Alla conquista della Tofana di Rozes


L’appuntamento è in un minuscolo paesello ai confini tra le sperdute campagne di Vicenza e Padova. Mi accoglie un insolito e foriero cartello: “Grantorto, città della speranza”. Supero il camposanto (sic) con lo spirito d’osservazione di chi sa leggere i segnali del destino. Simone, il mio compagno d’avventura (di seguito “Vicensa”), mi aspetta pochi metri più avanti, con la sua aria fiera e dimessa insieme.
La strada per raggiungere il Rifugio Dibona (2053 mt) è lunga. Arriviamo verso il tramonto, giusto in tempo per l’ottima cena. Gustosi casunziei ed una polenta col formaggio fuso che ha il peso specifico del polonio. La pagherò cara durante la notte. La serata scorre tra grappe, pianificazioni d’itinerario e discorsi strampalati. Poi arriva la notte, poco silenziosa nelle russate della nostra camerata, ma portatrice di un discreto sonno.
Ci mettiamo in marcia alle 7.45, la giornata è meravigliosa. Guardandola da sotto, la Tofana di Rozes giganteggia con i suoi possenti strapiombi ed incute un certo timore. Mentre la aggiriamo attraverso il sentiero, pensiamo che fra qualche ora la conquisteremo e la domeremo. È una sfida. Vicensa ha riempito lo zaino di cianfrusaglie inutili, nel disperato tentativo di convincere la sua debole psiche di essere equipaggiato al meglio. Pantaloni lunghi in vigogna di Vimodrone, piccozza da minatore belga con manico piombato, farmacia da campo con barrette energetiche d’ogni sorta, pastiglioni dopanti e fiale da allevamento equino. Un leggerissimo dubbio lo convince a lasciare a valle i pesantissimi ramponi in ghisa.
La partenza della ferrata Lipella è una lunga galleria buia, retaggio della I° guerra mondiale. Saliamo agili con le pile, lungo il budello buio ed umido. La roccia trasuda e gocciola in continuazione. L’atmosfera, è talmente carica di storia, che il cunicolo sembra stillare lacrime di guerra e sofferenza. Ci chiediamo come si poteva percorrere una tale galleria negli inverni più freddi di cent’anni fa, vestiti solo di giacche di lana e con scarponi decisamente poco tecnici. Doveva davvero essere un patimento atroce.
Dopo cinquecento metri di buio, il tunnel termina con una splendida vista sulla val Travenanzes. Per ora il percorso è semplice e paesaggisticamente molto bello. La strada si fa pianeggiante anche se molto esposta. Spettacolare a vedersi, semplice a farsi. Ai piedi della parete ovest, il cavo metallico inizia ad impennarsi verticalmente. Qualche buon passaggio tecnico e molta fatica ci fanno capire che non sarà una passeggiata. Vicensa, mosso a compassione, decide di far passare qualcuno degli alpinisti che abbiamo dietro. In mezzora lasciamo transitare genti d’ogni razza, censo e religione. Sembriamo i portieri della Tofana: arriva la gente, salutiamo e facciamo il gesto del “lascia passare” con la mano. Eravamo i primi e giungeremo in vetta praticamente per ultimi, diavolo d’un vicentino maledetto!
È quasi ora di pranzo quando arriviamo al bivio delle Tre Dita (2680 mt), poco più di una cengia, in cui si può scegliere se attaccare la vetta con l’ultimo pezzo di ferrata, oppure accedervi attraverso il sentiero. Non prendiamo nemmeno in considerazione la seconda ipotesi e dopo un po’ di cioccolato e uva passa (io) e barrette al polistirolo (Vicensa), riprendiamo la marcia. È il tratto più ripido, più duro e più intenso di tutta la via. Un’enorme parete bianca, a tratti bagnata, che non finisce mai. Dicono che siano 300 mt in verticale, ma a me sembra una salita di chilometri, di giorni interi. Le braccia iniziano a vacillare e anche la lucidità di manovra non è più la stessa delle ore precedenti. La tecnica consiste nel procedere senza guardare troppo in su, altrimenti ogni sforzo sarebbe mortificato e vanificato da una fine che proprio non si riesce a scorgere. Ogni piccolo camino, o tetto che si supera, desta l’illusione che sia finita. Invece ogni volta c’è un’altra parete, poi un’altra ancora. Un piccolo spavento quando sulla roccia bagnata lo scarpone perde aderenza. Rimango appeso con le mani, non faccio neppure in tempo a lasciarmi penzolare dal cordino di sicurezza, ma mi brucio gli avambracci. Sotto, un vuoto di centinaia di metri.
Sono al massimo dello sforzo, perché il tratto è il più impegnativo ed il percorso inizia a farsi lungo, e ad un certo punto… suona il cellulare. A 3000 mt. la suoneria personalizzata per Rodella (“c’è un amore in ogni borsello…”) risuona per tutta la val Travenanzes. Non posso lasciarlo squillare a vuoto. Rispondo con un rantolo di voce: “Andrea, lasciami in pace, sono attaccato via a tremila metri!”. “Hai solo un attimo, ti devo parlare del fantacalcio?”. “Nooooo, ti chiamo dopo!”. Per un istante penso che siano le allucinazioni, poi mi accorgo che è tutto assurdamente vero.
Da sotto, Vicensa appare in evidente difficoltà. Gli scatto qualche foto e poi lo vedo fare coppia con un vecchio tedesco. Simone parla, si incita da solo, ed il tedesco, che gli affonda il fiato sul collo, gli risponde sempre: “Ja”. Sembrano amici da una vita, invece si parlano solo da qualche minuto. Io continuo, non lo aspetto. Dovrei cambiare il mio ritmo di salita ed in fin dei conti siamo quasi alla fine. E poi tutto sommato, Vicensa si è trovato un buon assistente sociale.
Arrivo al termine della ferrata, all’anticima lunare (3027 mt) che mai mi sarei aspettato. Mancano ancora duecento metri per giungere alla vetta. Dopo qualche minuto vedo avanzare il vecchio tedesco, col tipico cipiglio da recluta della Luftwaffe. Gli chiedo notizie del nostro compare e in un inglese traballante mi dice che è rimasto dietro. Attendo, ma un po’ mi preoccupo. Poco dopo, dalle rocce emergono nell’ordine: la punta della piccozza che sovrasta lo zaino, il caschetto bianco, gli occhialetti blu, l’espressione tramortita, ma viva. È lui! Non parla, si trascina i piedi e ciondola la testa. Un pugile suonato, tramortito. Riesco a malapena scambiarci due parole, poi ripartiamo per la vetta.
A 3225 mt il panorama incanta. Pensi a l’immenso, a Dio, a quanto siamo piccoli ed insignificanti rispetto all’universo. Da quassù la Marmolada, il Cristallo, le Torri del Vaiolet sono tutt’uno. È difficile articolare le parole, perché la vista del paesaggio annebbia i sensi e soprattutto la ragione. Si gira la testa a trecentosessanta gradi, di continuo, nell’insensata paura di non poter vedere tutto.
Mi godo i meritati panini, mentre Vicensa riprende le sue barrette e i pastiglioni dal sacchetto della farmacia. È un pranzo questo?
La discesa al rifugio Giussani (2600 mt) è attraverso un ripido sentiero ghiaioso. Vicensa si attacca silenzioso ed esanime alle mie calcagna (mi dirà di aver letto qualche centinaio di volte la scritta “tecnica” sul retro dei miei scarponi). Mentre scendiamo, notiamo un elicottero che insistentemente scruta le pareti della Tofana di Mezzo. Giunti al rifugio, scopriremo che stava cercando un disperso. Dal Giussani al Dibona è una gara per chi arriverà primo. I piedi esplodono negli scarponi, ma il dolore non può sovrastare il desiderio di vincere anche questa ultima sfida. Mi fermo a fare una foto e Vicensa scatta biecamente di corsa. Un distacco di cento metri che fatico a recuperare. Ma poi inizia la mia fuga, e per Vicensa rimane solo la polvere che si posa sul suo secondo posto.

 

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  1. #1 by daniele at 1 settembre 2008

    complimenti per la prima foto. Molto gaia.

  2. #2 by CLAUDIA at 8 settembre 2008

    NEL LONTANO 1997 ANCHE IO HO FATTO QUELLA FERRATA, QUANDO ERO IN FORMA, CINQUE ORE DI SALITA, LA RICORDO COME UNA MIA IMPRESA….

(non verrà pubblicata)

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