Alle volte mi chiedo dove sia finito il popolo di Seattle. Più “in piccolo”, mi chiedo dove sia finita la sua falange italiana. Dove sono finiti i no global che manifestavano al G8 di Genova, quelli che confondevano Green Peace con la lotta alla Nike, la pace in Iraq con l’attacco alla Coca Cola. Quelli che osteggiavano, a ragione, la globalizzazione straripante delle multinazionali, ma dimenticavano lo straripamento globale dell’economia cinese.
L’impressione è che sotto l’egida di valori autentici e condivisibili (la lotta ai crimini delle multinazionali, appunto) si celi una strumentalizzazione politica. L’utilizzo di uno scudo che rimanda a valori nobili, per combattere qualsiasi battaglia. Anche la più assurda. L’esempio del movimento pacifista è paradigmatico ed emblematico. Merita una trattazione a parte, ma la sola sua citazione rende l’idea di quanto intendo sostenere.
Sergio Romano dalle pagine del Corriere asserisce che la battaglia di questo movimento no-global sui veri temi della globalizzazione sia venuta smorzandosi per l’attenuazione del sostegno ideale dei paesi in via di sviluppo. In sostanza, poiché anche a Cina, India e Brasile farebbe comodo la globalizzazione dei sistemi economici, allora anche i paladini dell’antiglobalizzazione avrebbero abbassato le loro spade. Ma io non concordo. Credo che l’affievolirsi di questa protesta risieda in ragioni più sostanziali. Credo, e mi ripeto, che il cavallo chiamato no-global fosse prima, e sia ora, solo un mezzo per percorrere le più disparate contestazioni.
La contraddizione dei no-global
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