“Qui si chiama fatalità.
Combatti il terrore, prova a dargli faccia e nome”
(Litfiba – Terremoto)
Alle 2.50 di mercoledì scorso, l’ennesima scossa tellurica a Roma. “Richter 5.2” diranno i siti internet già nella prima mattinata. Sufficiente per abbattere la punta dell’obelisco sulla Cristoforo Colombo, quello che riuscivo a vedere dalle finestre dell’ufficio.
Alle 2.50 mi trovavo nel mio letto, a rigirarmi tra i precoci caldi dell’estate romana ed i fumi lievi di una falanghina campana, scorsa troppo abbondantemente durante l’ultima cena “da Franco ar vicoletto”. Pochi istanti per sentire il letto oscillare, muoversi, tremare. Qualche secondo per focalizzare la situazione e rendermi conto che questa volta si trattava del terremoto, non dell’ingombrante esuberanza della stanza a fianco. Nel dormiveglia, un lampo di lucidità. Mi sono detto: “se non termina entro il 3 (1, 2 e…3!), devo alzarmi e fare qualcosa”. Pochi secondi, che mi sono parsi minuti lunghissimi, e tutto si ferma. “Bene”, mi rassicuro. Giro il fianco e riprendo impassibilmente il sonno.
Pochissime volte in vita mia mi sono accorto dei terremoti, quasi mai ho avvertito pericoli di questo genere. Non so perché, ma in questi frangenti non ho nemmeno la sensazione del rischio. Ieri ho ripreso tranquillamente a dormire, ma accade anche in montagna, dove ho poca paura degli azzardi e dei pericoli incombenti e sono sempre gli altri a tirarmi indietro. Oppure col fuoco e i botti, che anzi mi attraggono. Superomismo? Non direi. Ho il terrore dei topi e degli uccelli, delle grotte e dell’acqua buia.
Paura e coraggio, panico e fermezza… poi mi chiedo quanto siamo grandi noi nel dominare queste situazioni con il nostro comportamento e quanto invece lo siano il destino, il fato, il caso, Dio, nel sormontarci, qualunque siano le nostre reazioni. Le solite domande, insomma, alle quali mai saprò dare risposta.