Mi schiero tra i disillusi, quelli che fatalmente non credono che ci possa essere una via d’uscita. Appartengo alla schiera degli scettici, che per la crisi mediorientale non riescono ad ipotizzare soluzioni plausibili e sostenibili. Come si può fare? Semplicemente, non si può fare.
La ragione che sta a monte di tutto il conflitto va ricondotta alla povertà del territorio. Ragioni e torti dei due popoli si mescolano in un vortice infinito, partorito storicamente nella notte dei tempi. Però tutti i fanatismi religiosi che ne sono scaturiti, peculiari di chi non ha altre chances nella vita, affondano primariamente le radici in un fertile vuoto economico. Attecchiscono laddove l’ignoranza e l’indigenza precludono qualsiasi via d’uscita. Laddove non c’è futuro per se stessi e per i figli, perché l’unica possibilità è la morte.
I turchi innestati nel nord Europa, raggiunto il benessere economico, hanno ammorbidito i propri estremismi e abbandonato i radicalismi religiosi, quasi integrandosi. Perché cambiando l’aspettativa di vita, si moderano gli ideali. Processo poco nobile, se volete, ma efficace per salvare la pelle.
Così in Palestina. Non è perseguibile alcuna soluzione “partigiana”, che decreti la supremazia di una parte a discapito dell’altra. Si può solo lavorare per una lenta e graduale integrazione, iniziando dallo sviluppo economico che permetta di migliorare le condizioni di vita dei palestinesi. Un’apertura culturale che schiuda le menti delle nuove generazioni (di tutte), per un progressivo affrancamento dalle imposizioni formative di chi crede irrimediabilmente al conflitto.
I temporanei “cessate il fuoco”, o le risoluzioni Onu da avanspettacolo, non produrranno mai alcun effetto a lungo termine. Si sostengano invece le economie di quei territori, si inizino davvero programmi culturali ad ampio raggio… li si faccia evolvere. In fondo la cultura della vita è anche questo.
La via d’uscita del vicolo cieco
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