ACCADDE OGGI
Attualmente gli introiti televisivi costituiscono la maggioranza relativa delle risorse dei grandi club di serie A. Il concetto è tanto chiaro quanto logico: le tv, per trasmettere le immagini delle partite, e dunque per ottenere introiti da sponsor televisivi e pacchetti d’abbonamento, debbono pagare chi produce lo spettacolo. La squadra di calcio, ogni volta che scende in campo, fa intascare soldi. La tv, trasmettendo le immagini, ottiene danari da abbonati in poltrona e da sponsor in vetrina. Il guadagno televisivo altro non è che terziario: sfruttando la materia prima dei club, si fornisce un servizio che genera profitto. Per questa ragione, naturale e debita, le squadre negoziano i diritti televisivi.
Assodata la ratio, il pettine si arresta sul nodo del “come” vengono negoziati questi diritti.
“Attenti al come”, dunque.
IL DIBATTITO
I club più ricchi e blasonati sostengono che sia giusto condurre trattative singole. Siccome una squadra attira più spettatori e, per la proprietà transitiva, anche più sponsor di un’altra, è giusto che ottenga un premio maggiore. Contrattando singolarmente con le tv, ogni squadra stabilisce il “prezzo” della propria immagine.
La contrattazione collettiva, invece, prevede che congiuntamente tutte le squadre negozino con le televisioni: ottenuta la torta, si procede tagliandola tutta quanta in le fette uguali.
Solo una concezione “comunista” della distribuzione delle risorse può appoggiare aprioristicamente quest’ultimo principio. Uso l’ avverbio “aprioristicamente” non a caso. Sarebbe infatti sbagliato sostenere la negoziazione collettiva, se non ci fosse un ulteriore elemento in gioco. Ovvero il concetto del Circolo vizioso. Se una squadra ottiene più soldi perché è più vincente, ergo più meritevole, è molto probabile che continui a vincere perché ha più soldi. In questo senso il circolo da viziato (si mette in moto solo con i soldi) diventa vizioso (i soldi vanno a chi vince… vince chi ha più soldi… e così via).
Guardando la storia degli ultimi anni e gli albi d’oro sulle nostre librerie, ci si accorge che si tratta di un principio (ma forse sarebbe meglio dire: di un assioma) pressoché matematico.
Escludendo il caso sociologico e patologico dell’Inter, le squadre vincenti in Italia sono di fatto solo le due più ricche.
LA POSIZIONE
A complicare il panorama concorre anche il ruolo conflittuale del Presidente del Consiglio.
Da milanista, faccio fatica a non notare che la sola Forza Italia si oppone a legiferare in nome della contrattazione collettiva. Non conviene a Berlusconi lato Milan, non conviene a Berlusconi lato Mediaset.
Da “meritocrate”, mal digerisco la soluzione della negoziazione collettiva tout court. Che azzera le differenze, che annulla ogni merito.
Il tentativo di ripartire a metà i diritti (50% singolarmente con contrattazione privata, 50% collettivamente con quote uguali) ha dato risultati poco rassicuranti in Inghilterra, a dimostrazione che le mezze misure portano solo a mezzi risultati.
Che posizione prendere dunque? Per chi ama il calcio e ne sostiene l’affrancamento totale dalla politica (non si legga in questa frase il solito monito demagogico e qualunquista) la cosa essenziale è chiedersi che tipo di campionato si vuole. Un campionato a doppia velocità ? Dove le solite due squadre si contendono la vittoria finale, mentre le altre diciotto contemporaneamente lottano solo per un posto in champion’s league? O un campionato più competitivo, dove Chievo e Udinese possono almeno “sognare”? Dove l’esito di Reggina-Juve non è così scontato, dove si parla meno dell’ingaggio di Cassano e più del vivaio dell’Atalanta?
Non esiste una soluzione “giusta per principio”. E’ solo chiedendosi cos’è bene per il calcio che diventa possibile trovare una risposta.
Ricordo con vivida memoria e sublime piacere le favole della Sampdoria di Boskov, del Verona di Bagnoli o del Napoli di Maradona.
Oggi sfoglio una Gazzetta con tre pagine dedicate a Sky, cinque articoli sugli investimenti sbagliati di Moratti e un reportage sull’ennesimo vitalizio di Vieri…