Archive for ottobre 2006
Padre, Figlio e Spirito Santo
È da un accenno giuntomi oggi, e relativo al Convegno ecclesiastico di Verona, che prendo spunto per muovere le mie osservazioni.
Esistono effettivamente tre livelli di Chiesa. Mi permetto di descriverli dal mio punto di vista e di attribuire ad ognuno di essi un nome, convinto che questo possa essere esaustivo delle loro caratteristiche intrinseche.
IL PADRE. È il livello più alto, quello istituzionale. È il livello delle conferenze e dei convegni, delle visite di stato, dei cum clave e degli urbi et orbi. È la Chiesa circondante il Papa e circondata dai “paponi”, cioè corteggiata dai poteri forti, dai gruppi politici, dalle lobby economiche. È la Chiesa che non consiglia, ma comanda, blandita (sic) e coccolata dagli altri e numerosi interessi che compongono lo Stato. Il livello del Padre appare sempre sotto la luminosa luce del giusto e del corretto: non sbaglia, ma giudica, non insegue, ma è inseguito. Compromettente contraddirlo, pericoloso schierarsi contro. Essendo appunto Padre, per definizione deve stare sopra a tutto: quindi non solo si eleva rispetto alla dimensione del “Figlio”, ma addirittura fatica a colloquiare con esso. Un Padre degenere, insomma.
IL FIGLIO. È il livello della società civile, l’alter ego dell’istituzione. Comprende i movimenti, le associazioni, il volontariato, i fedeli semplici e i comuni mortali. Da anni lo spettro della secolarizzazione, ossia del fenomeno che vede allontanarsi i fedeli dalla “religioneistituzione” e viceversa, ha scoperchiato il malcontento di questa dimensione della Chiesa. Sopra si parla una lingua diversa, inadeguata a capire i bisogni della società e dunque incapace di fornire risposte soddisfacenti. Accade quindi che per naturale forza centrifuga, il popolo si stacchi e perda aderenza. Il Figlio, insomma, prima o poi se ne va a vivere da solo.
LO SPIRITO SANTO. È la dimensione privata ed individuale, quella gestita dalla singola persona. Intima, specifica, inimitabile ed autentica. È il risultato finale, il prodotto dell’influenza e dei condizionamenti dei precedenti. Dogmi e principi, combinati con la vita della società civile, con la realtà delle cose, con la dimensione concreta, portano l’individuo a vivere (o non vivere) la fede in maniera sartoriale (perché “su misura”).
Inutile aggiungere che la condizione ottima per chi crede sarebbe che le tre dimensioni viaggiassero di pari passo. Inutile dire che questo non accade. Non ho le conoscenze per spiegarne i motivi, tantomeno detengo le doti acrobatiche per rivelare le soluzioni. Mi sono solo divertito a riflettere e a digredire in quest’ambito, a volte ostico e spesso tralasciato dai dibattiti più ricorrenti.
Tu chiamale se vuoi… emozioni
Parlando di “alti e bassi”, stamani ho scritto ad una persona amica quanto segue. Mi è parso, dopo, degno di riflessione.
A volte vorrei avere un guscio e chiudermi dentro, senza sentire i rumori e le persone. Vorrei ascoltare solo la mia mente, coccolarla, capirla. Anche col rischio di stare male.
Altre volte vorrei condividere con gli altri i dolori e le gioie che provo. Vorrei urlare: vorrei piangere stringendo corpi o ridere guardando occhi che ridono con me.
È tutto molto strano, come ti dicevo.
Ringrazio Dio di avermi dato una vita carica di emozioni. Belle o brutte importa poco in questo ragionamento. Perché tutte mi fanno assaporare i gusti diversi della vita, mi fanno capire cosa sia la vita e la bellezza che essa riserva.
Non sopporterei di vivere senza queste emozioni.
Auf Wiedersehen
Parrebbe brutto non parlare di un campione che lascia per sempre la Formula Uno, dopo sette mondiali vinti. Parrebbe brutto non parlare di un campione che ha reso grande la Ferrari, come non mai, riportandola ai fasti di un evo dimenticato. O forse, e più semplicemente, pare brutto farlo.
Non l’ho mai amato e non l’ho mai tifato. Primo, perché la Formula Uno è uno sport al quale non ho mai saputo appassionarmi (non me ne intendo, né intendo intendermene). Secondo, perché ho trovato pochi sportivi antipatici come Schumacher (forse solo Vieri e Biaggi). Terzo, perché quando tutta Italia tifava “Schumi, Schumi”, mi sembrava deontologicamente scorretto accodarmi alla massa.
Oggi dunque non piango il suo ritiro. L’evento, anzi, mi lascia piuttosto indifferente.
Diceva Enzo Ferrari che “è la Ferrari che rende grande un pilota, non un pilota che rende grande la Ferrari”. Per questo motivo d’orgoglio, egli non avrebbe mai scelto un uomo come Schumacher per arrivare a vincere. Resterò tra i pochi che conserveranno più nostalgia per parole come quelle che per piloti come questo.
New York, sette vizi capitali
Ecco sette motivi per visitare New York ed altrettanti sette per non farlo.
1) È una città multietnica. In realtà è difficile capire se sia davvero popolata da centinaia di nazionalità, oppure se gli abitanti vadano considerati tutti apolidi. Sta di fatto che si respira un’atmosfera strana: non esiste il diverso, perché il diverso è la normalità.
2) La maggioranza dei tassisti non capisce nulla di quello che si dice loro. Insomma puoi permetterti di decidere tu le regole dello slang, tanto il tassista non ti capirebbe comunque e se ti capisce è per il gesto con la mano che gli hai fatto. Alla fine scendi dal taxi convinto di aver parlato un perfetto dialetto del South Dakota e per qualche minuto pensi che potresti insegnare benissimo italiano alla Columbia Univerisity. Al primo “fuck off” ricevuto, ritorni con i piedi per terra.
3) I grattacieli. Appena arrivato a Manhattan inizi ad evocare le teorie falliche dell’architettura classica oppure ad interrogarti sul bisogno recondito dell’uomo di tendere verso Dio. Capisci cosa poteva provare un mercante del 1200 quando arrivava alle porte di San Giminiano.
4) I jeans. Poter entrare in un negozio Levi’s con la disinvoltura dell’ingresso in tabaccheria è una soddisfazione che occorre togliersi. Se guardi il prezzo non è per decidere quale modello è consigliabile scegliere, ma solo per capire se prendere uno o due paia dello stesso modello.
5) La sicurezza di Manhattan. È impressionante rendersi conto di quanto una città così ricca sia altrettanto scarna di rischi. Paradossalmente mi sono sentito più in pericolo parcheggiando a Mantova che passeggiando per la quinta strada.
6) La frenesia della gente. Ti ritrovi turista statico in una città dinamica. Tutto corre e tutto scorre, e dovunque tu ti muova, ogni cosa o persona è sempre più veloce di te. La sensazione è quella dei birilli gommati che sorvegliano le carreggiate dei flipper. Piacevolmente inebetente.
7) Il fuso. Pensare che quando vai letto, i tuoi colleghi stanno per alzarsi… non ha prezzo. Val bene un lungo viaggio.
Motivi per non andare:
1) È una città multietnica. In realtà è difficile capire se sia davvero popolata da centinaia di nazionalità, oppure se gli abitanti vadano considerati tutti apolidi. Chi cerca “l’America” rimane deluso. Al suo posto una versione free-style di Cina, Pakistan, Portorico, India…
2) La maggioranza dei tassisti non capisce nulla di quello che si dice loro. Sali con la speranza che prestino attenzione almeno alle dita che usi per indicare il numero della street. L’ottava volta che ti ritrovi a Brooklin, mentre volevi visitare Central Park, capisci che il metrò non è poi così malaccio…
3) I grattacieli. Appena arrivato a Manhattan ti assale la “sindrome da costruttore edile”. Fotografi qualsiasi palazzo grigio che sovrasti la tua testa. Riempita la scheda sd della fotocamera, ti rendi conto che anche qualche scatto con la tua faccia potrebbe essere gradito ai genitori.
4) I jeans. Entri in un negozio Levi’s e temi di essere finito al mercato della frutta. Prendi coscienza quando inizia a chiedere una bilancia per pesare i tuoi 501.
5) La sicurezza di Manhattan. Se a piedi sbagli un semaforo, rischi il carcere a vita oppure il trapianto di femore.
6) La frenesia della gente. Dopo una settimana ti viene il dubbio: o sei tu che hai problemi seri di deambulazione, oppure sono questi che mettono le anfetamine nei bigmac.
7) Il fuso. All’andata poco male. Al ritorno rimani rincretinito per giorni. Dopo pranzo vorresti il tè coi biscotti, mentre alle quattro di mattina ti svegli con una gran voglia di hamburger e patatine.
Canzone per un amico
Posted by Giullare in Cose di paese on 2 ottobre 2006
“Lunga e diritta correva la strada,
l’auto veloce correva.
La dolce estate era già cominciata,
vicina a lui sorrideva.
Forte la mano teneva il volante,
forte il motore cantava.
Non lo sapevi che c’era la morte
quel giorno che ti aspettava.
Non lo sapevi, ma cosa hai pensato
quando la strada è impazzita.
Quando la macchina è uscita di lato
e sopra un’altra è finita.
Non lo sapevi, ma cosa hai sentito
quando lo schianto ti ha uccisa.
Quando anche il cielo di sopra è crollato,
quando la vita è fuggita.
Vorrei sapere a che cosa è servito
vivere, amare, soffrire.
Sull’autostrada cercavi la vita
ma ti ha incontrato la morte.
Voglio però ricordarti com’eri,
pensare che ancora vivi.
Voglio pensare che ancora mi ascolti,
che come allora sorridi.”
(Canzone per un’amica – Nomadi)
All’epoca delle superiori-università quante volte ho ascoltato questa canzone? In macchina col Cugi, con l’Andrea, col Tui? Quante volte l’ho cantata insieme al Lele, storpiando le voci e accompagnati solo dalla chitarra onnipresente del Paio? Cento, duecento volte? Forse di più.
Non l’ho mai ascoltata come si dovrebbe, non l’ho mai presa sul serio. La utilizzavamo cinicamente come overture dei lunghi viaggi. Tra le risate del Tui e le testa scossa del saggio Cugi…
Mi è tornata alla mente in questi giorni, da sola, senza alcun bisogno di sfogliare le pagine di un canzoniere né di ascoltare improbabili cd. Mi è tornata alla mente e ho pianto, benché non avessi più energie per piangere.
Ho pianto, pensando che sono stato l’ultimo a pagare al Lele l’aperitivo (cioè l’atto di vita sociale che più gradiva). Ho pianto, soffermandomi su “cosa ha pensato quando la strada è impazzita”, su “cosa ha sentito quando lo schianto l’ha ucciso” (si può sentire e pensare a qualcosa in quegl’istanti?). Ho pianto, perché a lui che amava tanto vestirsi bene, non è stato possibile neppure fare indossare l’ultimo abito.
Ora ho paura di rileggere le sue e-mail, ho paura di ascoltare il cantante che solo noi due adoravamo.
Qualcuno che lo amava ha chiesto a me se il Lele ora è da qualche parte. Che ne so io? Perché lo chiedi a me? E poi… si va davvero da qualche parte? Chi l’ha detto? Come si fa ad affermarlo con tanta sicurezza?
Non lo so, se sei da qualche parte o se proprio non ci sei più: “voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi. Voglio pensare che ancora mi ascolti, che come allora sorridi.”
A breve (troppo a breve) andrò a New York, in un viaggio che pianifico da almeno quindici mesi e che sogno da almeno quindici anni.
Il Lele non amava viaggiare, ma so che New York era una delle poche città che lo affascinava. Porterò con me una sua foto e la lascerò là. Nel patetico e stupido tentativo di fargli fare il viaggio che non potrà più compiere.