Archive for luglio 2007
La battaglia che non t’aspetti
È stata una battaglia. Una delle più indomite, e forse la più vigorosa, del mio curriculum montano.
Iniziamo dal principio. L’obiettivo è il giro delle tre cime del Bondone, percorso che comprende la Cima Verde, il Dosso d’Abramo ed il Cornetto. Nell’itinerario è prevista una breve, ma intensa ferrata. La guida ci assicura che se fosse arrampicata libera, si tratterebbe di un VI° grado. Gianluca ed io siamo tranquilli: dopo l’esperienza della Pisetta di qualche anno fa, sappiamo che non può esistere ferrata più difficile. Quanto al cammino… beh abbiamo fibra per reggere lunghi ed impegnativi percorsi.
Partiamo a spron battuto e guadagniamo velocemente la prima vetta. La Cima verde ci restituisce un panorama del Brenta davvero spettacolare. Il grigio sconfinato del comprensorio che abbiamo alle spalle sembra arginarsi solo contro l’azzurro del cielo limpido. È il primo dei tre traguardi e come l’alba dei giorni di battaglia più felici, la giornata sembra promettere altri successi. Scattiamo qualche foto, un sorso d’acqua. Poi, all’improvviso, come un fulmine che s’accompagna al tuono, ecco l’attacco del nemico più improvviso. Mi abbasso per riprendere lo zaino e mi ritrovo costretto a gettarmi a terra. Cado, o forse mi lascio cadere. Sento uno strattone alla schiena, una fitta di dolore lancinante. Potrebbe essere un dardo, un giavellotto od un semplice pugnale. No, è la mia vertebra che fa i capricci…
Riesco a malapena a restare seduto, soffro e coricandomi mi bagno il viso di strazianti lacrime. Piango più per la rabbia che per il dolore. Non riesco ad alzarmi. Dopo qualche minuto Gianluca mi aiuta a sollevarmi. Nulla da fare, non sono in grado di raggiungere la posizione eretta. Inizio a pensare che non solo non finiremo il nostro itinerario, ma che scendere sarà un’impresa da titani.
Ingoio a stomaco vuoto due Aulin e mi metto la bottiglia d’acqua ghiacciata nella schiena. Desidererei un litro di Voltaren da iniettarmi all’istante nel dorso, ma debbo accontentarmi. Qualche attimo e con l’aiuto del mio commilitone mi rialzo in piedi. “Proviamo”, gli dico. Si offre di portarmi lo zaino e lo rassicuro del tentativo. Cercheremo di raggiungere la seconda vetta, dove si trova la ferrata. Poi valuteremo il da farsi. Di scendere, proprio non ne abbiamo voglia.
Il medicinale in dose equina sembra fare effetto. Il ghiaccio regge e il cammino non pare impegnativo. Arriviamo alla ferrata e ci guardiamo negli occhi. La parete verticale sembra chiamare la sfida. Nel silenzio della montagna ci pare quasi di sentire una voce. La razionalità mi strattona dall’altra. È folle, è sciocco salire ancora. Stando eretto sto quasi bene, sono i piegamenti che mi dilaniano il busto. Decidiamo irragionevolmente di andare. La via è verticale e per procedere serve la forza fisica delle braccia, proprio quella che non ho e che non ho mai avuto. Mi arrangio con molta tecnica, ma è durissima. Non ci sono appigli ed il cavo diventa l’unica via d’uscita. Dietro di me sento i lamenti di Gianluca che inizia a fare paragoni irriverenti con le ferrate precedenti. È una guerra e non si può fuggire. La ferrata attraversa uno spettacolare foro nella roccia. Il sole, che entra dall’alto, ricorda il tunnel luminoso che di solito porta al paradiso. Metafore? Non credo. Sto per uscire e vedo il moschettone sporco di sangue. Mi guardo le mani, un dito gronda di denso liquido rosso. Probabilmente mi sono tagliato con la roccia, ma l’adrenalina della salita non mi ha fatto accorgere di nulla.
Finalmente usciamo e raggiungiamo esausti la seconda vetta, il Dosso d’Abramo. Lascio sul libro della cima la mia frase della giornata: “Salire con la schiena rotta… non ha prezzo”.
Ci aspetta la discesa, ma non c’è due senza tre. Il Cornetto richiede appena un’ora di deviazione, non possiamo rinunciare alla vittoria finale. Salgo con la schiena che non si piega ed il dito in bocca, per evitare ulteriori spargimenti di sangue. Arrivati a quota 2180 guardiamo alle spalle le altre due croci appena conquistate. E sorridiamo felici.
La discesa, dopo la gloria del campo di combattimento, assume il tono di una passeggiata tra vecchi reduci. All’accampamento non gozzoviglie di legionari consumati ma una birra che sancisce la fine del conflitto. È stata durissima, ma abbiamo vinto.
L'addio del Pupo e della marionetta
Grazie al cielo ci siamo tolti il Pupone dalla nazionale. Ne ho fatto una battaglia personale, come chi dedica la vita al volontariato o si batte per la tutela dell’ambiente o dei diritti umani.
La “soap opera de noantri” ha raggiunto un epilogo, o forse solo l’inizio di una nuova serie. Il capitano giallorosso, che sputa dalle vetrine mondiali e aborrisce la lingua italiana, ha rinunciato a rappresentarci. Siamo afflitti, ma confido che sapremo presto riprenderci.
Intanto, nell’idioma di trastevere è già montata in sella la tesi del complotto contro i giocatori del sud. Re Francesco lamenta che i media hanno trattato in maniera difforme le precedenti rinunce azzurre di Baggio e Maldini.
Si guardi allo specchio: troverà altre significative differenze tra se stesso e loro due.
La gara di Pistorius
È facile lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle gesta sportive di Oscar Pistorius, l’atleta disabile che è riuscito a competere in una gara di velocità con sportivi normolinei. Sorprende la sua vigoria fisica ed ancor prima la forza psicologica che lo ha spinto a questi sorprendenti successi. Si comprende benissimo anche il suo desiderio di riscatto, che gli ha regalato prima un sogno e poi la possibilità concreta di realizzarlo.
Tuttavia i sentimenti di empatia e di pietas umana non possono offuscare in alcun modo la razionalità e l’oggettività della questione in ballo. Pare, ed in ogni caso occorrerà verificarlo per bene, che le protesi dell’atleta riescano in qualche modo a favorirne le prestazioni. Un vantaggio di attrito, o un’agevolazione di spinta… poco importa. Il punto è che l’atleta sudafricano non può essere equiparato ad uno sprinter “normale”. È scomodo ammetterlo, ma non si può biasimare la federazione internazionale che per ora si è pronunciata per la sua esclusione dai giochi olimpici. Non ha, nè può avere, le caratteristiche di idoneità per gareggiare nelle competizioni tradizionali. Ma l’opinione pubblica, trascinata da furenti sentimenti di filantropia, sponsorizza le ragioni dello sportivo. Il Tg1 lancia addirittura un sondaggio per perorarne la causa.
Perché tacciare di intolleranza chi ne chiede l’esclusione? Per una volta bisognerebbe superare l’emotività del momento ed essere più oggettivi. Vogliamo Pistorius alle olimpiadi perché è giusto e lecito che partecipi, o piuttosto perché ci fa tenerezza vederlo correre con le gambe in carbonio?
Scegliere sotto l’impulso della pietà che il suo caso umanamente suscita, non significa forse discriminarlo ancora di più, impedendogli un trattamento da persona davvero normale?
Viaggio in Andalucia
“Vamos a la playa todos con sombrero
el viento radioactivo despeina los cabellos”
(I Righeira – Vamos a la playa)
L’Andalucia è un territorio incantato, effervescente; un luogo dove la cultura della Spagna cattolica si mescola a quella dell’Africa islamica. Regione di frontiera, spruzzata dai mari, dai venti e da tanto sole. Dicono sia la Spagna “vera” e più tipica. Noi l’abbiamo trovata affascinante e suggestiva.
Abbiamo cercato di assaporare l’aria andalusa toccando alcune città e paesi, ma non abbiamo saputo resistere alla tentazione di fermarci al mare, per ritemprare fisico e mente, e per godere appieno del clima meraviglioso.
Dopo la scelta sempre vincente della formula “fly & drive”, questo è stato il nostro itinerario.
Martedì: Siviglia, l’elegante.
Approdare nella più grande città andalusa ci lascia subito esterrefatti. Fatichiamo a trovare parcheggio nelle trafficatissime vie del centro ed inizio già a pensare che la vacanza sia partita col piede peggiore. Mi conoscete: scrupoloso calcolatore di situazioni, meticoloso programmatore di tempi. L’idea di perdere minuti preziosi nella rincorsa al traffico mi innervosisce (n.b. le cose che mi rendono più nervoso sono il traffico e la fame. Immaginatemi sveglio dall’alba, digiuno, verso le 13, imbottigliato in una città straniera). Come accade sempre, la situazione si risolve presto. Troviamo anche un ottimo hostal, proprio a due passi dalla cattedrale, in Avenida de la Constitucion. Una chiesa magnifica e suntuosa. Saliamo anche sui 90 mt della Giralda: il panorama sulla città toglie il fiato. Le piazzette colorate sotto di noi sembrano sfumare e dissolversi nelle strette vie che escono dalla città. È bello girovagare per il centro, senza avere alcuna meta se non quella di “respirare” quanta più aria possibile di questa elegante città. I viali enormi ci accompagnano nell’imponente Piazza di Spagna. Edifici di pietra rossa, splendidamente ornati di ceramiche bianche e blu: un trionfo per la vista e per l’estetica. Facciamo un giro nel quartiere Barrio de Santa Cruz, per iniziarci al decantato rito delle tapas. Rimaniamo un po’ delusi… ci aspettavamo una cucina decisamente migliore. Un giro notturno ancora nel centro, poi a letto.
Vorremmo trattenerci ancora a lungo, ma ci attendono altre mete. Partire suona quasi come una violenza. Ma abbiamo deciso di “assaggiare” poco di molto, non molto di poco.
Mercoledì: Cordoba, la rurale.
L’auto affidabile ci consente di raggiungere velocemente Cordoba, meta più a nord del nostro itinerario. Troviamo facilmente un hostal a due passi dalla Mezquita. Prima di pranzo cerchiamo di orientarci. Vicoletti colorati si snodano attorno alla moschea-cattedrale, emblema della città. Vaghiamo nel giardino arabeggiante, tra rigagnoli d’acqua e piante d’arancio. Entriamo nella Mezquita e ci pare di essere approdati in un’altra dimensione. Un po’ come nei film fantastici, quando superando un muro magico si entra in un mondo irreale. È la sintesi perfetta della guerra tra Islam e Cattolicesimo, crogiuolo suntuoso di culture e religioni contrastanti. Il susseguirsi degli archi fa girare la testa e se non fosse per il via vai di turisti si coglierebbe anche una dimensione di antica e profonda spiritualità. Quella spiritualità che supera i confini delle religioni, che avvicina l’uomo a Dio, qualunque Dio sia.
Torniamo a perderci nuovamente nel dedalo del quartiere ebraico della Juderia, tra le zingare che ci offrono rametti portafortuna, fontane nascoste, giardini privati e negozi coloratissimi. Cena all’ottimo Museo delle Tapa y del Vino, poi una passeggiata oltre il ponte del Guadalquivir, per fotografare la Mezquita anche di notte.
Giovedì: Granada, la fascinosa.
Nel tentativo di raggiungere una zona centrale ben definita dove parcheggiare, mi ritrovo in macchina nel quartire arabo dell’Albaicin, costretto a ripiegare gli specchietti per poter passare tra le case propotentemente a ridosso degli angusti vicoli. Un susseguirsi di salite e discese, che portano chissà dove e chissà come. Anche qui la fortuna ci sorride: troviamo parcheggio e un bellissimo hostal proprio sotto l’Alhambra, a pochi minuti dalla cattedrale. Iniziamo subito la ripida salita che tra stretti vicoli e suggestive gradinate porta al palazzo-fortezza. Immenso. Due ore non bastano per visitare bene tutto il complesso. Palazzi con interni magnificamente rifiniti, torrioni difensivi, fontane e giardini splendidamente rigogliosi. Vasche e giochi d’acqua impressionanti per l’epoca della progettazione. L’Alhambra, che dall’alto della rupe domina Granada, ci regala un panorama su tutta la città. Torniamo a piedi nel quartiere arabo, per fotografare la fortezza in tutto il suo splendore. Ancora a piedi tra i vicoletti moreschi, prima di cenare e andare a dormire. Rimarrà il ricordo del gazpacho, che incuriosito ho deciso di ordinare, ma che schifato non sono riuscito a terminare.
Dedichiamo l’intera mattinata al centro storico che gravita attorno alla cattedrale. Imponente tra le case, non la ricorderemo come la migliore delle chiese. Pomeriggio, è tempo di ripartire.
Venerdì: Ronda, la misteriosa.
Ci spingiamo verso l’atlantico, per avvicinarci alla meta marina che vorremmo raggiungere. La distanza è troppo elevata e occorre fare una tappa intermedia: la cittadina di Ronda fa proprio al caso nostro. La strada panoramica tra le montagne della Serrania de Torrecilla, ci regala alcune foto, tra cui il castello di Teba.
Dopo i fasti e le confusioni delle grandi città appena viste, abbiamo bisogno di ridimensionarci. Ronda è un centro relativamente piccolo, ma non meno affascinante dei precedenti. È costruita a picco, sulle due sponde del fiume Tajo, sospesa a 100 mt dall’acqua e collegata da due bellissimi ponti. Si respira un’aria strana, una miscela di fascino e mistero. A vederla di primo acchito, la panoramica della Ciudad dal Ponte Nuevo risulta quasi sinistra. Storie di battaglie e di costruttori morti nel baratro di quel fiume che scorre in fondo, lontanissimo, incrementano ancor di più la sua seduzione. Plaza del Socorro ci ricorda ancora una volta i paesini siciliani, laddove è ancora vivo l’influsso moro. Entriamo in una delle più antiche e prestigiose plazas de toros, raccogliendo un pugno di arena che si aggiungerà alla mia collezione di “sabbie preziose”. Cena a base di pesce come Dio comanda, alla Marisqueria Paco. Alla sera un giretto per la Ciudad araba.
Sabato: Zahara de los Atunes, il vero mare nostrum.
Sappiamo che il mare che incontra i nostri gusti non appartiene alla Costa del Sol, deturpata pressochè ovunque da abusivismo edilizio, cementificazioni selvaggie e orde di insopportabili turisti. A questo pro abbiamo deciso di raggiungere l’Atlantico, laddove esiste ancora un po’ di natura, dove le spiagge si alternano alle scogliere, dove il vento soffia forte ed il sole non tramonta mai. La presenza esclusiva di spagnoli ci convincerà successivamente che la nostra scelta non è sbagliata. Tutt’altro. Per raggiungere la meta ipotizzata di Zahara, dove non abbiamo prenotato nulla (come tutto il viaggio del resto), decidiamo di percorrere la panoramica verso sud, verso la Costa del Sol. Un susseguirsi di pueblos blancos (villaggi bianchi) ci offre un’ulteriore e stupenda dimensione della Spagna. Incontramo Benadalid, Algatocin, Gaucin ed il magnifico Casares. Pugni di case bianche nel rigoglioso verde delle montagne del Parco di Alcornocales.
Arriviamo a Zahara. Ci basta un’occhiata al mare ed al paesino per convincerci. Resteremo qua fino al termine della vacanza.
La spiaggia di dodici chilometri è limitata da scogliere bellissime. Le rovine di un castello moresco ed alcuni fortini della seconda guerra mondiale (immagino prevenzioni inutili realizzate per il D-day) aggiungono un po’ di storia alla bellezza del luogo. Il sole sembra non tramontare mai sulla Costa della Luz. Sono le 21.45 quando fotografo il primo tramonto. Rimarrà chiaro fino alle 22.30. Soffia un vento forte, a tratti fastidioso, ma che a me sembra stupendo. I pochi turisti, che macchiano di tanto in tanto l’enorme spiaggia, si riversano di sera nella miriade di ristoranti. Non credo ai miei occhi: sono capitato in un paese di ristoranti. Nessun negozio (solo qalche piccolo market e farmacia), ma tantissimi luoghi dove mangiare. Il paradiso, un po’ lo immagino così.
Mercoledì: Gibilterra, doverosa finzione.
Come intermezzo alla vacanza decidiamo che non possiamo rinunciare ad una visita a Gibilterra. Si trova ad un’ora di macchina, un’occasione unica ed irrinunciabile.
Dopo i controlli di rito, necessari per calpestare il suolo inglese, attraversiamo la pista dell’aeroporto che taglia la penisola. È strabiliante vedere il semaforo che blocca pedoni ed auto in caso di passaggio di aerei. Saliamo con un pulmino alla rocca. Il piccolo castello, le grotte e l’infinità di macachi non valgono assolutamente il viaggio. Mi consola il panorama, la vista del Marocco, la sensazione di calpestare una delle famose Colonne d’Ercole. Il centro città è una deludente riproduzione del paesino medio inglese. Pub dallo stile anglo, cabine telefoniche londinesi, streets dai nomi di politici britannici contribuiscono ad alimentare questo mito per i turisti. Ne esco un po’ deluso, ma felice di aver visto personalmente la reltà di Gibraltar.
Venerdì notte: Arcos e Carmona, tappe del ritorno.
Abbandoniamo Zahara la sera di venerdì. Il volo da Siviglia di sabato mattina ci spinge a trascorere la notte in viaggio, magari toccando qualche altra veloce meta.
Nel tragitto facciamo sosta ad Arcos dela Frontera, arroccata splendidamente sul crinale di una montagna. Il centro medioevale è molto bello. Abbiamo poco tempo… toccata e fuga.
Raggiungiamo Siviglia, ma mancano ancora alcune ore al volo. Ad una ventina di km dall’aeroporto conosciamo l’esistenza della città di Carmona. È notte fonda, ma torme di giovani ci ricordano che in Spagna la movida è un’istituzione. La Porta di Siviglia ci accoglie maestosa per l’accesso alle mura della cittadina, sorta proprio sulla via Augusta che collegava Roma a Cadice. È l’ultimo suggello di questo splendido viaggio.