Archive for gennaio 2011
Immaturi, noi che guardiamo indietro
Potranno scegliere imbarchi diversi, saranno sempre due marinai.”
(F. De Gregori – Compagni di viaggio)
Oggi sono uscite le materie d’esame e proprio l’altra sera ho visto “Immaturi”, film di Paolo Genovese che racconta di un gruppo di quarantenni richiamato a fare la maturità. Per un errore, l’esame tenuto vent’anni prima viene annullato. Gli amici, ormai impegnati a vivere altre vite, si ritrovano dunque a studiare insieme, a raccontarsi, a riviversi con occhi nuovi. Si ride un po’ con Kessisoglu e Ricky Memphis, ma la pellicola è tutt’altro che pregiata, “poco più di un cinepanettone” ha sentenziato la Lucy.
Però le vicende, che si snocciolano tra ex liceali romani, portano inevitabilmente a ricordare il periodo delle superiori.
Insomma il film è una mezza sciocchezza, ma ha il merito di far ripensare ai vecchi compagni, alle avventure vissute insieme, al significato che ciascuno di loro ha avuto nella nostra vita. Ancora una volta mi sono girato indietro a guardare quel bellissimo periodo, non con la solita malinconia, ma semplicemente con un sorriso.
P.S. So benissimo che la citazione da Compagni di scuola di Venditti sarebbe stata più appropriata, ma non mi sentirete mai citare Venditti.
Controfigura democratica
Con un Premier occupato a non finire in carcere, con una maggioranza indaffarata nella macchina del fumo e un Parlamento inchiodato al palo, Bersani organizza una serrata opposizione.
Non smaschera i ciarlatani, non scredita gli imbonitori, non aiuta la magistratura. Non propone nemmeno un’alternativa reale, non cerca punti comuni per alleanze strategiche, non spiega perché con lui dovrebbe essere meglio. Non guida neppure l’affondo finale, non chiede autorevolmente il conto.
La cosa più brillante che riesce a fare è annunciare la raccolta di dieci milioni di firme per destituire Berlusconi. Come dire: vorrei cacciarlo, ma mi serve il consenso… Questa sì che è democrazia!
Bersani sembra sempre più la controfigura di Maurizio Ferrini: anche lui non capisce ma si adegua.
Leone e pecorina
Sul bunga bunga e sulle “erezioni anticipate” tutti hanno detto tutto. Aggiungere un’opinione personale significherebbe solo ricalcare quello che altri hanno già dichiarato e ribadito. Inutile.
Sottolineo dunque un altro aspetto, inerente il circuito dell’indotto che gravita attorno alla vicenda e che riguarda il modo di informare.
Porta a Porta è costretto a parlare di Sanremo, a promuovere il film di Ricky Memphis, a rispolverare Avetrana, pur di non approfondire le abitudini di Arcore e della Villa delle Libertà.
Il Tg1 fa molto meglio. Dovendo azzardare un paragone tra la vicenda Ruby e quella di altri celebri politici rovinati dai presunti scandali, riesuma l’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone, costretto a dimettersi per lo scandalo Lockheed.
La vicenda è nota. Nel 1972 alcuni esponenti del mondo politico e militare furono accusati di aver intascato tangenti per la fornitura di aerei americani, giudicati dall’aeronautica militare “troppo costosi”. In effetti fu dimostrato che solo cinque dei quattordici aerei acquistati, potevano volare. L’episodio, molto complesso, si risolse con la condanna di molti illustri personaggi e con l’assoluzione di Leone, vessato però da una campagna d’opinione che lo costrinse a dimettersi. Anni dopo i suoi accusatori gli chiesero pubblicamente scusa. Facile trarre il parallelo: come accadde per Leone, potrà succedere che domani molti chiederanno scusa a Berlusconi, quindi pensateci bene a reclamare la sua destituzione.
Paragone azzardato. La nebbia di quella tangentopoli non è rapportabile al limpido chiarore della nostra concessionaria di “escort”. Il paragone, semmai, va cercato in altri politici, vittime della “porca assassina”. Ad esempio in Clinton o in Marrazzo: entrambi accusati, entrambi colpevoli, entrambi dimessi.
Diritto d’asilo
Posted by Giullare in Cose di paese on 18 gennaio 2011
Questo doveva essere l’articolo di A PARER MIO dell’ultimo Voltapagina, poi però mi sono auto censurato perchè a volte sono troppo polemico. Per questo blog però, decisamente meno politically correct, può andare bene lo stesso
Noi andavamo “all’asilo dalle Suore” a piedi. Davanti all’entrata non si vedevano processioni d’auto, al massimo qualche mamma con la 126 tracimante di bambini. Le giostrine del cortile non s’appoggiavano su tappeti di gomma a norma UE, ma traballavano su un solco tondo, scavato in mezzo alla ghiaia appuntita. Non c’erano gli scivoli anti barriere architettoniche: c’erano invece degli enormi tubi di cemento, che nella nostra fantasia sembravano i vagoni di un treno. Ci faceva da mangiare la Maria del Ricardo, che non aveva certo il diploma di educatrice, ma che preparava una pastasciutta sublime (molto più apprezzato dai bambini questo secondo requisito, rispetto al primo). Credo non ci fossero particolari percorsi educativi da seguire. Di certo se facevi arrabbiare, Suor Matilde ti metteva in riga alla svelta.
Da qualche tempo, quel luogo ha cambiato forma ancora una volta. L’Amministrazione, adempiendo ad una delle sue promesse più ambite, ne ha fatto un nuovo asilo nido. Le aule si sono ridotte, i bagni sono divenuti più funzionali e in quello che fu l’immenso refettorio è stata ricavata una camera per dormire.
Sarà poca cosa, ma è qualcosa. Non si tratta di una nuova struttura (per la quale erano stati preventivati 800.000 euro di spesa), ma della sistemazione di un edificio esistente. A volte risparmiare non significa per forza rinunciare. Chi sminuisce gli interventi architettonici non comprende la portata di un tale servizio. Chi delegittima la scelta di investire sul vecchio asilo ricavandone una nuova scuola, nega l’evidenza di un compromesso storico. Quello cioè di spendere poco e di avere un servizio completo, ampio, largamente sentito.
La sensazione, come spesso mi capita, è quella del processo alle intenzioni. Cosa avrebbero detto gli stessi oppositori di questa scelta, se in tempi di ristrettezza economica si fosse speso un milione di euro per un nuovo asilo nido?
Piuttosto, la lacuna dell’Amministrazione è quella di non aver spiegato con sufficiente trasparenza la scelta di affidare l’incarico alla Cooperativa Orizzonti. È dunque lecito criticare e chiedere spiegazioni per questo aspetto, ma non per la scelta inequivocabile di realizzare un asilo che non c’era più.
Il cesso e il bagno
“Era una casa molto carina
senza soffitto senza cucina.
Non si poteva entrarci dentro
perchè non c’era il pavimento.
Non si poteva andare a letto
perchè in quella casa non c’era il tetto.
Non si poteva fare la pipì
Perchè non c’era vasino lì”
(S. Endrigo – La casa)
Per risparmiare un po’ sui rivestimenti dei cessi, sono andato a prendermi le piastrelle direttamente a Fiorano Modenese, col Doblò di mio zio: due viaggi a Modena nello stesso giorno, compresi carichi e scarichi manuali. Il Doblò se l’è cavata col pieno; io col mal di schiena.
In uno dei due servizi metterò un vecchio mobile della nonna, debitamente ripulito, sverniciato, carteggiato, stuccato e ridipinto dal sottoscritto. Per qualche altro mobiletto invece, sarò costretto a bussare dal signor Ikea. È il destino di noi poveracci.
Il prefetto di Genova, invece, sembrerebbe aver fatto le cose un po’ meglio. Per ristrutturare l’appartamento di rappresentanza, avrebbe speso cifre inenarrabili. Si parla di 10.000 euro per il bagno turco, 9.000 per la vasca idromassaggio, 5.000 per i rivestimenti, 12.000 per un prezioso marmo verde. In totale circa 100.000 di fattura… Insomma, mandarlo a cagare significa assicurargli un vero lusso.
Affari suoi, si potrebbe obiettare. Se può spendere simili cifre, buon per lui. Peccato però che il conto l’abbia pagato il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, quindi un po’ anch’io.
A saperlo prima, facevo volentieri un giro in più a Modena.
Per una vita in volo, tra le nuvole
Del lungo soggiorno a Roma, mi rimarranno nella memoria anche i percorsi arerei. Due anni, viaggiando tutte le settimane da Villafranca a Fiumicino e viceversa, non sono pochi.
Gli aeroporti, si sa, vivono di vita propria. Regole, spazi, tempi e cittadini propri. Un mondo a parte, che nei primi tempi si tende ad odiare, ma che a poco a poco si finisce per amare. Scoprire i segreti per velocizzare le manovre, osservare gli angoli più nascosti o gli stereotipi più frequenti. Diventi pian piano parte di un mondo che poco tempo prima faticavi a comprendere.
Il film che meglio abbraccia questo stile di vita, uno stile denso di adorabili pregi e invaso da complicati difetti, è “tra le nuvole” di Jason Reitman.
Un’eccellente George Clooney e un’accattivante Vera Farmiga sciorinano manie e segreti del viaggiatore, sottolineando il fascino della libertà e gli inevitabili limiti di un’esistenza senza solide radici.
Ai colleghi sempre in viaggio, o agli amici che si lamentano di una vita poco dinamica, consiglio vivamente la visione. Non è un film capolavoro, ma semplicemente un bel ritratto di un mondo parallelo a quello della vita normale. Gradevole.
E se qualcuno non avesse la disponibilità del film, io lo posso prestare con facilità.
Il gioco è una cosa seria
L’altra sera una rete Rai ha trasmesso la pubblicità progresso del Governo, contro la dipendenza dal gioco: “esagera coi sogni, ma gioca responsabilemente”, o qualcosa di simile. Lo spot successivo è stato quello del sito di scommesse Bet&Win. Un po’ come quando il vecchio spot antitabagismo andava in onda dopo le interviste di Zeman.
Ormai lo stato italiano si regge (anche) sulle gabelle del gioco. Si sa: se eliminassimo i Gratta&Vinci e l’Enalotto, finiremmo peggio della Grecia. Una scelta di politica economica vecchia e discutibile, ma ormai assodata e lungi dall’essere rimessa in discussione.
Finiamola almeno con gli spot bugiardi e ammettiamo serenamente che più gente si rovina al gioco e più lo Stato fa cassa. Il gioco è una cosa seria.
Da Giobatta del Piat a Gregore della Tor
Non so se avete letto l’ultimo editoriale di Voltapagina dal titolo “Acqua che passa…”. A parte il fatto che sfido chiunque a dirmi chi è Giobatta del Piat, ho pensato bene di rispondere all’autore, mandandogli una mail. Di seguito trovate la mia mail e sotto ancora l’editoriale apparso il mese scorso.
Egregio signor Giobatta,
ho letto con interesse il suo spunto di riflessione “Acqua che passa…”, pubblicato nell’ultimo numero di Voltapagina.
Mi ci rivedo, è vero, davanti la filòs a raccontare e ad ascoltare ciò che un tempo eravamo capaci di dirci. Mi ci rivedo anche davanti alla prima televisione, quando con la mia famiglia stavamo stretti stretti ad aspettare Carosello.
Ha ragione lei, se ci voltiamo indietro vediamo un’Italia che in cinquant’anni ha corso con velocità crescente, un’Italia che è salita in Vespa, e oggi si ritrova sugli aerei low cost.
La televisione, come è giusto che sia, ha accelerato anch’essa, inseguendo (o precedendo) tutti noi che andavamo di corsa.
Non mi dispiace che al posto di Mario Riva sia arrivato Gerry Scotti, né che Fiorello abbia rimpiazzato Alighiero Noschese. Ridevo vedendo la pubblicità di Calimero, ma anche quella di Totti in fondo non è male. Però ha ragione lei: la moderna tv (oggi non c’è tempo neppure di scrivere “televisione”) è decisamente mediocre. Mediocre nei suoi contenuti (non c’è più nulla di culturale) e mediocre nei suoi messaggi.
Eppure non serve andare indietro di cinquant’anni per ricordare una televisione decente. Ricordo che anche negli anni ’70 le cose andavano bene. Canzonissima si guardava volentieri, qualche buon film non mancava mai e i giornalisti sapevano fare quasi tutti il loro mestiere. Per ridere poi… bastavano Cochi e Renato.
Ma poi cos’è successo? Un signore con pochi capelli (poi gli cresceranno) ha inziato a fare impresa con la tv e facendo vedere un po’ di tette ci ha legati alla poltrona. Ha soppiantato l’idea di cultura, con quella di pubblicità. Mio figlio guardava la Freccia Nera, mio nipote registra le puntate di Amici. Basta contenuti, solo reclame.
Ha ragione lei: abbiamo desistito di fronte al degrado incombente, abbiamo ceduto lasciandoci assuefare passivamente, siamo capitolati fievolmente giorno dopo giorno. Però, signor Giobatta, non crede che questo scadimento tragga origine da un preciso padre predone?
Non serve essere schierati politicamente (io non ho etichetta alcuna, e me ne vanto) per riflettere, guardarsi indietro e chiedersi chi ci ha portati a questa tv et, igitur, a questa società senza spina dorsale.
Con immensa stima, Gregore della Tor (o se preferisce… Silvio Baù)Acqua che passa…
di Giobatta del Piat
Era ancora viva cinquant’anni fa l’usanza dei filòs. Nelle nostre campagne visse ancora per un decennio prima di rimanere completamente estraniata dall’evolversi delle vicende e dalla modernità.
Non fu solamente il benessere, che andava diffondendosi, a determinare il cambiamento; quanto alcuni elementi meno sottintesi come la televisione, la quale partecipò in modo determinante alla metamorfosi in corso.
Non c’era più motivo di andare ai filòs per conoscere “ che nöe gh’èra”, o per ingannare il tempo nelle lunghe notti invernali, riscaldandosi con gli umori delle vacche sopra giacigli di paglia; la novità era divenuta una scatola di legno verniciato lucido, tinto mogano, oggetto invidiabile e alieno posato in bella mostra su un carrello dalle smilze gambe in metallo cromato lucido e liscio come i denti del forcone. Era arrivata la televisione. Oggetto diabolico, una sorta di cinematografo senza pellicola che materializzava, in modo incredibile e misterioso cose e uomini; quasi come un sogno ad occhi aperti.
La televisione fu un fenomeno senza pari, che contribuì a conoscersi, riconoscersi, a confrontarsi in un’Italia lunga e diversa da nord a sud.
Anche se il fenomeno aveva avuto i natali formali nella prima metà degli anni 50 da noi, arrivò dopo un decennio.
In quei tempi, il mondo stava già cambiando per effetto dei benefici che la ricostruzione aveva alimentato. La bicicletta l’avevano tutti; era tempo di vespa e i ventenni sognavano la macchina.
Erano passati neppure quattro lustri dalla fine della guerra e le cose erano ormai molto cambiate. I giovani immaginavano un futuro diverso da quello conservatore dei loro padri. Lavorare i campi per mietere una volta l’anno era una prospettiva accettata senza entusiasmo e condotta in attesa di tempi migliori. Fu soprattutto la televisione a mostrare i confronti tra la campagna e la città, a favorire quella straordinaria migrazione verso le catene di montaggio che già tra le due guerre aveva ammaliato i primi pionieri. Alla fine degli anni ’60 la prima metamorfosi ebbe compimento e… addio filòs.
Adesso, Ernesto Bernacca si è sostituito al vento delle filastrocche per dirci che tempo farà e Alighiero Noschese ci fa morire dal ridere imitando i politici. Il maestro Alberto Manzi fa lezione alla televisione alla sette di sera e spiega tanto bene che si capisce tutto; forse meglio della maestra. Le notizie, adesso, arrivano persino dall’altra parte del mondo, dall’America; le racconta Ruggero Orlando, un tipo anzianotto con l’erre moscia.Poi nei varietà una certa Raffaella Carrà mostra le gambe con una disinvoltura da far arrossire chi la guarda. Il mondo è proprio cambiato.
Basta con le sottane lunghe e nere, è arrivata la minigonna, sono arrivati i blu jeans, la ciuinga che fa tanto scic, si balla lo shake e il cha cha cha; le sale da ballo incarnano quella voglia di libertà e di rifiuto degli schemi che comincia ad affermarsi in ogni settore della società.
Basta lavare al fosso, l’acqua è arrivata nel cortile o addirittura in casa in casa; basta con l’energico lavoro stagionale di far bollire il bucato con lisciva e sapone : è arrivata una polvere bianca appiccicaticcia che fa diventare tutto bianco e candido; lo consiglia un pulcino nero chiamato Calimero.
Il vento del cambiamento, da allora, non si è più arrestato.
Arrivarono giorni felici, ma anche i giorni del piombo e delle Bierre; il sangue sulle strade e le stragi innocenti. Arrivarono i perché; e furono molti. Non sono ancora finiti e mai finiranno.
Sono passati cinquant’anni, da allora, e l’usanza dei filòs è talmente lontana che per taluni è addirittura incredibile.
La televisione è cresciuta con noi; anche più di noi. Non ha mai messo di raccontarci storie affascinanti, anche d’oltre mare. Il pulcino sfortunato e nero che si chiamava Calimero non c’è più; forse è morto, chissà. La sua polvere bianca e appiccicaticcia oggi ci dice che “sbianca più del bianco”; e così la mia signora, anch’essa attaccata alla lenza della tivù ne compra due alla volta.
Non è più come ai nostri tempi che si mangiava quello che il “convento passava”. Mio nipote sta crescendo bello e sano perché fa una dieta equilibrata mangiando una bella “fetta al latte” al mattino per colazione e un buon “chinder cerali” a metà pomeriggio; poi se durante la giornata lo prende, un languorino che non è proprio fame ma voglia di qualcosa di buono, mia cognata sa bene che può dargli un buon “duplo” perché è sano e nutriente.
Anche nell’abbigliamento siamo cambiati. Adesso non è tanto importante vestirsi, quanto apparire. La mia vicina, Angela, veste sempre poco e succinto e mi dice che vorrebbe fare l’attrice ed anche partecipare al programma delle veline alla tivù. Dice che non vuole sposarsi perché l’uomo è un oggetto da usare e basta; dice che vuole cambiare vita; dice che vuole divertirsi perché si vive una sola volta. Non so dire, se la capisco, ma… anche noi volevamo farlo qualche decennio fa e poi con l’età sono iniziati dubbi.
Siamo nati in un mondo sano tra gente semplice, onesta e di parola. Abbiamo imparato soprattutto quello che abbiamo visto fare dai più grandi di noi, verso i quali nutrivamo innato rispetto. Volevamo cambiare nel vigore del nostro sviluppo, per migliorare noi e aiutare la nostra famiglia. Un cambiamento che significava, nelle intenzioni, maggiore ricchezza, possibilità di sfuggire da quelle maglie di povertà e mediocrità che rendevano ristretto ogni nostro desiderio.
La televisione cinquant’anni fa, in queste zone, era il nuovo che arrivava e noi gli abbiamo creduto; come un dio. Anche noi volevamo cambiare il mondo ma… non, come oggi accade, dissetarsi e basta. Volevamo cambiare in una sorta di eroico slancio per cambiare prospettiva a noi e ai nostri figli. In questo desiderio collettivo, penso, ci siamo riusciti. Non possiamo negarlo. La ricchezza e arrivata copiosa; ci ha inebriato e travolto. Ci ha cambiato modo di vivere. Mai più potremmo tornare per la strada dalla quale siamo venuti; andremo avanti; e lo faremo con tutti; chi in testa al gruppo, chi in mezzo, chi in coda. Porteremo anche la televisione, se qualcuno lo vorrà. Personalmente non m’interessa. Penso e dubito di Lei, della sua falsa bontà e delle sue promesse. Cogito ergo sum.