Spesi parole buone per Donadoni, in tempi non sospetti. Non posso certo pugnalarlo ora, nel momento in cui una sgarrupata lotteria dei rigori ne ha decretato la fine nazionale e la caduta nel vasto limbo degli illustri perdenti. Concordo: non abbiamo visto bel gioco, né fantastiche invenzioni, ma appartengo alla scuola di pensiero che attribuisce agli allenatori il 10-20% dei meriti o demeriti di tutta la squadra. Questo non significa che non l’avrei sostituito. In un ambito come quello della nazionale, dove gli obiettivi sono inderogabilmente e imprescindibilmente tarati su scala temporale di due anni, è fisiologico parlare di cicli biennali. Per questo sarebbe opportuno stipulare contratti della stessa durata, rinnovabili o esauribili naturalmente, sulla base dei risultati ottenuti.
Il punto, però, è un altro. L’esonero poteva essere gestito con stile e signoria, le stesse che Donadoni ha sempre mostrato e che anche i critici più infervorati gli hanno sempre riconosciuto. Attendere l’epilogo della competizione, per esempio. Evitando, cioè, di additare nell’allenatore il capro espiatorio di tutto lo sfortunato gregge. Smorzando toni e riconoscendo l’impegno profuso, per scansare l’antipatica abitudine dello scaricabarile.
Donadoni, mestamente, si è fatto da parte senza urlare. L’ennesima lezione di stile agli strateghi dell’organizzazione. Al suo posto l’eroe di guerra, Lippi. Quello che avrebbe preso “a calci nel culo i giocatori”. Almeno l’etichetta è coerente.