Appelli alla pace nel trionfo della violenza


Si sciupano, in questo finale d’anno, gli auguri mielosi per un 2007 di bontà e di pace. Ma questo augurio, che i capi di stato, o i politici in genere, brandiscono nel vano tentativo di apparire originali, stride pesantemente con l’esecuzione capitale di Saddam Hussein avvenuta oggi.
Non è facile comprendere come il Presidente degli Stati Uniti possa auto-proclamarsi “esportatore di democrazia” e contemporaneamente sostenere la pena capitale. Non si capisce neppure come i vertici della Comunità Europea possano convincersi che il loro onere sia solamente quello di promuovere disinteressati appelli. Come se tacciare di abominio l’arretratezza culturale della giustizia irachena fosse sufficiente a salvare una vita. D’altro canto il Tribunale dell’Aja, preposto dalle Nazioni Uniti per giudicare i crimini contro l’umanità, ha perso l’occasione di dimostrare la sua efficienza e il suo ruolo sopra le parti: il processo di Saddam è stato tolto alla sua giurisdizione (ma allora a che cosa serve?) e affidato alla autorità giudiziaria irachena.
C’è di più. L’esecuzione di Hussein mi ha restituito un’amara sensazione di déjà-vu. La crudezza nelle riprese dei suoi ultimi momenti, le immagini dure del tiranno ucciso, la repentina profanazione del suo corpo, e i festeggiamenti incessanti che hanno coinvolto le principali città, mi hanno riportato alla mente Piazzale Loreto. Come se il popolo non si accontentasse di abbattere il tiranno, di condannarlo e di fargli espiare la pena. In preda alla sua ferocia, sembra piuttosto volere altra violenza: vuole uccidere, calpestare, deridere e profanare perché solo in questo modo si sente riscattato. Non era pace quella di Saddam, ma non può esserlo neppure questa. Buon 2007.

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