Archive for marzo 2020
M.
“Non è il morire che ci spaventa, è questo non vivere che ci esaspera”
(A. Scurati, M. Il figlio del secolo)
Solitamente non consiglio libri a nessuno.
I libri, un po’ come le cravatte, si basano esclusivamente sui gusti personali e sullo stato d’animo del momento. Non esistono libri o cravatte adatti a tutti. Non esistono libri o cravatte che possano prescindere dalle situazioni o dai momenti della vita.
Poi suggerire i libri è un po’ come raccontare i propri viaggi al ritorno: lo si fa più per un piacere personale, che per l’interesse del destinatario. E quando avviene ciò, non è più un consiglio ma una contraddizione.
Il lettore serio sa già da solo, più di chiunque altro, cosa vorrebbe leggere. Non ha bisogno di raccomandazioni, al massimo può chiedere mirate e guidate indicazioni.
Dicevo che solitamente non consiglio libri a nessuno, tuttavia suggerisco agli amanti della storia e della politica la lettura di M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati. Una narrazione storica atipica, che ripercorre il periodo 1919-1925, per spiegare e raccontare l’ascesa del Fascismo. Un romanzo senza dialoghi, che racconta il contesto storico e sociale di quegli anni, i silenzi e le omissioni dell’opinione pubblica nonché le negligenze del Parlamento che consentirono l’avvento della storia più buia. Non credo al ritorno del Fascismo, ma le analogie con i tempi attuali sono effettivamente sconcertanti.
Avevo grossi dubbi su questo libro, a causa di errori storici rilevati da Ernesto Galli Della Loggia. Devo riconoscere che per il mio livello di conoscenza, tali sviste appaiono irrilevanti. Ad esempio Scurati attribuisce erroneamente a Carducci, anziché a Pascoli, l’espressione coniata per l’Italia “la grande proletaria”, oppure sbaglia la data di una lettera di Francesco De Sanctis. Sbagli accettabili, almeno per un profano come me, semplicemente in cerca di una piacevole lettura.
Caccia all’untore
“Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire: le piace più d’attribuire i mali a una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi”
(A. Manzoni, I promessi sposi – cap. XXXII)
Alla fine è arrivato. Il decreto che vieta l’attività motoria all’aperto è stato firmato a furor di popolo, tra ali di folla ringhiante e applausi a scena aperta.
Da oggi chi volesse fare una breve corsetta all’aperto, un giro in bicicletta all’alba, una semplice camminata in solitaria tra le desolate capezzagne di campagna… non potrà più farlo. Questo provvedimento risponde essenzialmente a due sentimenti di pancia ben precisi.
Il primo impulso è quello che potremmo definire dell’”incapacità”. Poiché le autorità e le istituzioni sono incapaci di controllare nel dettaglio le attività motorie, poiché risulta impegnativo discernere le attività ammesse (ad esempio quando il soggetto è da solo) dalle attività non ammesse (ad esempio quando il soggetto è in gruppo), allora si semplifica il lavoro precludendo tout court qualsiasi movimento all’aperto. Che sarebbe come dire: è reato guidare in stato di ebbrezza, ma siccome risulta oneroso stabilire quali bevande contengono alcool (cioè vietare vino, birra e liquori), allora impediamo semplicemente che tutti bevano, proibendo financo di dissetarsi con l’acqua di pura fonte.
Si tratta evidentemente di una forzatura miope, che bene evidenzia i limiti di chi governa ed amministra questa materia.
Il secondo impulso è quello del “ricercato”. Da sempre la società necessita di trovare un colpevole per scaricare le tensioni di una situazione complicata, di una rovente matassa che da sola non si sbroglia. Il responsabile è stato talvolta il cinese, talvolta l’immigrato, talvolta il tecnocrate europeo. Oggi i colpevoli sonno i runner, i biker, i camminatori seriali. Non importa cosa fanno e dove lo fanno. Importa maggiormente impedire che lo facciano, perché il divieto “sicuramente male non fa”. La gente recita a memoria l’orazione “#iorestoacasa”, come una vecchia e sorda litania, come il deferente pappagallo di Portobello, senza chiedersi il significato della questione, senza applicare il buonsenso nel discriminare cosa è bene da cosa è male. Lo slogan è semplice, perché complicarlo e domandarsi cosa significhi davvero? Resta a casa! Puoi essere un cardiopatico bisognoso di passeggiare da solo nel bosco, ma non importa. Resta a casa! Se non lo fai devi sentirti un assassino.
La ricerca sistematica del colpevole, anche per il terreno pestilenziale su cui si svolge la battuta venatoria, ricorda la caccia agli untori di manzoniana memoria.
E nel contorno di questo illogico marasma, per migliorare la respirazione di tutti restano aperte molte fabbriche, parecchi uffici e tutti i tabaccai.
Lo staffolo della Colombara
Posted by Giullare in Cose di paese on 19 marzo 2020
“Il viandante che, percorrendo la zona, avesse osservato questi suoi visitatori,
si sarebbe sentito in diretta comunicazione con regioni ignote all’uomo”
(T. Hardy, La brughiera)
Recentemente è stata ristrutturata la chiesetta che segna la fine di Viale Risorgimento e l’inizio della Strada Volta Valeggio. Si tratta di uno dei tanti staffoli, che segnano le principali direttrici d’entrata al nostro paese.
Gli staffoli (dal longobardo “staffil” o “staffa“) erano piccole ed elementari costruzioni che fungevano da palo di confine, o da segnale d’incrocio di strade. Col tempo vennero sostituite da edicole votive, tempietti o piccole chiesette. Nelle costruzioni più complesse, per viandanti e cavalieri era consentito fare sosta durante il viaggio. Talvolta era possibile sostituire il cavallo, effettuando il cambio della staffa.
La chiesetta in questione risale alla seconda metà dell’800. In una vecchia mappa del territorio voltese è chiamata Cappella Fojada ed è collocata nella località Colombara. Non è dedicata ad alcun santo in particolare e contiene un’unica e generica iscrizione: “Ave Maria”.
Le poche informazioni su questo staffolo sono raccolte nel libro di Romana Franzini “Volta Mantovana. Storia, arte, natura e tradizione”.
L’inattesa occasione dell’ozio
Posted by Giullare in Cose di paese on 14 marzo 2020
“È impossibile godere la pigrizia fino in fondo se non si ha parecchio lavoro da compiere.
Non è affatto divertente non far nulla quando non si ha nulla da fare.
Perdere il tempo diventa una mera occupazione, allora, e un’occupazione tra le più affaticanti.
L’ozio, come i baci, per esser dolce deve essere rubato”
(I. A. Gončarov, Oblomov)
È unanime il velato sentimento di costrizione, di limitazione della libertà personale, di obbligo agli arresti domiciliari. L’imposizione di rimanere a casa sine die, incalzantemente sollecitata dai decreti del CoronaVirus, ha sconvolto e terrorizzato le vite di molte persone. Più o meno apertamente si percepisce il panico di sprofondare nella noia, nella letale indolenza, nella pigrizia e nell’irrimediabile apatia.
E allora piovono copiosamente i consigli per trascorrere il tempo. Paradossalmente chi non sa come arrivare a fine giornata suggerisce agli altri come occupare le ore tra le mura domestiche (al netto di uxoricidi e torture corporali).
Sì, si piò leggere, guardare la tv, dormire, cucinare, dedicarsi al bricolage e agli hobby di una vita… La verità è che occorre essere soprattutto predisposti ad affrontare serenamente il duello col tempo che passa, o che non passa mai. È più che altro una propensione dell’animo.
Per quel che mi riguarda ho riscoperto la passione per la geografia spiccia dei nostri territori rurali. Se la giornata e la condizione fisica lo permettono, in solitaria mi spingo a camminare tra le bellissime colline. Carrarecce, lunghi filari di viti, fossi presidiati da platani o vasti campi delimitati da gelsi antichi. Il piacere è tutto nel percorrere queste cavedagne (dal latino capitianea, striscia all’estremità di un campo), studiando e realizzando impensati percorsi. Ho “ri-scoperto”, dicevo, luoghi che già conoscevo, ma che avevo perso di vista. Nell’adolescenza adoravo perdermi nella campagna in bicicletta, in Vespa, oppure nelle brevi sessioni di corsa. Ora vedo questi spazi da una prospettiva diversa, più contemplatrice e rilassata.
Un’occasione per far fruttare questa inaspettata opportunità dell’ozio. Nella concezione antica l’otium, cioè la cura di se stessi, si opponeva al negotium, ossia ai doveri e agli affari commerciali. Orazio considerava addirittura l’ozio come l’unica vera strada per arrivare alla felicità.