Se l’Italia dovesse guidare il contingente militare internazionale in Libano, sarebbe indubbiamente il raggiungimento di un risultato prestigioso. Sarebbe un ragguardevole successo della politica estera. Si affermerebbe l’autorevolezza internazionale del nostro paese e “contare” internazionalmente implica molti vantaggi. L’autorevolezza nei rapporti internazionali significa peso nelle decisioni centrali. Poter decidere e poter influenzare le scelte dell’Unione Europea, ad esempio, è fondamentale. Le politiche economiche ed agricole dell’Europa hanno una ripercussione sostanziale sulla nazione-Italia. Ed anche l’idea di un paese forte e stabile può promettere evidenti favori (si pensi agli investimenti esteri).
Acquisire appeal nella vetrina internazionale è dunque un mezzo per ottenere vantaggi. Per questo la classe politica italiana si è schierata quasi unanimemente a favore dell’assegnazione del comando al nostro paese. I pochi pareri contrari ed isolati dovrebbero far meditare. All’estrema sinistra ci si arrocca su veti assurdi, temendo (a torto) di tradire ideali superiori. All’estrema destra si teme che il “prestigio dell’Italia” venga confuso col “prestigio di Prodi” e per questo si rema contro. Ma la scelta è giusta.
È chiaro che questo compito deve essere svolto solo in presenza delle più tutelanti garanzie.
– Il mandato deve essere sotto l’egida Onu. Questa condizione, peraltro già operativa, permette di distinguere una missione di guerra da una missione di pace. Infatti solo il mandato Onu può garantire la “non arbitrarietà” di un intervento armato. Giungere in Iraq, senza un mandato della comunità internazionale, altro non è che un atto arbitrario emanato da uno stato contro un altro. Un atto di guerra insomma.
– Devono esserci regole chiare e definite in maniera condivisa. Deve essere l’Onu stessa che detta le regole. Sono le cosiddette “regole d’ingaggio”. L’Italia, in sostanza, deve sapere quali sono i limiti e le facoltà entro i quali muoversi.
– Oltre alle regole, è necessario acclarare gli obiettivi. Siano essi, come in questo caso, di peace building o di peace keeping.
– L’impegno e le risorse (fisiche ed economiche) forniti dalle nazioni che partecipano alla missione devono essere dichiarate fin dall’inizio. Al fine, più che ovvio, di non ritrovarsi a capo di un’armata brancaleone, incapace di onorare gli impegni e dequalificante per chi opera il comando.
Se queste garanzie saranno rispettate, e se ogni circostanza onorerà i crismi più sacri, l’Italia avrà l’occasione di interpretare un importante ruolo di protagonista nel nuovo (speriamo) film che sta per iniziare in Medioriente. Al contrario, col venir meno di una qualsivoglia variabile, co-parteciperemmo alla solita proiezione di sempre, senza infamia e senza lode. E senza un futuro accettabile per nessuno.
Perché comandare in Libano
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#1 by Gianluca at 29 agosto 2006
Dal sito di Grillo
Riporto un appello di padre Alex Zanotelli e della Rete lilliput sulla missione in Libano. Appello che io sottoscrivo e che pone molte domande a cui spero il Governo voglia rispondere.
“Sembra essersi formato un consenso generale sull’opportunità/necessità che l’Italia partecipi alla Forza Internazionale di Interposizione in Libano. È indubbio che per arrestare la spirale di violenza che sempre più insanguina il Medio Oriente, e si estende pericolosamente al resto del mondo, sia più che mai necessario un impegno attivo della comunità internazionale, sotto la guida dell’Onu. L’esito di un tale impegno dipende tuttavia in modo determinante dalle condizioni in cui verrà attuato e condotto. Sembra più che mai necessario richiamare l’attenzione del Governo, del Parlamento e di tutti i cittadini su alcuni punti molto delicati.
Una prima considerazione doverosa è che la guerra in Libano ha occultato il problema palestinese. Non sembra accettabile, in particolare, che la comunità internazionale ignori completamente il fatto che Ministri e Parlamentari di un paese che dovrebbe essere sovrano siano stati sequestrati (ancora dabato 19 agosto il vice-premier, Nasser-as-Shaer), imprigionati, ed almeno in un caso anche torturati. In nessun altro Paese un simile intervento straniero potrebbe venire tollerato: perché nessuno reagisce nel caso di Israele? È inaccettabile il silenzio del Governo italiano.
Venendo alla costituzione di una Forza Internazionale di Interposizione, essa deve ubbidire ad alcune condizioni fondamentali ed elementari: è evidente che non possono farne parte militari di un paese che non sia rigorosamente equidistante tra i due belligeranti. L’Italia ha stipulato lo scorso anno un impegnativo Accordo di Cooperazione Militare con Israele, che inficia in modo sostanziale e irrimediabile la nostra equidistanza. Il Diritto Internazionale impone, come minimo, la preventiva sospensione di tale Accordo, i cui termini dettagliati devono assolutamente essere resi noti all’opinione pubblica.
È il caso di ricordare ancora che Israele ha partecipato a manovre militari della Nato svoltesi in Sardegna, nelle quali si saranno indubbiamente addestrati piloti ad altri militari israeliani, impegnati poi nella guerra in Libano. Da queste circostanze discende una ulteriore condizione: è necessaria una garanzia assoluta che il comando di questa Forza di Interposizione rimanga strettamente sotto il comando dell’Onu, e non possa essere trasferita in nessun momento alla Nato.
È assolutamente necessario, inoltre, che le spese della missione non gravino ulteriormente sul bilancio dello stato italiano, e in particolare non comportino riduzioni delle spese sociali, ma rientrino nel bilancio del Ministero della Difesa per le missioni militari italiane all’estero.
Queste sembrano condizioni fondamentali e irrinunciabili per la partecipazione del nostro paese.
Rimangono però altre riserve. Appare singolare e tutt’altro che neutrale il fatto che una Forza Internazionale di Interposizione venga schierata sul territorio di uno dei due Paesi belligeranti, quello attaccato, e non sul loro confine. Deve essere chiaro pertanto che, finché tale forza opererà in territorio libanese, essa deve essere soggetta alla sovranità libanese, e che non potrà in alcun modo essere incaricata del disarmo né dello scioglimento di Hezbollah. Queste condizioni operative esporranno comunque i militari che compongono questa forza ad agire nel caso in cui avvengano (reali o pretese) provocazioni: come potranno opporsi con la forza all’esercito israeliano, tutt’ora presente in territorio libanese? Non ci si facciano illusioni sulle regole d’ingaggio, che verranno decise dall’organismo che guiderà la missione, e non dal nostro Governo. Riteniamo giusto richiedere anche che il contingente militare sia affiancato da un congruo numero di volontari disarmati.
Deve infine risultare estremamente chiaro che questa Forza di Interposizione non potrà mai, e in alcun modo, essere coinvolta in una ripresa o in una estensione del conflitto. Così come deve essere escluso un suo impiego per proteggere le ditte italiane che si lanceranno nel lucroso business della ricostruzione del Libano.
É necessario fugare con molta chiarezza qualsiasi illusione che l’interposizione militare, anche nelle migliori condizioni, sia risolutiva per il conflitto in Medio Oriente, soprattutto per risolvere la fondamentale questione palestinese. Chi arresterà la distruzione delle case, delle coltivazioni e delle infrastrutture dei palestinesi, gli omicidi mirati (in palese violazione di qualsiasi norma giuridica)? Chiediamo pertanto che, prima di inviare un contingente italiano, il nostro Governo ponga con forza a livello internazionale l’esigenza irrinunciabile del dispiegamento di una forza internazionale di pace anche a Gaza e in Cisgiordania, a garanzia della sicurezza di Israele e come condizione per la creazione di uno Stato Palestinese.
Chiediamo che su queste questioni fondamentali vengano prese ufficialmente decisioni chiare, esplicite e trasparenti, e si esigano le dovute garanzie a livello internazionale”.