È ormai abitudine che almeno una volta l’anno mi ritrovi con l’amico Simone (di seguito Vicensa) per imbragarmi e dare l’assalto a qualche bella parete. L’impresa alpinistica di quest’anno è la ferrata Bolver Lugli (dai nomi dei finanziatori), che risale da Col Verde alla Cima Vezzana, nel comprensorio delle Pale di San Martino.
Dopo la salita pomeridiana di 700 mt, trascorriamo la serata e la notte al rifugio Rosetta, tra strampalati ricordi ed abbondanti grappe alle erbe alpine. La notte si fa subito problematica per entrambi: i materassi scomodi, il fetore e le russa della camerata ci tolgono il sonno. Come sempre, quando non mi addormento mi innervosisco, pensando che il giorno dopo sarò stanco. Quasi tutta la notte è in bianco.
Di primo mattino lanciamo la carica alla parete rocciosa. La prima mezzora è una salita libera, senza assicurazioni metalliche. I° e II° grado d’arrampicata, roba facile. Tuttavia il non essere legati mi inquieta e mi dà un po’ d’apprensione. Finalmente il cavo! E una salita verticale che si fa subito aspra (alla fine saranno 700 i mt di ferrata). Qualche buon passaggio tecnico, qualche sforzo sovrumano per superare brevi tratti in sporgenza e molta esposizione. Chiedo a Vicensa di immortalarmi nel punto più panoramico della via, ma lui scuote il capo: “non ce la faccio, sono sfinito, andiamo su”, mi sussurra con cipiglio gemente e piangente. Il panorama è fantastico: il paese di San Martino si fa piccolo piccolo, mentre la Pala ed il Cimon sono lì e quasi quasi si possono toccare.
Arriviamo al bivacco dell’anticima dopo due ore di intensa arrampicata. Ho un quarto d’ora di vantaggio su Vicensa. Questo mi permette di godermi da solo il silenzio di quest’angolo di paradiso, prima che la carovana di gente che ci segue arrivi a fare rumore e confusione.
Eccolo, barcollante, madido ed esausto. Vicensa arriva ciondolando, ma visibilmente soddisfatto. Il tempo di mangiare qualcosa poi gli chiedo se saliamo alla vetta. Basterebbe un’ora di sentiero per raggiungere la sommità della Vezzana (3192mt). Invece il mio compagno d’avventura mi costringe a rinunciare. Dopo tutto quello sforzo, abbandoniamo proprio sul più bello. La vetta è lì, ad un soffio, e invece noi riprendiamo gli zaini per scendere.
Una discesa peggiore della salita, tra un ghiaione a tratti ricoperto di neve ed un canalone di rocce sgretolanti che ci fanno davvero rischiare l’incolumità.
Arriviamo a pezzi, contenti dell’impresa ma con tanti sassi nelle scarpe. Non ultimo quello della cima mancata, che probabilmente non vedremo mai più.
(Autoscatto prima di partire: la ferrata sale nel mezzo della parete che si vede alle spalle)
#1 by paio at 24 agosto 2009
Darwin!
Vicensa andava abbattuto o counque abbandonato dal branco.
#2 by Gianluca at 24 agosto 2009
E comunque se non erro un giorno avevi messo una citazione che diceva che in un viaggio conta di più la strada per raggiungere la meta della meta stessa…
o forse me la sono inventata…
#3 by Silvio Baù at 26 agosto 2009
La frase che potrei avre detto è forse quella di Faletti (“L’importante non è quello che trovi alla fine di una corsa, l’importante è quello che provi mentre corri”) e la sottoscrivo. Però cazzo…
#4 by vicensa at 27 agosto 2009
Ma il vero il cruccio di Silvio non è tanto raggiungere o meno la cima, quanto invece le poche foto (2 in parete) che gli scatto ogni volta per immortalare il suo Ego sconfinato… quanta pazienza…
#5 by Silvio Baù at 28 agosto 2009
Due foto, di cui una mossa. Io gliene avrò fatte 10