“Tu apri il tuo armadio e scegli, non lo so, quel maglioncino azzurro infeltrito per esempio,
perché vuoi gridare al mondo che ti prendi troppo sul serio per curarti di cosa ti metti addosso,
ma quello che non sai è che quel maglioncino non è semplicemente azzurro, non è turchese, non è lapis, è effettivamente ceruleo”
(Dal film Il diavolo veste Prada)
Nella casa dei miei genitori ci sono parecchi cassetti, scatole e scatoline dal titolo “intanto appoggia qua, poi vediamo dove metterlo”.
In uno di questi anfratti, rovistando in un vecchio soprammobile di porcellana, ho trovato la carta d’identità del mio bisnonno Natale. Correva l’anno 1934 e c’era un altro mondo. Mussolini incontrava per la prima volta Hitler, in Germania andava in scena la Notte dei lunghi coltelli, in America nasceva Paperino…
Il documento è un reperto bellissimo, accurato, rigorosamente ordinato. Le generalità sono scritte a mano con la stilografica, i timbri viola risaltano sul freddo “bianco e nero”, la firma del podestà ricorda quell’aria lontana di regime e dittatura. La cosa che più mi piace è però la definizione che l’impiegato ha dato del colorito degli occhi: cerulei. Che se chiedi oggi all’anagrafe, il dipendente statale di turno neppure conosce il significato di “ceruleo”.
Non azzurro, non blu, non turchese. Il burocrate del regime ha scelto la parola “ceruleo”. In questo termine ci vedo la ricerca appassionata del particolare, il meticoloso tentativo della perfezione, il vano sforzo di dare un significato personale ad un protocollo ripetitivo e statico.