Se Cesare supera la misura


Prima che dai principii val forse meglio partire dall’esperienza. Se sto alla mia, so di non violare privacy ricordando quanto ho visto praticare sovente da parroci, da religiosi, da suore. E non soltanto in Italia ma, ad esempio in Francia e in Spagna, da economi di istituti e da rettori di santuari. E ho qualche ragione per credere che la prassi non valga solo per i Paesi latini.

Spesso, cioè, ho constatato che – dovendo regolare conti con muratori, artigiani, fornitori vari – uomini (e donne) di Chiesa non si comportano diversamente dal cittadino comune. Dunque, per quanto possibile, praticano un principio di “legittima difesa”, ricorrendo a sistemi che non sottopongano tutto l’importo a tutta la tassazione prevista. Non, intendiamoci, con metodi truffaldini, da professionisti dell’evasione, ma limitandosi alla forma più semplice: il pagamento in contanti di parte di quanto dovuto o una fatturazione inferiore al reale.

Ora: la vita spirituale di ciascuno è inviolabile, ma oso pensare che nessuno di quegli amministratori ecclesiali aggiunga le elusioni fiscali alla lista dei peccati di cui accusarsi nelle periodiche confessioni. Una supposizione, la mia, che si fonda anche sul fatto che nessun confessore mi ha mai chiesto conto del comportamento quanto a tasse, imposte, tributi.

Malcostume clericale, mancanza di senso civico in preti e suore che non solo non predicano dal pulpito l’obbligo morale di pagare le tasse sino all’ultimo cent (come depreca il “cattolico adulto” Prodi) ma cercano essi stessi di sfuggire almeno un poco alla pressione fiscale? Ma no.. semplicemente, come si diceva, un istinto di «legittima difesa». Non a caso l’aggettivo usato dal cardinal Bertone riferendosi alle imposte meritevoli di essere pagate è “giuste”. Così come di “giusti tributi” parla il Nuovo Catechismo cattolico e di “giustizia” nel carico fiscale parlano tutti i trattati di morale.

In effetti, è scontato ricordare che norma basilare del cristiano è il “dare a Cesare quel che è di Cesare”; e il Segretario di Stato non poteva non citarlo. Ma, per usare giustappunto il latino della Chiesa, est modus in rebus: che fare se Cesare supera, e di molto, il modus, cioè la misura? L’Ancien Régime dava poco ma chiedeva anche poco, la tassazione era per lo più irrisoria se confrontata a quanto sarebbe poi avvenuto. È, nella teoria, con i dottrinari illuministi e poi, nella pratica, con giacobini e girondini rivoluzionari, che lo Stato si fa “etico”, si fa “sociale”, si fa “totalitario”, assume per sé tutti i diritti e tutti i poteri, affermando che farà fronte a tutti i doveri e a tutte le necessità. Nascono e si sviluppano sino all’ipertrofia le burocrazie, si creano smisurati eserciti permanenti, si confiscano i beni con cui la Chiesa e i corpi sociali intermedi facevano fronte alte esigenze sociali, basandosi non sul torchio dell’esattore ma sulla volontarietà dell’elemosina. Cesare, insomma, pretende sempre di più, sino a casi come quello italiano dove ogni anno, sino a fine luglio, il cittadino lavora per uno Stato di fantasia inesauribile quanto a tasse e balzelli diretti e indiretti e bontà sua – lascia al suddito il reddito di cinque mesi su dodici del suo lavoro. Siamo in chiaro contrasto, dunque, con la “giustizia” chiesta dalla Chiesa, i cui moralisti – quelli moderni, non quelli antichi che si accontentavano delle “decime” giudicano, in maggioranza, equa una tassazione che, nei casi più severi, non superi un terzo del reddito. Non sorprende, dunque, che anche in gente di Chiesa scatti un istinto di autodifesa, un bisogno di equità davanti a uno Stato che sembra configurarsi non come un padre ma come un padrone e un predone.

Dopo avere detto che è “dovere del cittadino pagare le tasse” ma “secondo leggi giuste” (e tali spesso non sono, secondo il giudizio comune), il cardinal Bertone ha aggiunto che lo Stato ha il dovere “di destinare i proventi di esse ad opere giuste e all’aiuto ai più poveri e ai più deboli”. E qui c’è tutto lo spazio per un’ironia amara, tutti sapendo in quali “opere” siano dissipate somme enormi prelevate dai redditi di chi lavora. Tutti sanno, ad esempio, che stando alle impietose statistiche, buona parte delle “istituzioni sociali” statali hanno sì un fine assistenziale: ma, in massima parte, a favore delle burocrazie che le gestiscono. Tutti sanno – o almeno intuiscono – che sprechi, ruberie, privilegi, demagogie, incurie inghiottono tanta parte non del “tesoretto” casuale ma dell’immenso, sempre rinnovato “tesoro” fiscale.

Giustizia, dunque, nel prelievo ed impiego virtuoso di esso: queste le basi della prospettiva cattolica a proposito di tributi. Basi che sono ben lontane dall’essere rispettate. Per cui non sembra ingiustificato il commento di Rocco Buttiglione: “Non pagare le tasse è una colpa. Indurre i cittadini nella tentazione di non pagare, pretendendo tributi esosi ed ingiustificabili, è colpa ancora più grave”.

(Vittorio Messori, Corriere della sera, 20 agosto 2007)

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