“Allo stesso modo che la morale ordina: ‘Non ucciderai’, oggigiorno essa ordina: ‘Non morirai’”
(J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, 1976)
Si sta tenendo in questi giorni il processo a Marco Cappato, imputato di aiuto al suicidio per aver accompagnato dj Fabo a morire in una clinica svizzera.
La vicenda giudiziaria è un po’ paradossale perché si dondola tra due norme assurdamente contrastanti. L’articolo 580 del Codice Penale datato 1930 recita che “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni”. L’articolo 32 della Costituzione sancisce però che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” (es. vaccinazioni) e dunque esclude qualsiasi obbligo a curarsi, ammettendo piuttosto il diritto a non curarsi.
Paradossalmente, dunque, un malato può chiedere di sospendere una cura e morire di stenti, ma non può chiedere l’eutanasia.
Sull’argomento, ostico e intimo, ognuno può pensarla come vuole. Per prendere posizione occorre fare i conti con la cultura che abbiamo alle spalle, con le esperienze che viviamo, con i valori che abbiamo fatto nostri. Mi limito tuttavia a fare due considerazioni.
La prima: appare evidente ed oggettivo che questa contraddizione legislativa vada in qualche modo sanata, da una legge, da una sentenza, da un indirizzo. Qualcosa occorre fare, è questione di vita o di morte.
La seconda: la grande dignità e la grande forza d’animo che hanno spinto la fidanzata e la madre a deporre in tribunale meritano profondo rispetto. Hanno senz’altro rivissuto il dolore e lo strazio di una perdita importante, superando l’ultimo ed intimo velo della riservatezza privata. Per questo, comunque la si pensi, meritano profonda ammirazione e riflessione.