Archive for marzo 2017
Passaggio in India
“Come può infatti un solo essere umano soffrire di tutta la tristezza in cui si imbatte sulla faccia della terra, della pena che affligge non soltanto gli uomini, ma gli animali e le piante, e forse le pietre?
L’anima si stanca subito, e nel timore di perdere quel poco che capisce, si ritrae verso i principi permanenti che l’abitudine o il caso hanno dettata, e là soffre”
(E.M. Forster, Passaggio in India – cap. XXVI)
Rappresentare l’esperienza di un viaggio in India non è facile. Si parte carichi di aspettative, con l’illusione di ritornare grondanti di parole da scrivere e di esperienze da raccontare. Invece non è così, perché l’India lascia senza parole, svuota le anime e allo stesso tempo le riempie. È una cosa che non si può sintetizzare, connotare, imbrigliare in schemi fissi o frasi precotte. L’India è tutto e il contrario di tutto, e fatico davvero a rappresentare quel che ho visto, sentito, pensato. Diffidate dalle frasi fatte: io in India non ho ritrovato me stesso, anche perché non mi sono mai cercato. In India non ho recuperato lo spirito e nemmeno l’anima. Non ho lasciato là alcuna parte di me e non sono tornato diverso, rispetto a quando sono partito.
Però la trovo intimamente meravigliosa, per quel che sa trasmettere, infondere, suggerire.
Abbiamo visto e vissuto moltissimi momenti particolari ed esperienze uniche, che rimarranno giocoforza nel mio cuore.
Delhi, con i suoi sedici milioni di abitanti. Definirla “caos” è certamente riduttivo. Dapprima il suo minareto Qutb, la città vecchia, poi la Moschea del venerdì, il Forte Rosso, il mercato dei ladri e la tomba di Gandhi. Ma anche la Delhi Nuova, il quartiere britannico, il Parlamento, l’enorme tempio Sikh con i suoi meandri da percorrere rigorosamente scalzi, la mastodontica tomba di Humayun e il tempio di fior di loto.
La citta sacra di Varanasi, in barca sulle rive del Gange di fronte alla ritualità disarmante delle abluzioni e al toccante spettacolo delle cremazioni. Comunque la si pensi, la spiritualità di questa gente fa accapponare la pelle. Altro che messe di Natale e Pasqua. Girare tra i vicoli della città vecchia ed a bordo del risciò a pedali rimarrà una delle esperienze più scioccanti della mia vita. Nel bene e nel male.
Il complesso di templi di Khajuraho, con i celebri bassorilievi erotici, ed anche il piccolo villaggio rurale, il massaggio ayurvedico.
Orchha, con l’imponente palazzo dell’Imperatore ed il mercato locale. Gli occhi verdi di una fanciulla che potrebbe fare la modella e invece vende collanine dozzinali.
Agra, ovvero il Forte rosso, la tomba di Itimad, la città abbandonata di Fatehpur Sikri e soprattutto l’affascinate Taj Mahal. Luoghi mistici, solenni, ammalianti. Il pittoresco spettacolo teatrale con gli attori di Bollywood.
Jaipur, con la salita al bellissimo Forte Amber, a bordo di svogliati elefanti, ed il Palazzo Reale. Poi ancora in risciò per la città vecchia, il Palazzo dei Venti ed il bizzarro Tempio delle Scimmie.
Ovunque miseria e povertà, indici di un paese fortemente contradditorio che lancia satelliti su Marte e condanna i propri figli a morire nell’immondizia. Ringrazio Massimo che ha reso possibile questo strepitoso viaggio.
Voglio condensare questo passaggio in India con alcune foto, che ben rappresentano le emozioni viste, provate, meditate. L’India è molto altro, ovviamente.
Ad Orchha il bimbo di un mendicante ci chiede la coca cola che abbiamo in mano. È incredibile: gli regaliamo la bottiglia aperta e basta qualche goccio di seconda mano per donargli un magnifico sorriso. Una povertà assoluta e struggente, che fa sentire piccoli.
Nella fatata sacralità della Moschea del venerdì, questa donna posa per la foto del marito. Mi metto di lato e fotografo a mia volta di nascosto. Lei gira gli occhi verso di me, in uno sguardo che sussurra molte parole. È l’India dei fondamentalismi, delle contraddizioni e dell’imprevedibilità.
Ad Agra un anziano passeggia con un neonato, mendicando. Lo sguardo sofferente del vecchio, di fronte all’occhiata incredula e sprovveduta del piccolo. Passato e futuro, rassegnazione e curiosità.
A Delhi due bimbi si mettono in posa, vogliono essere fotografati. Non per soldi, ma per la semplice curiosità di vedere da vicino uno straniero tanto diverso da loro. Altri mi chiederanno di posare in foto con loro. La guida mi spiega che è il loro modo di “scambiare la cultura”, entrare gli uni nelle foto degli altri. Ed io, di fronte ad un pensiero tanto aperto, smarrisco ogni pregiudizio.
La sacralità del fiume Gange è tutta negli occhi di questi santoni. Misurati, tranquilli, sereni. Sembrano aver trovato il segreto della vita. Non hanno nulla, ma sembrano avere tutto.
Nel villaggio rurale vicino a Khajuraho, rubo uno scatto ad un gruppo di bambini. Il piccolo capobanda allerta i compagni del “pericolo”. Bambini già adulti che combattono contro vite durissime.
Osteria tour 3
Posted by Giullare in Senza Categoria on 2 marzo 2017
“Una gamba qua, una gamba là, gonfi di vino
quattro pensionati mezzi avvelenati al tavolino.
Li troverai là, col tempo che fa, estate e inverno
a stratracannare a stramaledire le donne, il tempo ed il governo”
(F. De André, La città vecchia)
La terza edizione dell’Osteria Tour ha ripagato abbondantemente le attese. Solitamente repetita stufant, ma in questo caso la serata è stata davvero magnifica. Come sempre, annoto qualche pensiero confuso a fianco di ogni tappa. Non nutro l’illusione di essere capito, ma i miei compagni di viaggio potranno soavemente ricordare l’epica serata con un sorriso di orgoglio. Per ogni stazione mi è venuta in mente una canzone. A volte per assonanza, a volte per sensazione emotiva, a volte senza un reale motivo apparente.
Le Petarine. Inizio lento e piacevole, tra prime chiacchiere e buoni propositi. Si spazia tra il Valpolicella Superiore “Armani” ed il Lugana dell’omonima cantina. Il più bello e tipico degli ambienti, turbinosamente indietro nel tempo. La città vecchia, Fabrizio De Andrè.
Il gatto e la volpe. Discesa vertiginosa verso due bottiglie di franciacorta “Vigna di confine”, ma siamo all’inizio… ci sta. Siamo a nostro agio, con ottimo pecorino sardo e marmellata ai fichi dello zio della Silvia. Nelle orecchie scivola piacevole la voce di Nada. Amore disperato, Nada.
Il duomo. Stipati al banco, veloci come le lepri. Una corvina in purezza, apprezzabile. Qui riaffiorano i ricordi delle trasferte a Roma e financo l’oste appare simpatico. Vacanze romane, Matia Bazar.
Il carrarmato. Carmenere veronese, che l’oste annuncia con orgoglio e squilli di tromba. La fiducia è massima. Forse il vino più buono della serata. Poi il cantiniere, che ricorda vagamente nello sguardo il collega Angelone, ammorba gli astanti con un simposio sulla fenomenologia dei polifenoli. Angelo, Francesco Renga.
Monte Baldo. Sgranocchiamo un grissino con lo speck e l’origano, che a questo punto della marcia viene accolto come il miracolo dei pani e dei pesci. La celebre locandiera Arisa si fa schietta e confessa che col Nerello Firriato sabbia dell’Etna non sbagliamo di certo. Sincerità, Arisa.
Bugiardo. Sulla strada, rapidi come i ladri, ma ormai eleganti come gli opossum. Incrociamo persino colleghi a zonzo che non si capacitano del nostro entusiasmo. Sono bugiarda, Caterina Caselli.
La Mandorla. Classico finale, scende il sipario. Qualcuno rispetta la tradizione del bicchierino di mandorla, qualcuno azzarda la birra della staffa, qualcun altro preferisce appendere il calice al chiodo. Non gioco più, Mina.
So che la serata è continuata oltre, peregrinando tra serrande abbassate e bar del centro. Instancabili. Buonanotte, fiorellini.