzioni, i loro nonni, gente tosta venuta su a capriolo, polenta e cemento. Al massimo alzava un po’ il gomito la vecchia guardia del calcestruzzo, ché «un bicchiere di vino non ha mai ucciso nessuno». Calavano dai crinali della Valle Camonica. Prima di loro vedevi arrivare le mani; dei nipoti, invece, noti soprattutto l´innaturale sopportazione della fatica. La tempra artificiale.

Dice Francesco Cisari, segretario provinciale della Cgil: «Il settore è completamente destrutturato. Si lavora con ritmi pazzeschi. C’è un cottimismo sfrenato e così, per essere sempre pronti e in forza, i nuovi muratori usano gli stupefacenti». Aggiunge: «Una volta la piaga del settore era l’alcolismo. Ma quello fiaccava il corpo. La coca invece ti fa sentire potente. In grado di sopportare orari di lavoro massacranti». E anche di produrre danni irreversibili. «I muratori che si fanno di coca sono pericolosi per sé e per gli altri», spiega Maurizio Marinelli, direttore del centro studi sulla sicurezza pubblica, un osservatorio sulle dinamiche impazzite della società. Ma non bisogna stupirsi. «Sono la naturale conseguenza di un territorio malato com’è quello del Nord. Le imprese coi loro profitti gonfiano le banche, e dietro ci sono fenomeni inquietanti come questo», ripete il parlamentare diessino Franco Tolotti.

A Brescia sembra di essere tornati agli anni %u201890, quando dai paesini dell’hinterland, Castel Covati e Travagliato, batterie di carpentieri specializzati salutavano gli amici al bar e partivano per tirare su case in Africa e Iraq. «Lavoravano come matti tre o quattro mesi, poi tornavano e per altri quattro mesi andavano in giro a fare la bella vita, a rovinarsi di droga e alcol», racconta ancora Ettore Brunelli. Come fecero, si suppone, i cottimisti che costruirono il terzo anello dello stadio di San Siro. I Mondiali di Italia %u201890 erano alle porte. Il giorno della paga i poliziotti fecero irruzione allo stadio. Circondarono gli operai mentre venivano saldati dai caporali. Nella buste del salario, assieme ai soldi, trovarono decine di dosi di cocaina e eroina. «Di quella storia non si è più saputo nulla – ricorda Marco Di Girolamo, responsabile di Fillea per la provincia di Milano – . Ma di certo segnò una pagina oscura nel nostro settore». Sono passati sedici anni. È come se il Nord avesse fatto di colpo un passo nell´800. Allora erano i governi che pianificavano la distribuzione della cocaina ai soldati e agli operai delle fabbriche per aumentare la produzione. Oggi sono i padroncini che si fanno di roba. Autonomamente. Per girare con il portafogli gonfio. «È anche un problema di identità. La coca per i muratori è una forma di partecipazione sociale. Come dire: ci sono anch’io». Caterina Gozzoli insegna psicologia del lavoro all’università Cattolica di Brescia e di Milano. Lei parla di modelli sociali da inseguire. «Non è solo questione di soldi. È l’emarginazione cui ti costringe la società se non stai al passo. Diventa un circolo vizioso».

Nel cantiere dei muratori drogati ognuno lavora per tre. La mente si spegne come un grande interruttore. Si sentono solo i rumori dei macchinari. L’abbaio assillante del martello pneumatico. Gli affondi della ruspa che rovista nel fango. Loro, gli operai, farebbero a meno anche del panino. Dicono che della “schisceta” non ce ne sarebbe nemmeno bisogno. Hanno occhi sbarrati o mobilissimi. Le parole che s’infrangono una addosso all’altra. Un dialetto torrenziale balbettato in fretta. «Mica perdiamo tempo noi», dice in bresciano stretto toccandosi i bicipiti tatuati un uomo sulla trentina che si chiama Leo mentre impasta la malta in un cantiere di Castenedolo. Chiedergli della droga sul lavoro è un boomerang: «Queste cazzate tenetele per voi che è meglio».

I suoi colleghi di mattone li puoi incrociare la mattina all’alba. Sulle strade provinciali che tagliano le campagne di Orzinuovi e di Chiari, che seguono il corso del fiume Mella indicando la via del lavoro alle utilitarie e ai Transit con su la manovalanza. Oppure nell’immensa cintura di Milano coi suoi 55 mila operai, quasi tutti pendolari bergamaschi. E certo nella placida bassa bergamasca, che non ha niente a che vedere con le valli dove negli anni %u201880 era l’eroina era l’estrema via di fuga dal mal di montagna. «Molti incidenti sul lavoro, o per strada, oggi coinvolgono muratori che hanno assunto stupefacenti – dice Alessandro Fusini, segretario Fillea della Cgil – . Fanno in una giornata quello che uno farebbe in due giorni. Magari lo fanno male, ma lo fanno. E se sopra di loro non hanno capi, se sono lavoratori autonomi, fanno quello che vogliono. Non devono rispondere a nessuno». Nemmeno al loro corpo.

(“I muratori che tirano coca” di Paolo Berizzi, da “La Repubblica” del 20 settembre 2006)

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