Archive for gennaio 2007
Equo-solidale o coscienza da lavare sotto la doccia?
Ieri sera, dopo la solita e ripugnante partita a calcetto, ascoltavo sotto la doccia il commento di un collega a proposito del boicottaggio di industrie “sfruttatrici” da parte dei consumatori, atteggiamento molto in voga in questo periodo di battaglie ecologiche e sostenimenti solidali. Nessun biasimo al collega, che si è limitato ad osservare la sua attenzione nel discriminare alcuni e precisi prodotti di profumeria e cura del corpo. Ma una domanda mi è apparsa più che lecita: in queste battaglie che in varia misura tutti conduciamo, quanto è davvero motivato da vere scelte di principio e motivazione equo-solidale e quanto invece è dettato dal rabbonimento delle nostre coscienze? Lo facciamo perché siamo fervidamente convinti, o solo perché non ci costa nulla e ci permette di stare in pace con noi stessi.
Personalmente non ho mai condotto battaglie epocali in questo senso, limitandomi solo a non comprare dalle industrie più manifestamente coinvolte, Nike in primis. Però mi sono chiesto se questa mia propensione al consumo discriminato non sia in realtà lo stupido e palese tentativo di sentirmi in pace con la mia coscienza.
La fantanottata
Premessa: per acquistare un nuovo giocatore al fantacalcio, occorre mandare una mail a tutti i partecipanti, dalla mezzanotte successiva al giorno di pubblicazione delle quotazioni aggiornate, sino alle 14 del sabato.
Può capitare che ci sia la corsa ad un giocatore appena giunto in serie A, oppure ad uno che, cambiando squadra, migliorerà certamente le proprie prestazioni.
Io desideravo ardentemente acquistare un giovane attaccante del Parma, arrivato dall’Inghilterra e considerato preda ambita anche da molti altri. Per questo motivo sapevo che avrei dovuto mandare una mail a mezzanotte esatta, nella speranza di bruciare tutti sul tempo.
Esco dal lavoro con un’ansia da prestazione che solo Lino Toffolo di fronte alla Seredova potrebbe provare. Un pensiero fisso… e la paura di non farcela.
Gioco con i colleghi una partita di calcetto infame, con le gambe in campo, ma la testa lontana anni luce: ricordo “il fantasma” di Edmundo, a Firenze durante il periodo del Carnevale di Rio.
Un’attesa estenuante per arrivare sveglio e lucido alle 24. Una, due, tre mail (si sa mai che una parta con l’orario sbagliato) per intimorire gli avversari e opzionare Giuseppe Rossi (non Zico, n’è? Giuseppe Rossi…). Dopo la mia, arriva un’altra offerta: sono le 00.03, è Giulio Tabarelli a scrivere.
Mi corico alle 00.25 e per un’ora mi rivolto nel letto con l’agitazione del bambino che all’indomani se ne andrà in gita con la scuola. Ce l’avrò fatta? Qualcun altro avrà scritto e magari mi è arrivata la mail in ritardo? Magari ha scritto prima di me, ma vedrò l’e-mail solo domani perché si è fermata da qualche parte…
Non riesco proprio a prendere sonno. Alle 01.30 mi alzo e leggo un libro, perché di dormire non se ne parla. Alle 02.15 riprovo a sdraiarmi.
Dimentico il cell nuovo acceso ed alle sei mi arriva un sms di Wind che si complimenta perché potrò accedere al servizio wap. Nel dormiveglia leggo: “Complimenti! Wind si congratula con lei…” e mi chiedo: “Come cazzo fa Wind a sapere che ho preso Giuseppe Rossi?”
Finisco di leggere l’sms e mando a fare in culo la Wind, il telefono, Giuseppe Rossi e suo malgrado pure Zico.
Ritorno a dormire, ma è già mattina.
Non parteciperò mai più ad aste notturne. Credo.
Declino del Fenomeno
Qualunque tifoso rossonero ingentilito dal dono della ragione non potrebbe che riluttare di fronte all’ipotesi di trasferimento del “Gordo” al Milan. Solo una mente malata, o ignorante (che è quasi la stessa cosa), potrebbe gioire davanti all’approdo di Ronaldo sulla sponda rossonera dei navigli.
Da tempo ha smesso di giocare: un attaccante in pensione, discutibile sul piano professionale ed umano ancor prima che su quello tecnico. Grasso, lento… ormai solo uno sbiadito ricordo del Fenomeno che fu.
Chi lo vuole acquistare avrà certo le sue buone ragioni. Avere un uomo di rappresentanza, dal volto celebre, non è affare da poco in un’epoca in cui le squadre guadagnano di più vendendo ovunque la propria immagine, che vincendo trofei. Ma il tifoso comune, quello che vive di vittorie e non di diritti tv, non esulta. Anzi inveisce.
Lo ammetto, l’unica speranza (subito dopo quella che Ronaldo resti dove si trova) è che il Dentone riesca trovare una forma dignitosa e possa essere schierato in un derby. Se poi la fortuna gli permettesse di trafiggere la sua ex squadra, quella dei tifosi interisti, e portare a casa una vittoria da traditore… potrebbe anche entrare rapidamente nella schiera dei miei miti. Il tifoso, si sa, ci mette un attimo a cambiare idea.
Questioni di base
Il “sì” pressoché incondizionato di Romano Prodi all’ampliamento della base Usa in Italia e il conseguente malcontento sfociato alla stazione di Vicenza impongono alcune considerazioni.
LA NATURA DELL’OGGETTO. La base “in via d’estensione” fa capo alla Nato. Non si tratta di una vera e propria base americana, come strumentalmente viene raccontato, ma di un punto di riferimento dell’Alleanza Atlantica, di cui l’Italia fa parte. La storia e gli accordi internazionali impegnano il nostro paese a rispettare il Patto e a favorirne la coordinazione, prima ancora di beneficiare della sua azione. Prima di pregiudicare ogni scelta, occorre anche considerare questo aspetto e, all’occorrenza, metterlo in discussione.
IL SENSO DELL’OGGETTO. La questione non può non sollevare un interrogativo antico, ma sempre più attuale: quale significato può avere la NATO nel 2007? Ha senso un’Alleanza Atlantica vent’anni dopo il crollo del regime comunista? Ha senso un patto militare tra nazioni occidentali? E soprattutto: si tratta di una autentico accordo militare tra pari (come dovrebbe eventualmente essere) o piuttosto di un paravento per giustificare l’azione di un solo membro, quello statunitense, palesemente sopra le parti? Non sarebbe più logico smantellare questa struttura e predisporre una forza militare internazionale e davvero indipendente sotto l’egida ONU?
LA FACOLTA’ DELLA DECISIONE. Il consiglio comunale di Vicenza ha deliberato un parere favorevole all’inizio dei lavori, pur chiedendo ed ottenendo una serie di garanzie ambientali aggiuntive. Schieramenti parlamentari trasversali sostengono che questo atto amministrativo soddisfi pienamente il principio di democraticità della scelta, che prevede che sia la comunità indigena a decidere in autonomia su un provvedimento a ricaduta principalmente locale. Ma considerando la straordinarietà della decisione e l’enorme consistenza della sua portata, forse era il caso di consultare tutta la comunità (perché no, magari anche quella regionale) con un referendum. Di fronte ad impatti di questo genere, la delibera del comune assume il sapore dell’inadeguatezza più che della rappresentatività.
LA DIVISIONE. La titubanza di Prodi, la chiara presa di posizione del Ministro degli Esteri e dei partiti di centro insieme ai veti de substantia di Rifondazione, Comunisti Italiani e Verdi riportano a galla le ormai imbarazzanti divisioni che la coalizione governativa deve sopportare. Come ebbi modo di dire, un governo può spaccarsi su tutto, ma non sulla politica estera. Per il diritto internazionale, un governo che non sa come agire all’esterno (avere tanti indirizzi di politica estera, significa di fatto non averne alcuno) non può essere chiamato tale.
LA SOSTANZA DELLA PROTESTA. Chi protesta alla stazione di Vicenza brandisce le stesse armi verbali usate per manifestare contro la guerra in Iraq, contro gli Stati Uniti, contro la globalizzazione o il G8. L’impressione suscitata è che la protesta a senso unico provenga dai soliti e fatiscenti ambienti, capaci più di creare disordine che proposte concrete.
L’occasione di opporsi, aprendo un dibattito costruttivo ed ampio è sotto gli occhi di tutti. Sarebbe stato più utile non mandare ogni cosa alle ortiche inscenando la consueta contrapposizione ideologica, molto più utile alla conservazione dello status quo che al progresso politico e diplomatico di cui abbiamo bisogno.
“Del maiale non si butta niente”: cronaca di una giornata d’altri tempi
Posted by Giullare in Cose di paese on 12 gennaio 2007
Tutto inizia con Marcello, scaltro nel verificare per interposta persona la mia disponibilità a collaborare in un giorno in cui il sottoscritto avrebbe dovuto essere al lavoro. Manda in delegazione sua moglie Luciana, essendo lui troppo orgoglioso per ammettere di aver bisogno d’aiuto (in questo ricorda vagamente il figlio). Da qui comincio ad entrare in un’atmosfera particolare, fatta di ricordi, odori ed emozioni.
Rivedo tutti miei zii attorno ad un tavolo, con io, piccolo, che gioco con i cugini e faccio domande su ogni attrezzo, su ogni processo. Penso a mio nonno, che mi ha lasciato troppo presto e che adorava vedere i propri figli, e i figli dei figli, riuniti a lavorare davanti ad un unico focolare. Una scia di episodi mi investe come un faro abbagliante su una strada di aperta campagna: i cuginetti inconsapevoli, inviati per scherno a comprare lo “sgüra rece”; le mani sapienti della zia (camiciaia d’origine controllata e garantita) che legavano i salami ad una velocità sconvolgente; le costine alle due del pomeriggio, quando tornavo in corriera dalla lunga mattinata al liceo, tra consecutio temporum ed enjambement senza sapore. Ripenso anche ai valori in via d’estinzione, alla famiglia, all’unità, al lavoro manuale, al sacrificio e alla soddisfazione… cose che la tradizione contadina ci ha trasmesso e che ormai irrimediabilmente stiamo perdendo.
L’ansia che investe i bambini il giorno prima della gita, fa trascorrere la notte insonne a mio padre. Alle cinque lo sento alzarsi, dopo un quarto d’ora lo immagino operativo con la moka di caffè sul fornello e un sottogola da rifilare proprio in mezzo al tavolo. Scendo in campo in un orario per me assurdo ed inizio ad armeggiare con coltelli a varie misure e un costato che pare quasi umano. Il pallino della medicina legale è ancora vivo: me la cavo con discreta disinvoltura tra muscoli da sezionare, girelli da riconoscere e tessuti lardosi da scorticare. Un mestiere primitivo, manuale, brutale. Un’essenza e un fascino particolari e reconditi, difficili da apprendere, ma impossibili da scordare. Disossiamo, separiamo carni, maciniamo ed insacchiamo quello che il giorno prima era un povero maiale e che ora è carne. Solamente carne.
L’odore acre del macello e della carne fatta a pezzi si mescola alla pesante sensazione di fatica, allo spossatezza infinita dello sforzo fisico: se non fosse per l’ambiente chiuso, diresti proprio di essere in un campo di battaglia. Ecco allora che deponiamo le armi e seppelliamo gli ultimi nemici, che col passare delle ore sono divenuti gloriosi trofei.
Ci riposiamo, chiacchieriamo un po’ con lo zio giunto in extremis al momento di insaccare, giusto per non dare l’impressione di aver scroccato la cena e per mangiarsi anche una fettina di gloria.
Poi arriva la cena, dove i ricordi bussano incessantemente e dove le coscienze aprono volentieri la porta. Penso a quel libro rosso, che tutti i parenti firmavano è completavano dopo ogni “battaglia”, che ora giace esanime in un cassetto polveroso. Mi tornano alla mente i soliti discorsi sulla resa del maiale e quei conti strampalati, tracciati alla stregua di un droghiere su un foglio di Gazzetta o sopra il sacchetto del pane. E soprattutto ricordo il vecchio Lele, che dall’età della ragione non ha mai perso l’occasione di vivere a casa mia la celebre “cena degli ossi”. Ogni anno presenziava, col fare sornione e l’approccio del lupo di mare appena rientrato in porto, tra il calore degli amici più veri. Il suo usuale dibattito filosofico sulla maniera di cucinare il risotto, i suoi commenti sul vino, la sua diffidenza verso il dolce: lui, insomma.
Ecco perché “del maiale non si butta niente”: perché alla fine conserviamo anche le suggestioni e le emozioni che immancabilmente lo sfortunato verro suscita e trascina con sé.
Erba di casa mia
Se, come sembra, dei dirimpettai di casa arrivano ad uccidersi per banali screzi di vicinato, allora significa che la questione merita una riflessione molto attenta, che superi insomma il qualunquistico “stiamo tutti impazzendo”. La strage di Erba non può non porre seri interrogativi sociologici, perché occorre di fatto andare oltre la tragicità del singolo evento. “Moventi e perché” altro non sono che l’espressione di qualcosa di più profondo e radicato e purtroppo di grottescamente diffuso. Gli omicidi avvenuti in riva al Lago di Como non si spiegano semplicisticamente con se stessi. Va fatto un discorso ampio e generale: non tanto per prevenirne altri, ma per correggere, laddove possibile, un malessere dilatato e latente.
Ho ascoltato attentamente le parole di uno dei tanti sociologi intervenuti sull’argomento. A suo dire possiamo rimanere colpiti da accadimenti simili, ma non meravigliarci. In una società che subisce mutazioni improvvise e radicali della sua essenza, non ci si può più stupire di reazioni smodate e sconsiderate.
La cronaca degli ultimi anni è piena (sembrerebbe più di prima) di atroci tragedie di provincia. Coinvolge soprattutto tranquille province del nord, transitate in pochissimi decenni dalla povera monotonia del mondo agricolo, alla ricca frenesia di quello industriale. Imprese cresciute come i funghi, soldi spuntati sotto i cavoli e benessere diffuso. Ricchezza improvvisa per una società abituata a ritmi lenti ed abituali. Tutto e subito, commutando i vecchi sacrifici e i sorpassati principi. Ma anche stress e noia allo stesso tempo. E allora ecco bambini che lanciano sassi dai cavalcavia, giovani che frequentano la cocaina più dei loro amici, adulti che sterminano famiglie.
Sono eventi che non hanno una spiegazione certa, o per lo meno non ne hanno una univoca. Tuttavia partire da qui, cercando di non scivolare nell’inutilità della retorica, è già un buono spunto.
Un diamante chiamato Lubecca
“Lubecca è un piccolo diamante incastonato nel mezzo del fiume Trave”. Con queste parole ho salutato sul diario di viaggio, il nostro arrivo nella cittadina tedesca. Nessun consiglio da parte di amici, nessun servizio alla tv o altri reportage da rivista patinata. Lubecca l’ho scoperta da solo. Scegliere le mete di viaggio guardando la convenienza degli scali Ryanair è un metodo poco ortodosso, ma spesso risulta efficace. Memore poi degli studi universitari (perché qualche volta l’università serve a qualcosa), ho ricordato che Lubecca fu sede della Lega Anseatica, ovvero del primo modello di associazione tra città economicamente evolute. Città ricche ed indipendenti che nel XIII° secolo decisero di difendere vicendevolmente i propri commerci e i rispettivi profitti. La novità del prototipo anseatico è rappresentata dal fatto che non si trattò di un accordo finalizzato alla conquista di territori o all’intraprendimento di battaglie (come fino ad allora accadeva): fu solo un patto che molte città del centro Europa stipularono per definire le regole e fornire il reciproco aiuto contro l’imperare dilagante di piraterie e brigantaggi.
Lubecca è un’isoletta nel mezzo del fiume, a ridosso del Mar Baltico. Il piccolo centro storico, cui si accede dalla storica porta Holstentor, ospita diverse chiese gotiche, un austero municipio e un susseguirsi infinito di edifici in cotto. Tutta la città venne costruita con questo materiale, per sopperire alla mancanza di pietra nel territorio a ridosso del mare. I bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno distrutto molto del suo patrimonio, ma la ricostruzione minuziosa ha permesso a Lubecca di entrare a far parte del patrimonio dell’Unesco.
Da Lubecca abbiamo raggiunto in treno Amburgo, città completamente ricostruita dopo i disastri del secondo dopoguerra. Tuttavia la visita al campanile di St. Petri, ci ha permesso di ammirare un panorama completo, da 123 mt di altezza. Molto suggestivo anche il vicino paese di Ratzeburg, raggiungibile da Lubecca con un comodo autobus, collocato anch’esso su una sorta di isolotto, nel mezzo di quattro laghi.
La visita a Lubecca non impegna più di due giorni, pertanto consiglio a chi volesse avventurarsi verso queste lande di considerare anche altre mete aggiuntive. Ho l’impressione che la stagione migliore sia la primavera, per godere al meglio del paesaggio circostante e dei parchi a ridosso della città. Per noi l’inverno piovoso è risultato d’impedimento.
Da ultimo un consiglio sul vitto. Amo, ed amiamo, spulciare e scoprire i vari locali tipici, che ogni territorio immancabilmente ospita. Per la verità Lubecca non ne ha moltissimi, ma abbiamo avuto la fortuna di entrare nella birreria Bei Ulla. La qualità del cibo, i prezzi e soprattutto la gestione affidata a sei signore attempate ci ha fatti innamorare di questo posto. Rapiti dal suo fascino, siamo ritornati più volte fino a quando, nell’ultimo giorno, un cliente ci ha rivelato la bontà della nostra scelta. L’abitante del luogo ci ha infatti confessato che si tratta dell’unico locale interamente gestito da nativi di Lubecca, abituale ritrovo dei compaesani e degli amanti della vera tradizione.